La Chiesa dell’Elettrosofia, 1994
Delicatessen
Operation Cue, 1955, Yucca Flats, Nevada.
Un menu commemorativo per il personale militare e i dignitari presenti alla detonazione di un test di bomba atomica vicino a Las Vegas.
Natale anticovid in comune
Il menu di Natale di Luigi Veronelli
Non esce quotidiano, settimanale, rivista, rotocalco, mensile, almanacco, che non offra, sotto Natale, un menu natalizio; gira e rigira è sempre la stessa storia volgarizzata da donnette tutto fare, che niente sanno fare, se non copiare.
No, io non voglio darvi, per il gran giorno, consigli; vorrei che tutti rifaceste il pranzo di casa vostra, alla vigilia, o a mezzogiorno di Natale, o alla sera, come usavano i vostri vecchi e con i loro piatti. Sarebbe, nel tempo, un esaltante ritorno. Niente consigli, allora, solo vi racconto la «mia» cena di Natale.
A casa mia, di Natale, si mangia la zuppa di formaggio e la tacchinella ripiena con salsicce e castagne; neppure ci passa per la mente di prepararle in altra epoca dell’anno. (Nei tempi andati, l’ho scritto, la nonna la zuppa ce la confezionava la sera della vigilia e, dopo la messa di mezzanotte, la estraeva bruciante dal forno; ci riscaldava lo stomaco. Riscaldava? Bruciante aveva da essere; ma forse è il ricordo a tradirmi e il gelo di quelle notti innevate).
La zuppa è rimasta, sia pure alla sera dopo, ed anche la tacchinella e fa fede dell’origine; perché a Natale ci si ritorna in una sola famiglia ed è vera la contentezza delle madri, come diceva il Foscolo, nel vedersi i figli d’intorno.
La zuppa al formaggio – Mettere in una terrina di terracotta o meglio di porcellana, della capacità di 4-5 litri, 20 grammi di burro fresco e una cipolla tritata e farla cuocere a fuoco lento fino a che la cipolla ha preso un bel colore biondo. Aggiungere allora due bicchieri di buon brodo di manzo (uhei, almeno qui, davvero brodo di manzo), una fogliolina di lauro, una pizzicata di pepe rosso, un pizzico di spezie fini e del pepe bianco macinato al momento; fare ridurre il brodo di metà ed eliminare la fogliolina di lauro. Disporre nella terrina alternativamente, uno strato di fette di pane «posso» (pan poss è detto, in milanese, il pane raffermo) e uno strato di fettine fini di buon gruviera, e bagnarli, ognuno, con 5 cucchiaiate di buon brodo; continuare procedendo nella stessa maniera e terminando con uno strato di fette di pane; introdurre nel forno la terrina munita del suo coperchio e bagnare, ogni 5 minuti, la preparazione con un bicchiere di buon brodo sino a che il liquido copra l’ultimo strato di pane. Lasciare nel forno a temperatura dolce, non meno di 4 ore; dopo questo tempo levare la terrina dal forno. Se la zuppa è troppo spessa bagnarla con una quantità sufficiente di caldissimo brodo (deve tuttavia avere una certa consistenza).
La tacchinella ripiena – Sbucciare 750 grammi di castagne, metterle in una casseruola con una costola di sedano, ricoprirle di brodo di tacchino e dare 25 minuti di cottura dal momento dell’ebollizione; sgocciolarle, spellarle e farle raffreddare; metà lasciarle intere, metà passarle allo staccio, incorporarvi tre cucchiaiate di buon cognac e passarle nuovamente allo staccio per ottenere una purea omogenea. Riunire in una terrina:750 grammi di carne di salsiccia fresca (vi auguro un buon salumiere), le castagne intere e la purea; condire con un pizzico di sale e di pepe nero pestato nel mortaio e amalgamare delicatamente ma anche ben bene l’insieme. Con questo ripieno farcire una tacchinella di due chili e mezzo ben preparata per la cottura, legarla solidamente, condirla con sale e altro pepe, ricoprirne il petto con fette di lardo grasso fresco (fissarle con un fine spaghino) e avvolgerla in un foglio di carta bianca bene imburrata. Versare in una teglia grande del brodo di tacchino (la sola quantità necessaria a coprirne il fondo), mettervi sopra una griglietta con la tacchinella e cuocerla nel forno a calore piuttosto sostenuto per un’ora e tre quarti e anche due. Una ventina di minuti prima che la tacchinella sia cotta al punto giusto ritirarla dal forno, toglierle la carta, le fette di lardo e rimetterla nel forno; continuare la cottura cospargendola con burro fuso. Negli ultimi dieci minuti condirla con sale e pepe (sempre nero e pestato nel mortaio) ma, per averla ben dorata, non cospargerla più con burro. Ritirarla, eliminare lo spaghino con cui è stata legata e disporla in un piatto di servizio ovale ben caldo. Nel fondo di cottura mescolare qualche cucchiaiata di brodo, far sobbollire per un paio di minuti, mescolando e staccando il fondo ben bene con un cucchiaio di legno, passare al passino fine, sgrassare e completare con un pezzo di burro fresco e con qualche goccia di succo di limone. Servire la tacchinella ben calda passando a parte la salsetta.
Con la tacchinella io bevo di quel solo vino milanese, il San Colombano (…), con la zuppa di formaggio, fresco ed erbaceo, del Tocai friulano. (…) Non confondete il Tocai con il famoso Tokay d’Ungheria (qualche nostro produttore, ad arte, «sbaglia» sull’etichetta il nome, e voi non compratene le bottiglie; un viticoltore che si vergogna del suo vino, o non ne è degno, o sa quali pessime mescolanze nasconde la sua insegna). Il Tocai nostrano, dal nome dell’uva tocai (tocai in friulano significa: di qui), è vino simpatico, umile e allegro, di colore giallo tendente al citrino, e di sapore morbido a dispetto d’un retrogusto delicatamente amarognolo (quel che più mi esalta in questo vino prodotto bene in quasi tutto il Friuli ed anche fuori, nelle regioni limitrofe, è il penetrante profumo di fiori di campo e di mandorla).
