Un ritratto di Franco Milanesi di Rudi Dutschke, leader e intellettuale di riferimento della SDS (Sozialistische Deutscher Studentenbund), la lega degli studenti socialisti, e importante figura dell’antagonismo anticapitalistico tedesco.
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A partire dal 1966 sui giornali di Axel Springer, in particolare sul popolarissimo Bild, vennero pubblicati diversi articoli in cui il movimento studentesco, che si stava sviluppando in Germania a partire dalla Freie Universität di Berlino, veniva descritto come la testa di ponte del comunismo sovietico nell’Occidente liberale. Il giornale invitava il governo federale a prendere provvedimenti repressivi verso gli studenti e i leader di quella che veniva descritta come una sorta di rivolta antioccidentale. Nel clima infiammato da questa campagna di stampa, il 2 giugno 1967, mentre migliaia di giovani manifestavano a Berlino Ovest contro la visita di stato dello Scià dell'Iran, un giovane studente di letteratura tedesca, Benno Ohnesorg, veniva colpito a morte da una pallottola sparata dalla polizia. Dopo questo assassinio la radicalizzazione del movimento studentesco crebbe progressivamente e la contrapposizione tra i giornali di Springer e la SDS (Sozialistische Deutscher Studentenbund), la lega tedesca degli studenti socialisti, si fece sempre più aspra. A capo della SDS era Rudi Dutschke, leader e intellettuale di riferimento della sinistra studentesca. Nato nel 1940 nella DDR era stato costretto, a causa del suo rifiuto a prestare servizio militare, a spostarsi nella Germania Ovest pochi giorni prima della costruzione del muro di Berlino nell’estate del 1961[1]. Dutschke aderisce a Subversive Action, un piccolo gruppo che a sua volta derivava dal una cellula militante bavarese aderente all’internazionale situazionista. Nel clima vivace di Berlino Ovest il ventenne Rudi frequenta la Freie Universität seguendo prevalentemente i corsi di sociologia, legge Sartre e Heidegger (mostrando di apprezzare soprattutto la fenomenologia esistenziale di Essere e tempo), percorre i sentieri di Karl Barth e di altri teologi (era stato anche membro della gioventù evangelica nella DDR) e si immerge in Marx e nella tradizione marxista, Lukács, Bloch, i francofortesi, autori che segnano in profondità la sua formazione culturale all’origine di uno sguardo politico capace di immergersi nella vita con una non ordinaria pluralità di chiavi di lettura.
Nel clima della guerra fredda, Dutschke articola la critica ai tre macrosistemi dominanti (liberismo, comunismo autoritario, socialdemocrazia) sviluppandola lungo un’unica articolazione teorica, intesa come parte di una pratica che si sviluppa dentro le organizzazioni, nelle università, nel rapporto con le altre forze politiche.
La critica alla SPD e più in generale alla socialdemocrazia è netta. I partiti socialdemocratici «non pongono in discussione il quadro dei rapporti capitalistico-borghesi, ma si battono unicamente per la loro quota di prodotto sociale»[2]. La logica redistributiva perseguita dalla SPD presuppone pertanto i rapporti dati e li consolida in misura della consequenzialità tra concessioni «compatibili» e riduzione del conflitto. Il dispositivo economico liberista, potenziato dalla ripresa del dopoguerra, può pertanto essere inceppato attivando un conflitto di classe che oltre la prospettiva redistributiva perseguita dai sindacati e dai partiti parlamentari abbia come obiettivo proprio quella incompatibilità tra richieste salariali e accumulazione capitalistica.
L’azione extraparlamentare che spinge verso tale strategia ha di fronte a sé il blocco dei partiti, compreso quello comunista, che hanno scelto il pieno rispetto delle regole formali della democrazia borghese. Verso questo fronte della conservazione si devono attivare forme di lotta articolate: critica ideologico-culturale al sistema e alla sua gabbia egemonica; creazione di un immaginario antropologico alternativo, solidale, libertario e non mercificato; pensiero strategico per attivare dentro le istituzioni un antagonismo rivoluzionario tale da conquistare, passo dopo passo, la macchina economico-statuale che sostiene il sistema capitalistico.
