L’autoannientamento di Amelia Rosselli
«Io volevo diventar musicista» dichiara Amelia Rosselli (1930-1996), scrittrice, musicologa e poetessa tra le più illustri nel Novecento, unica nel suo tempo. In quel verbo del «divenire» qualcosa o qualcuno, ci sono tutti i giorni di felicità che un giovane può ancora provare nel sognare il futuro. Anche per la poetessa dai tanti nomi è così. È chiamata da piccola Melina, per distinguerla dalla nonna scrittrice antifascista Amelia Pincherle Moravia, poi anni dopo Marion, come la madre Marion Catherine Cave e, solo in ultimo, Amelia. La Nostra, semplicemente Amelia ormai donna, in un’intervista del 1978 racconta se stessa tramite il dinoccolare delle sue mani volte in aria, dichiarando di «non avere più uno strumento in casa»[1]. Ha 48 anni. D’altronde succede così quando si lascia andare ciò che forse ci è più caro.
Delle sue perdite, dei suoi lutti e delle persecuzioni, abbiamo intatte nei suoi testi le molteplici cicatrici delle estirpazioni degli affetti, e il suo abitare la fatica terrena. Nel tentativo lungo una vita di disegnare una silenziosa perfezione, la vita di Amelia è tratteggiata innanzitutto da una tragedia pubblica. La morte del padre, Carlo Rosselli, celebre intellettuale antifascista fuggito a Parigi nel 1937, è un’invadente verità per chi a soli sei anni inizia a far dimestichezza con la morte. Amelia da allora intercetta l’erranza, in una frenetica successione di fughe tra Francia, Inghilterra, Svizzera e Stati Uniti. Sarà Roma però a diventare dimora, città che richiama la sua infanzia, eco della lingua paterna – mentre la lingua materna le permetterà solo in seguito il sostentamento, lavorando come traduttrice. «Cinecittà» è illuminata da una «dolce vita» percepita per molti come possibile, mentre l’esistenza di Amelia si tratteggia sempre più velocemente di un chiaroscuro violento. A pochi anni dalla perdita della madre, nel 1953 muore prematuramente il caro amico di Amelia, lo scrittore e poeta Rocco Scotellaro a cui poco dopo dedicherà Cantilena: poemetto che richiama il musicare del pianto. Quel musicare che è già parola, perno centrale, chiave nella toppa dai primi anni Cinquanta. In Italia Amelia intensifica gli studi iniziati a Londra con figure di primissimo piano e, in ottica etnomusicologica, avvia le prime pubblicazioni su «Diaposon», «Civilità delle macchine» e altre riviste specialistiche. Al contempo, «senza deciderlo» e in un esercizio intimo, quasi privato, Amelia sperimenta esercizi linguistici inclusi poi nella raccolta di poesie in francese, inglese e italiano (Primi scritti 1952-1963), pubblicata invero solo molti anni dopo. Non un pluringuismo dotto e neoavanguardistico ma esercizio di radicamento, «impasto babelico» alla ricerca di un’identità. La faticosa ricerca possiede però un ritmo inaccettabile di ciò che manca o che potrebbe essere quando, nel 1954 e poi di nuovo nel 1962, viene trattata con elettroshock e insulina per le sue allucinazioni e visioni oscure. Da quegli anni inizieranno i frequenti ricorsi a cure ospedaliere per schizofrenia, diagnosi che Rosselli non accetterà mai e che insieme al Parkinson la spingeranno a una proverbiale necessità alla vita interiorizzata. È lo stesso arco temporale in cui poesia e musica sono perciò motivo di esistenza: coabitazione a un attimo dal divenire possibilità. Amelia in quegli anni è immersa in una cultura internazionale multidisciplinare mentre vuole fondere musica e scrittura in un sistema «che renda possibile farlo sulla macchina da scrivere»[2]. È la musica perciò che fa accedere Amelia alla reinvenzione della metrica classica durante la prima stesura di poesie del 1958 de La Libellula. «E ho avuto quindici giorni di grande felicità e ispirazione»[3] dichiara, forse con ragguardevole sorpresa. D’altra parte Rosselli