Da: Luigi Veronelli, Alla ricerca dei cibi perduti. Guida di gusto e di lettere all’arte del saper mangiare, DeriveApprodi, 2004 (esaurito).
Il menu di Natale di Nanni Balestrini
Istruzioni per l’uso pratico della signorina Richmond
Nettatela squamatela infilatele nel ventre le erbe odorose fissatela allo spiedo con un sottile filo metallico o con uno spago umido grigliatela alla carbonella accesa cospargetela con rosmarino e alloro lasciatela riposare per un’ora così che tutti gli aromi la penetrino poi scuoiatela e pulitela tagliatela in grossi pezzi infilzatela ben unta d’olio sullo spiedo e praticatele qualche taglio sulla pelle perché non abbia a screpolarsi fatela cuocere a fuoco moderato spruzzandola di sale tagliatela a dadini portatela a bollore mescolando senza interruzione cuocetela a fuoco scoperto molto dolce per 20 minuti colatela attraverso un setaccio sottile ponetela in una casseruola che la contenga appena copritela con acqua fredda e portatela lentamente a bollore toglietela dal fuoco e lasciatela immersa nel liquido per 10 minuti pulitela conditela con sale e pepe immergetela nel latte passatela nella farina fatela saltare nel burro e in olio finché sia ben dorata da ambo le parti ammollatela nel latte per 24 ore immergetela infarinata nella padella con l’olio che fuma friggetela e sgocciolatela dorata e croccante fondete il burro in una padella pesante e fatevela saltare finché sia tenera fatela dorare senza che prenda troppo colore se diventa troppo asciutta aggiungete un po’ di vino spennellatela con burro sciolto e ponetela sulla griglia riscaldata e unta cuocetela per 7 minuti rivoltatela spennellatela con altro burro e grigliatela tagliatela a fette di un centimetro abbondante di spessore pepatela e battetela con un pestacarne di legno fatela rosolare finché prenda colore sopra e sotto allargatela sul tagliere e battetela sino a ridurla dello spessore di 1 centimetro arrotolatela e legatela con un filo grosso fatela rosolare a fuoco vivo coprendola cuocetela a fuoco dolce da 45 a 60 minuti è pronta quando la carne si sfalda facilmente con una forchetta avvolgetela con la garza sollevatela con delicatezza slegatela e affettatela con un grosso ago da calza o con le punte di una forchetta punzecchiatela qua e là poi portatela lentamente a bollore deve rimanere morbida e avere la pelle intatta pestatela con una mazza di legno pulita spellata e privata della vescichetta e degli occhi ponetela in una pentola capace e fatela bollire per 2 ore coperta strofinatela con un tovagliolo bagnato legatela ponetela in una pentola capace portatela a ebollizione scolatela sciacquatela ripetete più volte l’ebollizione con cura disossatela dalla testa alle spalle salatela all’interno e ricucitela con cura dandole ancora la sua forma legatele insieme le gambe anteriori e quelle posteriori sventratela spellatela rimuovendo con un coltellino la pelle sul dorso cominciando dalla coda e tirandola indietro di colpo sul ventre la pelle non si toglie ma si raschia tenetela a bagno per 12 ore in acqua fredda spesso rinnovata poi fatela bollire scolandola non appena è tenera poi toglietele delicatamente la pelle immergetela in acqua non troppo calda dopo averle chiuso l’ano con un pezzetto di sughero o altro fatela bollire 15 minuti sgocciolatela spaccatela per il lungo appoggiatela voltata sul dorso sopra un tagliere e tagliatela nel senso della lunghezza con un pesante coltello spruzzatela con un poco di burro fuso e servitela calda ponetela sul tagliere fatele un’incisione fra le gambe posteriori e l’ano rovesciatele la pelle e tiratela verso l’alto liberate le gambe davanti fino alla testa
toglietele la testa e le interiora squamatela apritela lungo il ventre mettete da parte le uova dall’aspetto corallino e togliete la lisca lavatela asciugatela
passatela alla fiamma e raschiatela bene con la lama di un coltello per togliere i peli praticatele un taglio nel ventre e toglietele le interiora
pulitela molto bene svuotatela anche dei polmoni e ghiandole passatela alla fiamma lavatela asciugatela infilatele nell’apertura naturale le erbe aromatiche sale e pepe
cospargete le cavità interne con un poco di sale e pepe fiammeggiatela con cognac ponetela in forno dolce e fatela arrostire per circa 1 ora innaffiandola frequentemente
pulitela all’interno e all’esterno spalmatela internamente con burro ammorbidito cucitela avvolgetela in una sottile fetta di lardo e arrostitela in forno dolce per circa 1 ora
pulitela e riempitela con la farcia legatele le gambe cucitele l’apertura ponetela nel forno con un poco di vino bianco e burro servitela nel tegamino caldissimo
lasciatela marinare per 2 giorni copritela con vino rosé e chiudete il recipiente con carta oleata cuocete a forno basso finché la carne sarà cotta ma consistente
adagiatela su un foglio di carta oleata a forma di cuore praticatele tre tagli trasversali cospargetela con brandy chiudete il cartoccio mettetela in un tegame e infornate per circa 1 ora sfornatela cospargetela di succo di limone ponetele una piccola mela rossa in bocca guarnitele le orecchie con rametti di prezzemolo e adagiatela sopra un letto di crescione
Da: Nanni Balestrini, Le avventure della signorina Richmand e Blackout. Poesie complete. Volume secondo (1972-1989), DeriveApprodi, 2016.
Alberto Capatti: Lo zampone di Modena
È una fantasia e una realtà, combinando l’idea della zampa anteriore a un insaccato di carni suine magre, di cotenne e di grasso. Nei primi anni Novanta volli portarlo a Parigi e regalarlo a un conoscente francese il quale, perplesso, non sapeva che farsene, e mi disse poi che aveva chiesto al suo macellaio di cuocerglielo. Non ne fui lusingato, anzi risentito, a tal punto lo zampone appartiene alla cucina lenta, di casa, e a una convivialità festosa o amichevole.