«Se all’interno dei partiti comunisti, all’interno del campo rivoluzionario non divengono già visibili momenti della controsocietà, della nuova società, degli uomini nuovi con nuovi bisogni e nuovi interessi, allora la differenza tra PC e PSD è soltanto una differenza quantitativa e irrilevante, irrilevante nel senso della trasformazione sociale in direzione della democrazia diretta, in direzione del socialismo come possibilità e capacità degli uomini di svilupparsi al massimo sul piano creativo e in ultima istanza di divenire uomini nuovi»[3].
La critica al riformismo si sviluppa all’interno di un’analisi del capitalismo novecentesco che presenta momenti di straordinaria profondità anticipando, in piena fase fordista, alcune letture che si svilupperanno in campo marxista soprattutto a partire dalle faglie di crisi del tardo Novecento. Dutschke insiste sulla presenza di un «piano politico del capitale» e utilizzando le categorie operaiste – pur diversamente articolate nel lessico neomarxista di Dutschke - constata come la classe dei capitalisti sia, dai suoi esordi storici, organicamente articolata dentro lo Stato, i partiti, le strutture sociali di potere, l’esercito, le burocrazie aziendali e istituzionali. «Attraverso lo stato, il tardo-capitalismo regola in misura sempre crescente il processo economico, in cui lo stato interviene direttamente in quanto potenza economica (distribuzione del credito, sviluppo delle infrastrutture ecc.)»[4] tanto che «lo scopo dello statalismo non è la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, bensì la direzione statale del capitalismo privato»[5]. Lo Stato è la struttura portante di questo progetto in cui esso «assume sempre più chiaramente una funzione di equilibrio tra le frizioni e contraddizioni esistenti, di autonomia per la conservazione del sistema»[6]. A partire da questo saldo controllo socio politico (istituzioni, produzione, riproduzione) può svilupparsi il progetto egemonico borghese penetrando dentro le masse con le procedure parlamentari, con l’etica del lavoro, l’adattamento, la passività, il consumo, lo svago, le illusioni riformistiche.
Il concetto di «lunga marcia dentro le istituzioni», spesso frainteso, muove, con grande realismo, da questo scenario. Esso indica la strategia di una lunga marcia (l’evocazione maoista non è certo casuale) verso la conquista degli istituti della rappresentanza democratico-borghese. Si obietterò, non a torto, che Dutschke esprime in tutte le occasioni una forte diffidenza se non un a parto disprezzo verso i partiti, lo Stato, il Parlamento. «Il Parlamento è un momento diretto nell’assoggettamento funzionale delle masse tenute nell’incoscienza, e dev’essere perciò da noi rifiutato in ogni caso»[7], l’assemblea dei rappresentanti è infatti un sistema in cui ogni opposizione di classe è ingessata nelle regole di un «confronto» che mira a rappresentare gli interessi dei gruppi dominanti. Il Parlamento non è più il luogo di decisioni politiche che vengono prese tra i vari gruppi di interesse: «Possiamo intendere la democrazia borghese nella sua forma tardo-capitalistica come democrazia d’interessi, in cui i singoli gruppi d’interesse s’incontrano alla Borsa della politica, concludono compromessi, compromessi retti da punti di vista politici; i singoli gruppi d’interesse ricevono una determinata quota del prodotto sociale lordo»[8].
Ma se è questo Parlamento che Dutschke rigetta - quello del sistema partitico legato all’alternanza di potere e non di sistema - «marciare» al suo interno significa innanzi tutto stravolgerne la funzione, il senso, il ruolo in una sorta di détournement situazionista poiché l’istituzione non è radicalmente altro dal movimento. Essa può esserne (anzi, deve esserne) la condensazione non cristallizzata, il momento organizzativo-operativo del flusso di potenza, potere e creatività che esprime il movimento stesso. L’istituzione può infatti diventare il luogo in cui il conflitto politico permane nel suo ruolo. Marcia – lunga, cioè non predefinita nel suo termine temporale - dentro le istituzioni non è affatto una formula omologabile all’opzione riformista. È il rivoluzionamento del presente con la piena consapevolezza di esservi dentro. L’attività extraparlamentare si sviluppa in questa direzione. Essa non è solo un agire frontalmente verso gli istituti dello Stato borghese ma è in quanto tale già prefigurazione rivoluzionaria nel momento in cui si è in grado di svilupparvi controsocietà. Conta, in altre parole, come si agisce, ci si muove, si opera dentro le istituzioni, con quale prospettiva, con quale capacità di condurvi lotta egemonica e tattica di conquista di massa.