Il fatto che oggi abbia attirato marchi, IGP e bio, e, precotto, lo si trovi tutto l’anno, sia prodotto in molte regioni del Nord e lo si compri on-line, non ha cancellato la sua stagionalità esclusivamente invernale, né la strana ragione della sua origine. È infatti un arto suino reso commestibile dalla sua trasposizione in un artefatto, apparentemente simile ma più appetibile di quello macellato: a differenza dello stinco è una ricostituzione illusoria e golosa. A essa contribuiscono il grasso, le cotenne, l’assenza dell’osso e la forma tornita, un corto, tondo polpaccio privo di tendini e nervi.
La cucina maialesca recupera e resuscita a pezzi l’animale di cui si servono grugno e orecchie, testa e codino che ritroviamo in piatti lombardi ed emiliani, tutte parti formalmente riconoscibili, ma lo zampone è più vero del vero. Non richiama morsi, anzi fonde in bocca e l’accompagnamento modenese di uno zabaione ne sottolinea la delicatezza. Come tale, è una componente del nostro immaginario suino.
Da: Alberto Capatti, Mangiapensieri. Lessico immaginario del cibo, alfabeta2-DeriveApprodi, 2017.
Surrealisti in gioco: i segni e le regole
Paolo Fabbri
Nella loro lunga, turbolenta stagione, i dadaisti e i Surrealisti hanno lungamente, seriamente collettivamente giocato con ogni tipo di segno: il linguaggio e le Immagini – scritti, pittogrammi, figure e oggetti. Ritenevano con Freud e Huizinga, che l’attività ludica avesse una serietà sacrale e permettesse l’emergenza di un inconscio condiviso, capace di rinnovare la banalità del vivere quotidiano e decrittare i segni d’un nuovo stile dell’immaginazione poetica. L’artista surrealista è un medium e ogni cosa un segno in potenza. Un percorso che non va dai segni alle cose, ma dalla realtà alle espressioni originali che ne scoprono ed esemplificano la recondita ricchezza di senso.
1. Linguaggi surreali del gioco
«L’arte prende sempre più la forma di un segno […]; è questo sentimento che mi ha diretto nella vita» (M. Duchamp)
Per il Surrealismo il gioco è forma e la forma è un gioco che trascende i giocatori attraverso i quali si realizza (Gadamer). Giocare insieme, condividendone liberamente segni e vincoli, crea con curiosità e cura, uno spazio-temporale autonomo per gli enigmatici andirivieni dell’esistenza e dell’esperienza. Il gioco è stato, nell’epistemologia del secolo scorso, la metafora privilegiata per parlare del linguaggio con il linguaggio. Saussure, Wittgenstein, Roussel e Duchamp si sono serviti degli scacchi per dirci come abitiamo con la parola e la scrittura un mondo dotato di significato e valore. Uno spazio comunicativo reversibile e regolato dove ciascun termine ha una posizione definita, una morfologia e una sintassi di mosse possibili, cioè di azioni discorsive programmate. Per Breton (1954) solo l’arte magica dei giochi poteva far germinare il senso dalla materia alchemica prima, il linguaggio. Anche per Tzara «la pensée se fait dans la bouche». I giochi possono operare sui piani discorsivi della lingua – fonetici, lessicali, grammaticali, retorici, narrativi – attraverso figure di Sostituzione come le omonimie e le sinonimie, i calembour, le sciarade, i rebus o figure di Inclusione come gli anagrammi, i palindromi, le metabole. Come le lingue, i cui tratti essenziali sono la polisemia e la assenza di parallelismo tra significante e significato, i giochi non si limitano a seguire le regole, generando trasformazioni foniche e traslazioni lessicali. Giocare presuppone un funzionamento simbolico che permette raffronti e confronti interdipendenti tra locutori e scrittori i quali elaborano le tattiche necessarie ad un esercizio autonomo della libertà di parola. Un’intelligenza sintagmatica, una creatività secondo le regole della retorica e del discorso, ma che può «fare il suo gioco» per andare poeticamente contro le regole ed elaborare nuovi giochi di linguaggio. Un saluto irriverente anche alla storia dell’arte (Tzara), tirando fuori la lingua, per far affiorare le parole e le immagini quotidiane – relitti d’un mare morto – e pervenire alle segnature delle cose, alla surrealtà di «mondi rovesciati [che si] sono creati un posto nel linguaggio che il realismo primario non potrà riprendersi» (Breton). È il progetto soggiacente agli atti della scrittura automatica surrealista, una semiotica ludica che porta sulla forma espressiva dei significanti linguistici e sui motti di spirito, che sono i loro significati, ma che non si limita alla manifestazione verbale1. Quindi, seppure «Il linguaggio è stato dato all’uomo perché ne faccia un uso surrealista» (Breton), la letteratura non è solo discorsiva: il calligramma si serve dell’iconismo del linguaggio scritto e degli elementi diagrammatici e mimetici nella pittura. «Tra le scuole letterarie il surrealismo [ha] una connivenza privilegiata, quasi esclusiva, con la pittura»(Caillois). L’attività surrealista infatti ha fatto ampio uso della scrittura, cioè dell’immagine adoperata come lingua, accanto e soprattutto su testi iconici, quadri, fotografie, libri illustrati e libri d’artista. Secondo la tipologia promossa da Michel Butor che ne Le parole nella pittura, ha realizzato sia un museo di parole che una galleria di pitture su cui sono tracciate parole «ecfrastiche». A partire dalla firma fino a scritture leggibili o soltanto imitate, l’interazione tra l’immagine e le proprietà plastiche e visive dello scritto genera un’esperienza «divertita», cioè ludicamente seria, come testimonia un memorabile testo dipinto di Juan Gris. Una rinnovata ut pictura poesis, che secondo Butor, riprende vigore e attualità per le possibilità digitali di tracciare e sostituire lo scritto sulle superfici iconiche. L’homo ludens surrealista insomma ha esplorato e sperimentato le scritture che focalizzano spazi e orientano con il loro ductus la lettura dei quadri; che entrano in una relazione di ridondanza o di opposizione grafica e cromatica ma anche semantica e retorica. E che possono essere lette dall’esterno o dall’interno del quadro, cioè rovesciate rispetto all’osservatore (Shapiro). Per giungere fino alla loro cancellazione.
2. Giocare insieme
Per tutta la sua durata, la stagione surrealista e dadaista si è prestata a Giochi molteplici. Nel repertorio n. 5, Archives du surréalisme sono diciannove i giochi presentati come forme di vita collettiva, oggettivata e valorizzata. Dispositivi macchinici, congegnati per ottenere un esito fortuito (v. la conoscenza irrazionale degli oggetti o di un quadro di De Chirico) e salvaguardare la libertà personale del giocatore nell’entrata nel gioco e la lealtà collettiva di proseguirlo. Com’era il caso della distribuzione di ruoli «miopi» (per es. nell’enunciazione tripartita dei sillogismi, le due premesse e la conclusione erano affidate a partecipanti all’oscuro l’uno dell’altro) o nella scissione delle paia adiacenti che il dialogo esige talvolta come una rima (per es. rispondere a domande che non si conoscono). I surrealisti si opponevano ad ogni tipologia generale di gioco, anche elaborata da personaggi molti vicini alla loro pratica e sensibilità, come R. Caillois («non ho mai smesso di essere surrealista, e lo sono stato prima di diventarlo»2). Nella lista aperta dei molti giochi inventati o rielaborati dai surrealisti («L’un dans l’autre»,» Les animaux surréalistes», «Jeu des syllogismes», «Les cartes d’analogie», ecc.3) il più inventivo e produttivo è quello de Cadavres exquis che il Dictionnaire abregé du surréalisme, definisce «gioco con carta piegata che consiste a far comporre una frase o un disegno da parte di parecchie persone senza che nessuna possa tener conto della collaborazione o delle collaborazione delle precedenti». Un dispositivo espresso dapprima con materiali linguistici, che produce enunciati collettivi fortuiti e apparentemente incongrui, ma interpretabili. La lettura della prima esperienza di 18 testi causali rivela infatti insospettabili regolarità grammaticali: ogni enunciato frastico completo è provvisto di un verbo – 15 al presente e 3 al futuro, con un solo imperfetto nella relativa; gli articoli sono tutti determinativi (15) con l’eccezione di un solo indeterminativo; i sostantivi (un solo nome proprio, Lautréamont e un impersonale) sono sempre accompagnati da un aggettivo o da un complemento di specificazione. Dietro la trasgressione4 si manifesta una produttività semantica e poetica in cui G. Genette ha riconosciuto al Surrealismo «il grande merito […] d’averla rivelata, in quanto sperimentata: un colpo di dadi non abolirà mai il senso». Lo stesso accade quando il procedimento viene successivamente esteso all’immagine -con il montaggio di disegni, fotografie, collage, scritte: alla prima regola proposta da Breton, generare figure antropomorfe verticali, si è rapidamente sovrapposta, a partire da Y. Tanguy (1925) l’accettazione ultra-dimensionale di grafismi diversi e pittografie astratte quanto enigmatiche, non lontane dagli esiti dell’art brut (J. J. Lebel)5. La singolarità del gioco surrealista è generare dialogicamente l’equivalente d’una libera associazione collettiva, differente dalla società segreta degli apprendisti stregoni nel Collège de Sociologie, ma non diversa dai pranzi simultanei dei futuristi. Un composto (agencement) collettivo d’enunciazione che aveva un modello nell’improvvisazione del free jazz e troverà il suo esito pragmatico negli happening di A. Kaprow e J.J. Lebel e nella riflessione filosofica e politica di G. Deleuze e F. Guattari. Breton, in un’ampia nota al Secondo Manifesto, ribadiva il suo disinteresse per giochi d’esoterismo o di prestigio come quello indovinare il testo contenuto in un busta chiusa. Contro le opposizioni canoniche del serio e del ludico, attraverso i giochi medianici e ricreativi di società «pensiamo di aver fatto sorgere una curiosa possibilità del pensiero, quella della messa in comune. Succede infatti che vengano a stabilirsi rapporti sorprendenti, che emergano notevoli analogie ed spesso un fattore inspiegabile di irrefutabilità e che si trovi infine un luogo d’incontri tra i più straordinari». Uno spazio interattivo e tensivo dove i testi verbovisivi non sono carte prescritte d’identità ma dialoghi appassionati e contagiosi («le parole fanno l’amore»), produttivi d’una lingua agglutinante che manifesta significazioni imprevedute. Come i dialoghi parapsichici tra Duchamp a New York e Desnos a Parigi nella serie aforistica – scambi enigmistici e contrepèteries – di Rrose Sélavy. Un ordine acentrato e non gerarchico che emerge dalle operazioni individuali di attori miopi. I quali, per Breton, erano eggregores: termine derivato da una forma occultista di pensiero, Eggregora, entità incorporea emanata da un collettivo che ne influenza le manifestazioni di senso attraverso procedure di meditazione condivisa. L’etimologia di «mutuo» è /mutare/. L’effetto di un cadavres exquis collettivo è l’equivalente contagioso di un fou rire ma anche la realizzazione ludica di un «sistema semiotico globale» (J.J Lebel,) utilizzato da autori non surrealisti come O. Dix, ma caratteristico della forma di vita dadaista: simultaneismo, spontaneismo, polisemia, multivocità, discontinuità stilistica e continuità telepatica e rizomatica. Una «caoscosmosi» (Guattari). D’altronde, l’abbandono del progetto surrealista, per ragioni politiche, estetiche o personali ha spesso adottato la formula: non stare più al gioco. Con questi presupposti ricreativi e in questo senso » communincantatorio» va intesa la trasformazione esoterica e narrativa dei semi e delle figure dei Tarocchi di Marsiglia, da parte di Breton, A. Masson, Max Ernst, ed altri, pubblicati a New York nel 1943. In riferimento a R. Roussel, il gruppo surrealista perseguitato da Vichy aveva detronizzato il Re, Regina e Fante, sostituiti rispettivamente con Genio, Sirena, Mago; le Spade con la Fiamma, i Denari con la Stella, le Coppe con la Ruota insanguinata e i Bastoni con la Serratura. Quanto ai colori, l’Amore era in Rosso come la Rivoluzione e il Sogno in Nero come la Conoscenza. Ogni carta inoltre era intitolata a un personaggio reale o immaginato: Breton aveva scelto Paracelso, A. Masson Novalis e Max Ernst Pancho Villa… Il Jolly era Ubu roi, sul disegno di A.Jarry.