«Se le masse sul piano della coscienza sono divenute extraparlamentari, vale a dire se nella coscienza si collocano già all’esterno del tardocapitalismo, allora la crisi del sistema è profonda, allora diviene possibile minare in misura sempre crescente le diverse istituzioni e i diversi ambienti dell’apparato»[9]. Ha scritto Giovanni De Luna: «La “lunga marcia attraverso le istituzioni” - forse la più incisiva istanza di trasformazione avanzata allora dal movimento, così come era stata elaborata dagli studenti tedeschi e in particolare dal loro leader Rudi Dutschke – si nutriva proprio di un’analisi attenta dell’operato concreto delle istituzioni statali e, in questo senso, si differenziava nettamente sia dalle teorizzazioni marxiste-leniniste sul peso dell’avanguardia esterna nell’organizzazione del movimento operaio, sia da quelle operaiste che contrapponevano la lotta contro lo sfruttamento a quella contro l’autoritarismo, la fabbrica contro l’università»[10].
La rivoluzione vive nel proprio essere, nel farsi, nell’accadere giorno per giorno. Sarà un processo lento - «il nostro cammino sarà assai lungo»[11] - e in parte imprevedibile ma, afferma Dutschke ricordando Shakespeare «essere pronti è tutto»[12].
La marcia nelle istituzioni, proposta nella fase crescente del movimento, appare dunque tanto come un’assunzione di realismo e responsabilità politica quanto come tattica innovativa, perché assume operativamente le istanze rivoluzionarie che si stavano sviluppando sul terreno del conflitto anticapitalistico e antiautoritario.
Dutschke, com’è noto, muove la sua azione politica dentro l’università, il luogo della forza lavoro in formazione. La storia della ricostruzione in Germania e lo straordinario decollo tecnico-industriale ed economico si spiegano, egli afferma, con un investimento massiccio sulla formazione in un quadro strategico di messa a sistema delle intelligenze produttive. «La scientificizzazione del processo produttivo provoca necessariamente una stretta relazione tra gli interessi dominanti della società e la formazione universitaria»[13]. Sono gli stessi concetti che circolano in quei mesi nelle università di Trento e Torino. La lotta antiautoritaria che si è sviluppata nelle aule, la presa di coscienza, la formazione di un’alternativa non solo economica ma di sistema che tracima dalla struttura scolastica invadendo l’intero terreno sociale: «La via per divenire rivoluzionari conduce dalle università direttamente alle istituzioni, per collaborare con alla loro distruzione, per far sorgere nuovi gruppi di salariati, di operai, di contadini, ecc.»[14]. Di nuovo, dentro e contro, poiché la figura dello studente matura a partire dal proprio processo culturale e formativo una volontà di azione verso l’oltre lo stato di cose presente. Senza, per altro, negarsi come tale. L’incontro con la classe operaia significa fondere due diversità potenziando la comune strategia. Ha osservato Peppino Ortoleva che «la proposta di “andata al popolo” e di “negazione del proprio ruolo di studenti” avanzata dai gruppi di ispirazione marxista leninista sarebbe apparsa ovunque più rassicurante, più facilmente praticabile, in fondo più generosa, che il tentativo articolato di tenere in vita la tensione fra particolarità e generalità proposto ad esempio da Dutschke con il progetto della “lunga marcia”»[15]. La «politicizzazione dell’Università come punto di partenza della politicizzazione e quindi del mutamento della