3.1. Giocarsi tutte le carte
«C’è come un’esplosione nel senso di certe parole» (M. Duchamp)
Surrealisti come M. Leiris, R. Magritte, J.Mirò hanno inventato e praticato Giochi singolari col linguaggio, le immagini e gli oggetti. Non tutti i Surrealisti hanno accettato la disciplina ludica di squadra; hanno preferito cimentarsi con destrezza, abilità o fortuna nello spessore del linguaggio. Il modello esplicito sono stati i «metagrammi» artistici di Raymond Roussel, profondamente indagati da M. Foucault, dove la lingua è variata metodicamente attraverso prove di commutazione, come nel noto esempio delle Impressions d’Afrique: «les lettres du blanc sur les bandes du vieux Billard traslato in les lettres di blanc sur les bandes di vieux Pillard». Il procedimento, condotto con tenace austerità, consiste nel percorrere narrativamente la distanza semantica prodotta dalla dispersione della frase ridotta ai suoi sinonimi, fuori da ogni significazione coerente. Nel testo teorico del 1935, Come ho scritto alcuni miei libri Roussel spiegava «fui condotto a prendere una frase qualunque da cui traevo delle immagini dislocandola, come per estrarne dei disegni da rebus». Breton e poi S. Dalì (v. Impressions d’Afrique) hanno ripreso il principio che il linguaggio è di per sé rebus e calembours e che il caso «oggettivo»… «fa sprigionare per metamorfosi tutto un tesoro di differenze di cui ritrova l’identità congiungendole attraverso il labirinto della parole e delle immagini»6. Una trama verbale, prossima alla rima, intrecciata a quella ottica – «double caché du visible, double visible du caché «- che permette a Roussel di suscitare oggetti inimmaginati come Tarocchi musicali, statue informi, perfidi specchi esiti d’un gioco di scrittura che non ricorre ad alcun esoterismo7. Per Duchamp, che costruiva i suoi titoli sui giochi di parole – v. Le jeune homme TRiste dans un TRain – questi testi «trouvés» avevano la dimensione rivoluzionaria di un poesia di Rimbaud. «Parole poetiche se deformate nel loro senso dal gioco» (Duchamp). Come il celebre bisticcio nella serie dei suoi Rrose Sélavy, tra insecte e inceste, che ha generato incesticide, campione surrealista d’humour nero: «Rrose Sélavy trouve qu’un incesticide doit coucher avec sa mère avant de la tuer» (Rrose Sélavy trova che un incesticida deve giacere con sua madre, prima di ucciderla).
3.2. Glosse, Specchi, Ideogrammi
«Un Sesamo per il cercatore di poesia» (M. Leiris)
Anche Michel Leiris, che vedeva nella sua La règle du jeu (2003) una prosecuzione dei procedimenti di Roussel, ha giocato soprattutto nel corpo e nel significato – soma e sema – della lingua. La sua opera, è una ricerca che non ha nelle parole un mezzo ma un fine e il suo Glossaire, j’y serre mes gloses (2014) è dedicato a R. Desnos, in esplicito riferimento alle contrepèterie poetiche di Rrose Sélavy. Quanto al gioco, all’inizio del quarto capito di Biffures (1948) intitolato «Alfabeto», Leiris propone un raffronto mallarmeano tra giochi di linguaggio e di dadi: «l’alfabeto prende il volo […]; un insieme di figure che si dispongono come i partner di un gioco in cui si scontrano e si scambiano come fossero gettate sul tavolo con le loro pluralità di facce versatili dalla geometria nera e bianca – i dadi». Per lui termini di gioco e divertimento – v. Jeu: le feu de joie, la joie de feu – scandiscono una ricerca sui significanti che si svolge e si spiega in una dimensione magica e poetica «Speravo che un certo modo di triturare le parole mi permettesse di cogliere l’ultima parola di tutte le cose«. Attraverso l’ostinata ripresa del materiale fonico o grafico delle parole – tra anagrammi, descrizioni grafiche, compitazioni, gerghi, false etimologie, parafrasi foniche, paranomasi, calembours – dalla faccia oscura del linguaggio può uscire una formula oracolare ed iniziatica. Un’illuminazione sollecitata dal caso, ma a differenza dell’esito incidentale ed insolito dei Surrealisti, d’una ricercata bellezza formale8. Attraverso l’alchimia verbale, il lessico convenzionale, socialmente condiviso, è ricusato a nome d’una motivazione profonda e segreta; «Ludica nel senso più aggressivo di capriccio e rivolta» (Genette). Un gioco terribilmente serio – la serietà è uno modo della rappresentazione! – fatto di rime e di «piccole equazioni» che possono condurre alla catarsi delle contraddizioni più intime.