società»[16] è il compito attuale del movimento. Non è, quella studentesca, un’avanguardia nel senso leniniano. Essa non si pone a capo del processo trasformativo dentro un’organizzazione. Essa, al più, è un «diffusore» della coscienza anticapitalistica. «La nostra prospettiva di rivoluzionare l’ordine esistente consiste unicamente nella nostra capacità di rendere coscienti minoranze sempre più consistenti»[17] per cui bisogna «mobilitare in senso antiautoritario una base relativamente vasta di studenti» e poi puntare a un «allargamento del campo antiautoritario all’area extra-universitaria» poiché «senza un allargamento dei movimenti sovvertitori all’interno della società, non potremmo che naufragare. L’unità degli operai, impiegati, scolari, contadini e studenti rappresenterà da noi il presupposto decisivo per la rivoluzione globale»[18]. Non c’è pertanto in Dutschke alcuna enfasi operaista. L’attenzione ai ceti medi, alle lavoratrici femminili è nel segno di una ricomposizione complessiva del fronte antiautoritario. «Non esiste più nessun ambito che nella fase di rivoluzione culturale del nostro movimento abbia l’esclusivo privilegio di esprimere gli interessi del movimento complessivo. Il movimento di tiepida opposizione è morto»[19]. Certo, la classe operaia resta il cardine di questo movimento antagonista ed è questo il motivo della sottolineatura non solo del permanere delle contraddizioni oggettive ma anche della funzione che possono svolgere piccoli conflitti come la riduzione dell’orario a parità di salario, in ragione dell’aumento vertiginoso della produttività. Ma permane all’interno di una composizione in cui nessuna forza assume a priori (cioè a partire da una centralità derivata da argomentazioni teoriche) un ruolo centrale. Ciò attirò presto le critiche degli operaisti e già nel febbraio del 1969 su «Contropiano» Francesco Dal Co rilevava il «limite fondamentale» di Dutschke nella «riduzione continua della presenza di classe, in seno allo sviluppo capitalistico, a un ruolo statico e oggettivo di “mera forza-lavoro”, condizione questa che difficilmente permette di cogliere il significato strutturale, il ruolo eversivo e dinamico ricoperto dalla classe operaia dentro il capitale»[20] cioè, secondo la prospettiva operaista, l’autonomia e la «precedenza» dell’azione di classe rispetto alla risposta del capitale. Ciò priva l’analisi di Dutschke, per Dal Co, di qualsiasi «prospettiva politica» pur riconoscendo negli scritti del leader studentesco tedesco una specifica attenzione all’egemonia del capitale sul corpo sociale, sottomesso «interamente al contesto complessivo della repressione, che trova più clamorosa e funzionale espressione nella quotidiana mobilitazione dell’intera società contro l’idea della liberazione dal lavoro»[21].
Dutschke ribadisce in varie occasioni la posizione centrale della classe operaia non trasformabile però in una priorità ontologica. «Non esiste un ruolo oggettivistico, preciso dei movimenti operai nelle metropoli, all’interno della totalità imperialistica; esiste una totalità imperialistica che ha temporalmente trasferito gli stessi movimenti operai in una componente integrale del sistema e che tenta di farli permanere in questo stato»[22]. Anzi, il rischio è sempre quello di «assolutizzare in modo metafisico il “proletariato” o “le masse”, di non comprendere la concreta e difficile dialettica tra i gruppi coscienti, radicali e minoritari, e le grandi masse»[23].
Per Dutschke, lettore di Lukács, la classe è una realtà dinamica che prende forma solo nella lotta. La trasformazione delle masse salariate in classe rivoluzionaria è la meta e la tendenza del processo rivoluzionaria, non il suo punto di partenza. Torna il tema, affatto centrale, della coscienza non come dato sovrastrutturale ma come processo materiale ed esistenziale. Essa non proviene né dal partito né dalle avanguardie di classe. È nella mescola da agire «diffuso» della mobilitazione, conflitti in atto, visione strategica che essa si forma e si consolida intaccando quella «coscienza socialdemocratica» che l’organizzazione capitalistica del mondo della vita ha saputo diffondere integrando in sé il sociale in tutte le sue espressioni. Questo è il «lavoro politico»: creare controistituzioni, controinformazione, nuclei autonomi. Da ciò si intuisce la «necessità di una prolungata rivoluzione culturale proprio nei paesi capitalistici sviluppati dell’Europa centrale, come condizione per la possibilità di una trasformazione rivoluzionaria della società»[24]. Questo è il ruolo del movimento studentesco: farsi possibile innesco di un processo di consapevolezza («presa di coscienza») verso la creazione di quell’uomo nuovo. Come dire: prima l’assunzione critica di un distacco soggettivo dall’orizzonte borghese; in concomitanza, l’azione collettiva rivoluzionaria. «Noi non siamo organizzati in un partito, siamo soltanto il nucleo organizzativo di un campo antiautoritario costituito da organizzazioni autonome. Nella fabbrica o nella scuola, nella scuola professionale o nell’università, nella chiesa o nel sindacato, in tutti questi ambiti si costituiscono organizzazioni autonome radicali che non accettano più l’integrazione della propria istituzione nel sistema»[25]. «I rivoluzionari permanenti - scrive Dutschke - continueranno l’infiltrazione in nuove istituzioni questa è la lunga marcia attraverso le istituzioni»[26] cioè «attività permanente nelle istituzioni d’importanza vitale per la rivoluzione (fabbriche, settori burocratici specializzati, aziende agricole, esercito»[27].
A partire dall’Università l’antagonismo anticapitalistico sviluppa appieno le proprie potenzialità proprio per l’imprevedibilità del suo darsi. «Una dialettica rivoluzionaria dei giusti passaggi deve concepire la “lunga marcia attraverso le istituzioni” come un’attività critico-pratica in tutti i campi sociali; essa ha per meta l’approfondimento critico-sovversivo delle contraddizioni, che è divenuto possibile in tutte le istituzioni interessate all’organizzazione della vita quotidiana, non esiste più nessun ambito sociale che nella fase di rivoluzione culturale del nostro movimento abbia l’esclusivo privilegio di esprimere gli interessi del movimento complessivo»[28].
L’antiautoritarismo va letto in questa chiave classista, di diffusione capillare del conflitto dentro le forme istituite del sociale. «La forma dell’organizzazione autonoma agisce nelle sfere in cui vivono gli uomini che non accettano più le regole del gioco. Ciò significa che in ogni istituzione, dalla fabbrica all’università, dalla scuola alla chiesa, possono costituirsi organizzazioni autonome, possono formarsi avanguardie autonominatesi, che, senza essere costrette ad assoggettarsi alla pretesa monopolistica di un partito, possono intraprendere la lotta antiautoritaria all’interno della loro sfera specifica. A mio avviso, oggi, la lotta antiautoritaria è tendenzialmente una lotta rivoluzionaria e, quindi, una lotta socialista, poiché tutte le istituzioni del tardo capitalismo sono in sé autoritarie»[29].
Nessuna «istituzione» è inattaccabile e indicazioni di grande interesse riguardano proprio le forze armate. «Andate nell’esercito, lavorateci, formatevi, create confusione nell’esercito, sviluppate la lotta antiautoritaria al suo interno, conducetevi un’azione sovversiva, lavorate per una strategia rivoluzionaria, il che può anche significare imparare a conoscere i mezzi e i metodi in vigore nell’esercito che sono necessari per la presa rivoluzionaria del potere»[30]. Così come nella burocrazia e nella magistratura, «frazioni essenziali dell’apparato», non inespugnabili ma fortini in cui si possono produrre nuclei di coscienza alternativa che ne rovescino il segno e la funzione in direzione antisistema.