3.3
«La poesia è una pipa» (R. Magritte)
La traduzione poetica tra linguaggio e immagine ha trovato nel surrealismo di Magritte il suo zelatore, se non il suo antesignano. «Il surrealismo rivendica per la vita della veglia una libertà simile a quella del sogno» (Scritti). I suoi quadri erano «segni materiali» della libertà del pensiero necessaria per conoscere il mondo come linguaggio del mistero inteso a illuminare la conoscenza. Per spingere lo sguardo «sempre più lontano, per vedere infine l’oggetto, la ragione della nostra esistenza», Magritte proponeva di sopperire all’arbitrario della lingua istituendo e raffigurando una tipologia di relazioni, tra parole, nomi, oggetti, forme ed immagini. Rapporti motivati o arbitrari d’incontro, di sostituzione, di separazione, di unione e di allusione. Prevedeva che oltre ai titoli, «in un quadro le parole potevano avere hanno la stessa sostanza delle immagini» e designare cose precise, insieme ad immagini vaghe. («Révolution surréaliste», n. 12, 1929). Accostando oggetti, immagini e parole come avrebbe fatto molto tempo dopo J. Kossuth nei suoi Trittici ispirati a L. Wittgenstein. In un saggio memorabile, M. Foucault ne ha esplicitato l’inquietante «calligramma disfatto», che separa i due ordini del disegnare e del designare, riunendo provocatoriamente la raffigurazione naturalista di una pipa alla sua denegazione scritta: Ceci n’est pas une pipe. Un paradosso per il filosofo che pensa parola e immagine come un «apriti sesamo» nel gioco linguistico della verità, ma non per il pittore, come provano le curiose incomprensioni della corrispondenza tra Magritte e Foucault a proposto de Le parole e le cose. I quadri di Magritte, come la celebre Riproduzione vietata fanno ben altro che non enunciare la proposizione: «questo non è uno specchio»! In primo luogo perché non rispettano l’unità cronotopica: nello stesso spazio abitano oggetti di tempi diversi, nello stesso tempo sono compresenti spazi differenti. La figura di spalle (E. James?) non è compresente alla figura, dipinta come la prima, che dovrebbe trovarsi riflessa nello specchio e che si ripete invece, raddoppiandosi, nella stessa postura. Qui il paradosso non risiede nella parola, ma nel gioco dei pronomi, Io e Tu. Sappiamo infatti che nel dispositivo speculare l’Io si trova rovesciato da sinistra a destra, ma non dall’alto al basso, perché chi si guarda è visto – cioè si vede – a partire dallo specchio. È il Tu che osserva l’Io – il Me – a partire dal luogo simultaneo della riflessione. Ma il soggetto che si «specchia» nel quadro surrealista non abita lo stesso tempo; tergiversa, continua mostraci le terga perché non obbedisce alla contemporaneità speculare, non va «al di là dello specchio». La superfice dipinta da Magritte infatti non è un riflesso, ma una replica in terza persona, l’Egli impersonale d’una figura la quale non è affacciata in uno specchio, ma su di un fondo vuoto9! D’altronde anche l’osservatore collocato alle spalle dell’uomo davanti allo «specchio» avrebbe potuto vedere il proprio riflesso, com’è frequente nella storia della pittura. La presenza di un oggetto riprodotto nel «falso» specchio, il libro di E. A. Poe, Gordon Pym, (che spiaceva a Breton!) dovrebbe mettere sull’avviso chi è al corrente della passione di Magritte – scrittore dilettante di romanzi gialli – per il mistero e l’indagine poliziesca. La pittura «naturalista» non riproduce pipe o specchi «reali», costruisce opere dove l’effetto e la causa sono reversibili (Poe) e «mirano, nell’intera misura del possibile, a non demeritare nei confronti del Senso, ossia dell’Impossibile» (v. Scritti,»II senso del mondo»). La presenza raffigurata invita all’ermeneutica, non rinvia al reale o alla sua traccia. Un principio che si estende ad un medium come la fotografia surrealista, che per R. Krauss sarebbe in grado di mediare tra immagine referenziale e semantica verbale. Invece per Brassai, uomo di lettere che scriveva con le immagini: «La banale restituzione è una mistificazione che va rigorosamente denunciata. Di fatto la realtà prende senso soltanto quando si trova un linguaggio per esprimerlo». E ancora. «Come l’esattezza d’una traduzione non è mai parola per parola, ma il riscontro di equivalenze, così la ri-creazione esige un dono di scrittore o di poeta» (Baetens).
3.4.
«Si potrebbe redigere un dizionario miroglifico» (R. Queneau)
Di J. Mirò surrealista, nel senso e nei metodi, si è molto discusso. Breton gli riconosceva di esserlo più di ogni altro, ma nel senso più ovvio del termine, mentre Leiris o F. Ponge ne apprezzavano l’attenzione persistente ai sogni e il segno dei testi sincretici di pittura-poesia progettati con A. Masson del 1924/27 e ripresi come i proverbi-haiku in collaborazione con il giapponese S. Takuguchi. «Non faccio alcuna differenza tra pittura e poesia […]: Mi succede d’illustrare le mie tele con frasi poetiche e viceversa». L’opera di Mirò è semioticamente bilingue: intreccia la scrittura e il disegno in sorprendenti pittogrammi i quali pongono, al di là dell’apparente «infantile o primitiva» evidenza, un problema di lettura e di intelligibilità diverso da quello di un Magritte o di un Picabia. È stato R. Queneau, pittore dilettante e grande letterato, a indicare la via: redigere un dizionario delle figure invarianti nell’idioma figurativo di Mirò, un lessico di motivi che proponeva di chiamare Miroglifici o mi(ge)roglifici. Nella composizione di un’opera del 24 agosto 1939, Donna con capelli sciolti che saluta la luna crescente, il primo degli oulipisti riconosceva l’omologia tra la figura femminile e l’ideogramma cinese corrispondente. Lo schema grafico e la costruzione plastica costruiscono allora un logogramma o meglio un logogrifo, un «segno miresco» da decodificare come un enigma. Nella decisiva ricerca sull’archivio dei progetti di Mirò, Tiziana Migliore ha tracciato una lista di miroglifici che permette di apprendere l’idioma Mirò ed approssimare la lettura «in lingua originale» dei suoi componimenti mitopoetici. Una piccola agorà di miroglifici: Cuore, Genitali (maschili e femminili), Mano, Occhio, Piede, Seno, Luna, Sole, Stella, Uccello, Scala, Spirale, ecc., che si