Il successo del processo rivoluzionario dipenderà tanto dai rapporti di forza interni quanto dalle lotte del Terzo mondo che in una realtà globale assumeranno un peso rilevante sia in funzione della creazione di un immaginario alternativo nei paesi occidentali (torna il tema dell’antropologia politica) sia per il disequilibrio dei rapporti interstatuali, preludio e accompagnamento del disordine interno. In Dutschke questa alleanza è ribadita più volte: solo incrinando il sistema imperiale americano incardinato sull’Alleanza atlantica: «La Nato è un elemento integrante della teoria e della prassi dell’imperialismo globale nella sua forma dominante, nella forma dell’imperialismo statunitense»[31] solo con una «coerente connessione rivoluzionaria globale in forma di strategia»[32] le lotte in Occidente usciranno dai limiti asfittici del riformismo. La funzione della lotta coloniale è dunque per Dutschke fondamentale nell’innesto di un processo trasformativo. La formazione culturale di Rudi, come accadde per milioni di studenti da Berkley a Torino a Parigi verso la metà degli anni Sessanta, sovrappone Marx e Fanon, analisi di classe a livello nazionale e studio del neocapitalismo globalista. Il Vietnam è l’innesco di buona parte delle proteste studentesche ma manifestazione e scontri si svolgono in Germania anche in occasione della visita di Ciombe, primo ministro congolano e dello scià di Persi Reza Pahlavi e frequenti sono i riferimenti alle lotte del MIR in Perù, ai vietcong, a Cuba, ai diversi focolai anticapitalistici e antimperialisti. Sono, questi, «momenti di lotta sociale contro la nostra oligarchia dominante»[33].
Ed è proprio lungo la prospettiva terzomondialista che si sviluppa la critica al blocco sovietico. Vi è, da un lato, un posizionamento sostanzialmente libertario di Dutschke che lo porta a rigettare tanto le repressioni interne, l’annientamento del dissenso, il conformismo culturale che degli stati del cosiddetto socialismo reale. Ma è soprattutto la prospettiva internazionalista che smentisce il carattere originario dell’URSS incapace di fornire un appoggio ai movimenti di liberazione dall’imperialismo USA, come in America Latina e di rispondere in modo autenticamente «sovversivo-rivoluzionario» alle istanze di antimperialistiche che provengono dall’intero mondo. Ciò significa non tanto fornire appoggio militare quanto trarre esempio dalle (poche) esperienza socialiste consolidatesi fuori dall’Europa. Cuba, Cina, Vietnam sono laboratori in cui l’alternativa di sistema, pur tra mille difficoltà, si è radicata e diffusa proprio in ragione del fatto che «socialismo non può voler dire raggiungere e sorpassare il capitalismo nel senso limitato e ottuso dell’efficienza della produzione materiale»[34] come al contrario sta accadendo in URSS. La rivoluzione è un problema internazionale che deve rendere «possibile l’evoluzione creativa degli individui»[35], mentre «il neocapitalismo e il socialismo statale autoritario (stalinismo) che contiene in sé pochi elementi comunisti, cooperano contro il comunismo rivoluzionario he deve abbattere ambedue i sistemi. I comunisti finora esistono soltanto in Cina, a Cuba e nel Vietnam»[36].
Dunque, in Europa, i popoli che si sono ribellati allo stalinismo e che hanno insanguinato le strade di Berlino e Budapest invocando «la forma umana del socialismo»[37] prefigurano una «democrazia operaia come potere immediato dei produttori»[38].
Per il movimento anticapitalista occidentale la rivoluzione è dunque un percorso verso un rovesciamento di sistema in cui la violenza contro gli umani non è contemplata nella misura della possibilità che ancora offrono gli ordinamenti liberali di conquistare il potere. Ciò significa che «nessuno può escludere fin da ora l’insorgere della violenza all’interno del processo di trasformazione» poiché «la violenza è costituens del dominio e quindi anche la nostra risposta deve prevedere il ricorso a una violenza dimostrativa e provocatoria. La forma di questa controviolenza verrà determinata dal tipo di conflitto»[39], cioè «l’intensità di questa violenza dipende effettivamente dalla controrivoluzione»[40] che il potere scatenerà di fronte al diffondersi tra le masse di una coscienza e di una volontà di rovesciamento del dominio. Brandt, il primo ministro della Repubblica, è «una maschera», destituibile e verso cui un attentato sarebbe «sbagliato, disumano e controrivoluzionario»[41].