identificano per tratti formali, i quali però possono essere distaccati e prendere valori puramente musicali o di ritmo autonomo. I segni mireschi operano quindi per variazioni, attraverso metafore plastiche, cromatiche e mutazioni di significato. La compresenza testuale dei pittogrammi con le scritture non è tautologica e non opera per opposizioni e contrasti, ma per concatenazioni, raccordi, salti anaforici. La loro combinatoria regolata è così stringente che è possibile oggi organizzare giochi alla Mirò, generando stringhe di enunciati « mirescamente » corretti a partire dallo spartito di questi motivi. Spiegare per meglio comprendere. Nell’Interno olandese (1928), Mirò ha parodiato di un topos fortunato dell’arte fiamminga, sottraendolo al suo contesto d’appartenenza – un quadro di H. M. Sorgh – e interrogandolo a partire da un nuovo concetto del raffigurare. Nella serie di trasformazioni dei bozzetti e collage, Tiziana Migliore ha esemplarmente mostrato come la permanenza dell’intelaiatura geometrica e la iniziale ri-semantizzazione del suonatore di liuto rappresentato pervengano, per via di un beffardo salto dadaista, ad una decostruzione plastica e figurativa che fa emergere nuovi Miroglifici. I quali sono all’opera in installazioni come Monsieur Madame e ne orientano la lettura: la coppia rossonera degli sgabelli accostati stabilisce una relazione non contraddittoria tra i suoi tratti morfologici e cromatici. Il primo seggio realizza il miroglifico della Scala, che ha il significato ricorrente di un moto di /evasione/, l’altro quello della Spirale che connota stabilmente uno /svolgimento surplace/. L’oggetto colorato di verde e collocato sul seggio nero realizza il Seno erettile – tra i Miroglifici genitali dell’intimità – e suggerisce all’osservatore il possibile senso di /Madame/. Il diagramma, linea e cerchio, sovrapposto alla Scala realizza il significato ricorrente della sessualità maschile. /Monsieur/? Senza dimenticare che i titoli di Mirò, scritti sovente dopo la realizzazione del composto pittografico, sono oltre che metaforici o metonimici, latori di allusioni e humour. Musique, Seine, Michel, Bataille et moi (1927) è un’opera esemplare dove l’intermittenza delle scritture, iconica e grafica schiude linee di fuga o di flusso. Il pronome scritto « moi » ricorda che per Mirò l’autoritratto può realizzarsi come paesaggio – vene-fiumi, barba-prato, volumi del viso-rilievi del terreno. Il soggetto dell’enunciazione è installato infatti nell’assolata terra catalana di Mont-roig, dove il Miroglifico del Sole rosso è figura cosmologica che congiunge cielo e terra e ingloba la pupilla dell’artista, instaurando il segno mitico d’una simbiosi tra uomo e cosmo. Da questo luogo privilegiato muove il percorso punteggiato delle quattro Spirali che si svolgono ciascuna col proprio cromatismo, collegate da una linea ai quattro ricordi parigini scritti nel testo pittorico: Michel, Bataille, moi, seine. Lo scritto Musique occupa uno spazio metapittorico, che nella raffigurazione classica era quello di provenienza della luce, con il quale Mirò indica spesso un motivo conduttore: in questo caso il pathosformel della nostalgia.
4. Anagrammi, Anamorfosi
L’OULIPO – ouvroir de littérature potentielle – è la corrente artistica internazionale che continua oggi a cimentarsi con i giochi semiotici del linguaggio e dell’immagine. Tradotto in italiano con OPLEPO, (Opificio di letteratura potenziale) è la fusione e il ripensamento della forma di vita Surrealista con la mentalità del gruppo di matematici intitolato «Bourbaki». Con il Surrealismo, uno degli ulipisti di maggior spicco, il poeta J. Roubaud ha additato analogia e differenze. Accusa di vandalismo linguistico l’accezione usuale del termine «surrealista» come «assurdo, strano, ridicolo» e invita chi riduce così un «momento luminoso della poesia francese» a curare la propria ignoranza. Il sodale di R. Queneau ammette che il linguaggio dell’avanguardia è arduo per chi chiede comprensioni immediate, in quanto carico di un passato dimenticato e di anticipazioni future. Anche se dissente dalla compulsione avanguardista della distruzione della tradizione -il postmoderno per lui è un’avanguardia distruttiva dell’avanguardia storica – riconosce nella scrittura automatica dei giochi surrealisti un decisivo slancio, liberatorio non dalla ragione ma dagli automatismi della sintassi e della retorica letteraria (v. La Première avénture céleste de Mr. Antipyrine di T. Tzara, 1916 o Persécuté persécuteur di L. Aragon, 1931). Il carattere macchinale e l’esito fortuito dei cadavre exquis, la loro generatività poetica sono da ascrivere quindi all’eredità surrealista e dadaista che l’ha rivelata e sperimentata. Per l’Ulipiano burbakista però i surrealisti finiscono per somigliarsi, nonostante i movimenti ereticali e i deviazionisti politici, e questo accade non per un’aria di famiglia o per l’inconscio collettivo manifestatosi nei giochi, ma per lo scarso rigore, per la malleabilità delle loro regole. Povertà della fabula (verbale) e della tabula (visuale) troppo rasa. Un colpo di dadi non abolisce la pressione – in senso quasi atmosferico – della sintassi e del senso, e la composizione collettiva non produce versi liberi o testi liberi se non si pone formalmente il problema delle regole. Roubaud (2000) ha buon gioco nel mostrare, come il verso libero francese standard dei Surrealisti, tenacemente non contato e non rimato, resti ancorato alla norma prosodica all’alessandrino rimato e contato. L’estro matematico corre allora al soccorso delle norme – che non sono sopravvissute alla crisi dei valori- trasformando le regole in contraintes, cioè in vincoli. Gli «ulipemi», pur nel frame della trasformazione ludica, sono più rigorosi e ripetibili nelle diverse partite di contaminazioni additive e sottrattive delle parole nel volume del linguaggio (Perec); nell’invenzione di vincoli e nella pianificazione di raggiri; nelle procedure di scoperta attraverso protocolli e algoritmi. Potremmo classificarle sommariamente in: 1. Fattoriali, permutazioni di elementi primi, come lettere o suoni; 2. Esponenziali, che agiscono su sequenze di parole o frasi fatte