Dutschke insieme a Hans-Jürgen Krahl aveva stilato un «documento dell’organizzazione» in cui si indicava la strategia metropolitana – coerente con la «teoria del focolaio» di Guevara - di una «guerriglia di sabotaggio e di rifiuto» complementare e sinergica con la più violenta «guerriglia rurale» che si stava sviluppando nel Terzo Mondo[42]. A tal fine deve essere praticato un «rifiuto organizzato» cioè disobbedienza e illegalità di massa, autoriduzione delle bollette, richieste «incompatibili» degli operai con «rivendicazioni offensive». Ne consegue una presa di consapevolezza dell’autonomizzazione delle masse, cioè di una riappropriazione sociale del politico, sforzo costituente verso nuove organizzazioni e istituzioni non burocratiche e non autoritarie, sperimentazione di forme di relazionalità aperta, creativa e anche gioiosa in cui alla fine lo stesso Parlamento risulterebbe superfluo in una realtà di autorganizzazione del sociale.
La prospettiva luxemburghiana restituisce una nuova realtà in cui «le assemblee dei Consigli di tutti i settori della vita sociale (sia delle aziende, sia delle scuole, delle università, delle amministrazioni, ecc.) potrebbe essere una cinghia di trasmissione strategica per una futura riunificazione della Germania»[43].
L’obiettivo finale è un socialismo libertario e anticapitalista poiché «democrazia e capitalismo si escludono per definitionem»[44]. Riemerge, nella specifica tonalità di alcuni concetti, il rivoluzionario cresciuto nella gioventù evangelica. «La questione della trascendenza è anch’essa, per me, una questione di storia reale e cioè: in che modo si può trascendere la società esistente, in che modo si può elaborare un nuovo progetto di società futura. Si tratta forse di una trascendenza materialistica»[45]. Questa pulsione interna deve valere anche all’interno della società nuova possibile grazie alla strutturazione di un’antropologia che dovrà mantenere quel «grado di inquietudine critica raggiunto di volta in volta dallo spirito umano verso ogni forma di convivenza umana via via raggiunta», tensione che non consentirà «un acquietamento e un assestamento definitivo della storia umana»[46]. Dunque nessun approdo ultimo a una società perfetta, cristallizzata. L’antiautoritarismo di Dutschke «corregge» l’eschaton, sradica l’illusione di una teleologia della storia che conclude il percorso storico della perfettibilità nella perfezione.
Nel movimento studentesco europeo la Primavera di Praga offre nuove ipotesi di lavoro e nuove prospettive. Essa non è l’esito di quel movimento antiautoritario, classista, popolare e libertario auspicato da «Rudi il rosso» nella Repubblica Federale. Essa è un laboratorio, un esperimento elaborato in massima parte dai dirigenti comunisti, certo a partire da istanze sociali che potentemente esprimevano insofferenza verso il conformismo imposto con la forza dall’URSS ai paesi raccolto sotto la sua egida. Dutschke si reca immediatamente a Praga per parlare, capire, sostenere un processo che pare configurare una possibile alternativa comunista. Appena rientrato in Germania, l’11 aprile del 1968, a una settimana di distanza dall’uccisione a Memphis di Martin Luther King jr. viene colpito a Berlino, davanti alla sede della SDS in Kurfürstendamm, da Joseph Bachmann un estremista di destra esaltato, come dichiarerà lui stesso, dalla campagna d’odio montata dai giornali di Springer. Rudi sopravvive ai tre colpi, due alla testa e uno alla spalla sinistra, che lo raggiungono. I danni provocati al cervello sono gravi ma non fermano la sua attività. Si reca in Francia e in Italia, infine in Danimarca ad Århus dove insegna sociologia. Bachmann, condannato a sette anni per tentato omicidio, si suicida in carcere nel 1970. Dutschke gli aveva scritto, manifestandogli la propria assenza di rancore e cercando di spiegargli le ragioni della scelta socialista.
Pur affaticato indebolito da frequenti attacchi di epilessia rientra nella Repubblica Federale, si avvicina al movimento antinucleare e prende contatti con i dissidenti della DDR organizzando manifestazioni pubbliche in loro favore. Viene delegato a Brema per partecipare all’atto di fondazione dei Grünen previsto per metà gennaio 1980. Pochi giorni prima dell’apertura del congresso, il 24 dicembre 1979, annega nella vasca da bagno di casa, ad Århus, colpito da una violenta crisi. Rudi Dutschke, l’uomo che si era ribellarsi con tutta la sua intelligenza e forza alla violenza del capitalismo, alla sua dinamica distruttiva verso l’individuo, la comunità, l’ambiente è sepolto al cimitero di Sant'Anna a Berlino-Dahlem.
Note [1] Per il profilo biografico cfr. M. Karl, Rudi Dutschke – Revolutionär ohne Revolution, Neue Kritik, Frankfurt am Main 2003 e la biografia scritta dalla moglie G. Dutschke-Klotz, Rudi Dutschke. Wir hatten ein barbarisches, schönes Leben. Eine Biographie, Kiepenheuer und Witsch, Köln 1996. [2] Dutschke a Praga, De Donato, Bari 1968, p.12. [3] Intervista a Rudi Dutschke del 23 marzo 1968 (a cura di Giorgio Backhaus) in «Quaderni piacentini», n. 34, maggio 1968, p. 5. [4] Ivi, p.3. [5] R. Dutschke, La ribellione degli studenti, Feltrinelli, Milano 1968, p. 79. [6] Dutschke a Praga, cit. p.15. [7] Ivi, pp. 19-20. [8] Intervista a Rudi Dutschke, cit. p, 3. [9] Intervista a Rudi Dutschke, cit. p. 7. [10] G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli, Milano 2009, p. 78. [11] Dutschke a Praga, cit. p. 166. [12] Lettere a Rudi Dutschke, Sugar, Milani 1969, p. 11. [13] Dutschke a Praga, p. 141. [14] Lettere a Rudi Dutschke, cit. p. 16. [15] Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968, Editori Riuniti, Roma 1988, p.173. [16] Dutschke a Praga, cit. p. 82. [17] Ivi, p. 92. [18] Ivi, pp. 109-110. [19] R. Dutschke, La ribellione degli studenti, cit., p.130. [20] F. Dal Co, Riscoperta del marxismo e problematica di classe nel movimento studentesco europeo. Rudi Dutschke, in “Contropiano”, 2, 1968, p. 431. [21] F. Dal Co, Riscoperta del marxismo, cit., p. 437. [22] Intervista a Rudi Dutschke, cit., p. 14. [23] R. Dutschke, La ribellione degli studenti, cit., p. 131. [24] La ribellione degli studenti, cit., p. 67. [25] Intervista a Rudi Dutschke, cit., p. 10. [26] Lettere a Dutschke, cit., p.18. [27] Ivi, p. 22. [28] La ribellione degli studenti, cit., p. 130. [29] Intervista a Rudi Dutschke, cit., p. 6. [30] Ivi, p. 11. [31] Ivi, p.12. [32] Ivi, p. 15. [33] R. Dutschke, La ribellione degli studenti, cit., p. 119. [34] Dutschke a Praga, cit., p. 105. [35] Ivi, p.107. [36] Lettere a Dutschke, cit., p.20. [37] Ivi, cit., p. 26. [38] R. Dutschke, La ribellione degli studenti, cit., p. 96. [39] Dutschke a Praga, cit., pp. 91-92. [40] Intervista a Rudi Dutschke, cit., p. 9. [41] Dutschke a Praga, cit., p. 58. [42] Cfr., W. Kraushaar, Il ’68 e gli inizi del terrorismo tedesco occidentale, in C. Cornelißen, B. Mantelli, P. Terhoeven, Il decennio rosso. Contestazione sociale e conflitto politico in Germania e in Italia negli anni Sessanta e Settanta, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 203-223. [43] Dutschke a Praga, cit., p. 119. [44] Ivi, p. 101. [45] Ivi, pp. 177-178. [46] Ivi, p. 79.
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Franco Milanesi, dopo la laurea in filosofia ha insegnato in un Liceo di Pinerolo, città dove vive. Convinto che il pensiero politico sia un «pensare per l’agire» ha cercato di intrecciare lo studio con la militanza attiva. È autore dei saggi: Un’antropologia politica del Novecento, una monografia su Mario Tronti, Nel Novecento, e un testo sul nazionalbolscevismo in Germania, Ribelli e borghesi. Nazionalbolscevismo e rivoluzione conservatrice. 1914-1933.
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