o pronunciate; 3. Detrattive che sottraggono lettere o parole. Lipogrammi, mutazioni omofoniche – anagrammi, palindromi – traslazioni lessicali, ecc., destinati ad estrarre ricreativamente altri testi da un ipotesto dato. Il calcolo, attraverso le strutture e le strettoie d’una sperimentazione minuziosa, disimplica dalla lingua i costrutti di una significazione potenziale e permette improvvisazione inattese, come nel free jazz o nella musica contemporanea (Fabbri 2018). Anche se l’uso d’una certa formula aritmetica può contrassegnare un testo come una firma, l’esito poetico non è l’effusione d’una intimità lirica, ma della riflessività della lingua, del suo autotelismo (Jakobson), cioè il modo con cui si riflette e esprime le sue complesse proprietà. Anche in questo caso, com’è accaduto ai futuristi e ai surrealisti, il gioco dei segni si è espresso non solo per scritto ma a attraverso sostanze iconiche e oggettuale: un OPINPO, (Opificio di pittura potenziale). Per Queneau infatti «la vera significazione della pittura è mettere in libertà un mondo soggettivo comunicabile attraverso una ‘sorta’ di scrittura colorata disposta su una superficie piana, generalmente rettangolare». Inoltre gli elementi plastici sono più favorevoli dei tratti linguistici agli azzardi del gioco, com’era già accaduto nei cadavres exquis visivi dei surrealisti. Ripresi dai disegni anagrammatici di Desnos – calembours verbo-visivi, disegni medianici e automatici, immagini indovinelli o premonitrici – molti sono gli esperimenti e esperienze ulipiane di permutazioni e ricombinazioni ottiche. Le fotografie di Perec; gli esperimenti su come trasformare una scena animata in natura morta; gli alfabeti aritmeticamente figurati di Isabelle Dubosc; l’attenzione alla poesia visiva. V. in particolare Fabrizio Clerici, i cui disegni (1996), Un petit peu plus que 1000 dessins fantastiques sono condotti secondo lo stesso principio delle sue poesie Un petit peu plus de 4000 poèmes en prose (4 elementi e 8 scelte per ogni elemento) senza che il testo descriva l’immagine o che l’immagine lo illustri. A principi come questi è ascrivibile tutto un visibilio d’esperienze non strettamente Ulipiane: come la scatola di sigarilli che il poeta surrealista Gherasim Luca ha riempito di lunghi bastoncini a sezione quadrata, su cui sono iscritte frasi da estrarre e comporre secondo le istruzioni dello Shangai o Mikado, un jeu de hasard noto a Rabelais e Montaigne con il nome di jonchées. Come il Gioco dell’Oca che percorre il romanzo di E. Sanguineti. Come le scritte policrome al neon – pans of word and objects, jokes and pictorial paraphrases – con cui Bruce Nauman, di formazione matematica e musicale, «speaks in tongues» attraverso le trappole luminose di anagrammi e palindromi visuali. None sing diventa appunto, neon sign (Fabbri, 2011). E soprattutto le partite narrative di I. Calvino, attualmente membro dell’Oulipo – che ammette le dimissioni soltanto con un suicidio davanti a notaio- e autore di calcolate poesie dedicate a Queneau e G. Perec. Oltre agli episodi narrati attraverso il gioco di prestigio di mettere i tarocchi in fila e farne uscire delle storie, Calvino ha realizzato un abbozzo d’autobiografia attraverso la combinatoria di quadri dei musei: S. Gerolamo lo scrittore e S. Giorgio, il cavaliere. Una produttività semantica e «poetica» che non è post-moderna, e parodica – gioco rizomatico di abilità culturale – ma un gioco numerato di fortuna – come una roulette (Genette). Più patafisico che metafisico, meno mistico e più enigmistico. Un retaggio artistico surrealista, indelebile come un tatuaggio nella nostra cultura linguistica, letteraria, artistica.
Note
1. È noto che davanti all’enigma della non figurazione anche i pittori e gli scultori dell’astrattismo novecentesco hanno scritto moltissimo.
2. Com’è noto Caillois aveva classificato l’intricata congerie dei giochi con quattro categorie basilari: Agon, la competizione; Alea, l’azzardo; Mimicry, la maschera; Illinx, la vertigine.
3. La lista dei giochi comprende:
Liquidation, 1921
Quelques préférences…, 1922
Le dialogue en 1928
Le dialogue en 1929
Le cadavre exquis, 1931
Recherches expérimentales, 1933
Le dialogue en 1934
Jeu des analogies: si c’était un animal, 1952
Le dialogue en 1952-54
Jeu des syllogismes, 1953
Ouvrez-vous?, 1953
Qui est médium, 1954
Les animaux surréalistes, 1954
Enquete sur la connaissance irrationnelle du métro (non pubblicato)
Quelles sont les trois? (non pubblicato)
L’un dans l’autre, 1954
Les cartes d’analogie, 1959
Enrichissez votre vocabulaire, 1962
4. «Cosa mi trattiene dal confondere l’ordine delle parole, ed attentare in questa maniera all’esistenza apparente delle cose?» Breton, Introduction au discours sur le peu de réalité, Gallimard, Paris, 1927.
5. Nel Catalogo di J. J. Lebel, 1997 si trovano raccolti insieme per la prima volta cento giochi grafici surrealisti che vanno da Breton e Y. Tanguy a V. Brauner, passando per A. Masson, M. Ernst, B. Péret, J. Prévert, J. Mirò, R. Desnos, T. Tzara, L. Aragon, R. Magritte, Valentine. Hugo, P. Picasso, D. Marr. S. Dalì, Gala, P. Eluard, M. Ray, W. Lam, H. Bellmer, ecc.
6. È il caso ben noto della frase che il linguista cartesiano N. Chomsky riteneva grammaticamente corretta quanto sprovvista di senso: Colorless green ideas sleep furiously («idee verdi senza colore dormono furiosamente») e di cui R. Jakobson dimostrò la qualità poetica. Così come l’esempio surrealista del grammatico L. Tesnière: Le silence vertebral indispose la voile licite.
7. Come le Tavole dei disegni che accompagnavano le Nouvelles impressions d’Afrique, inseriti secondo un codice complesso in punti tanto significanti quanto cifrati.
8. Sarebbe piaciuta a Benjamin così preoccupato per la perdita dell’aura da ritenere le poesie dadaiste «insalate di parole […] cascami del linguaggio».
9. A differenza dell’immagine speculare che è un prodotto, quella dipinta da Magritte è destinata a mettere in causa la sua produzione.
Da: Stare al gioco. Intermezzi ludici e replicabili tra parola e immagine, a cura di Antonella Sbrilli e Marco Dotti, alfabeta2-DeriveApprodi, 2019.
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