frequenta contestualmente tra il 1959 e il 1961 i noti corsi estivi della nuova avanguardia musicale a Darmstadt. In quel contesto, in una forte componente concreta assimilabile al «pianoforte preparato» di John Cage – con cui collaborerà a più riprese in Italia[4] – Amelia presenta il «pianofortino». È lo strumento da lei ideato e prodotto dalla ditta Farfisa per produrre suoni che non riescono a essere espressi tradizionalmente. In questo periodo di profonda ricerca che pare muoversi e coesistere con le sue vicende private, un senso di rigore invero la intercetta. Per scelta professionale rinuncia a essere madre e moglie e ben presto a essere musicista poi, in un’invadente ideale di perfezione. «Mi resi conto però di non poter seguire con serietà più di un’arte, e a ventinove anni mi dedicai esclusivamente alla letteratura»[5], dichiara Amelia che aveva studiato privatamente il violino, l’organo e il pianoforte. Così sarà la macchina da scrivere, consueto strumento scrittorio, a divenire l’unico strumento possibile. L’esordio ufficiale di Amelia Rosselli avviene con la potenza di Variazioni Belliche (1964) il cui allegato è Spazi metrici (1962) che affina le questioni della dimensione fisica e acustica del suono. È Pier Paolo Pasolini a promuoverla nel «Menabò» di Vittorini del 1963 – medesimo anno in cui compare a Palermo accanto all’altra sola donna, Carla Vasio, tra i primi 34 scrittori del Gruppo 63. Amelia che ormai fa a meno dei suoi strumenti in casa, esprime, forse senza accorgersene, quella musicalità che le appartiene in ogni suo gesto e alito d’aria. «Avete visto le mani di Amelia?»[6] sembrano dirigere un’orchestra quando racconta del suo intervento sonoro in un recital di Carmelo Bene su Majakovskij. E così come una maschera della commedia dell’arte che non può essere negata dai teatranti, la musica sarà invero sempre presente nella biografia rosselliana, seppur in modalità differenti. In Serie Ospedaliera (1963-1965) compare una poesia dedicata proprio alla musica[7] e dopo la pubblicazione di Documento (1976), nel 1979 il poemetto Improptu richiama nel titolo l’improvvisazione nella musica. Da lì in avanti la sua malattia diviene più intensa e seguiranno perciò alcune edizioni rinnovate della sua poetica o ripubblicazioni in Appunti sparsi e persi (1983), Antologia poetica (1987) e la sua unica prosa Diario ottuso (1990). Con pentagrammi sempre più sguarniti, il disegno di Amelia si compie. Sei anni prima del suo suicidio nell’appartamento romano intravediamo in un suo racconto tutte le rinunce, quella della musica e in fondo della sua stessa vita. Quando Amelia dichiara in un ricordo vivido: «Per alcune poesie mi giravo dal sedile del pianoforte, al tavolo [per scrivere]»[8] pare ricordarci quei giorni di felicità, un attimo prima del lasciar andare ciò che forse le era più caro. Leggere Amelia Rosselli perciò non significa solo avvicinarsi a un’artista complessa e molteplice ma forse significa ricordarci della vita, innanzitutto della sua, che in una poesia di Appunti sparsi e persi sussurra: «Perdonatemi perdonatemi perdonatemi/ vi amo, vi avrei amato, vi amo». E noi forse infondo non l’abbiamo perdonata se non la leggiamo con più vigore, se non riflettiamo sulle cose che saremmo potuti essere, sui sogni che troppo velocemente abbiamo lasciato andare mentre la musica di Amelia ancora riecheggia nelle sue nude mani e nell’ariosità delle sue poesie, da quel febbraio del 1996.
Note: [1] A. Rosselli, È vostra la vita che ho perso: conversazioni e interviste 1964-1995, a cura di M. Venturini e S. D. March, Le lettere, Firenze, p. 23. [2] L. Barile, Trasposizioni: i due mestieri di Amelia Rosselli, «California Italian Studies», VIII/1, 2018, p 11. [3] L. Barile, Molto perfezionista e un po’ smemorata, in È vostra la vita che ho perso: conversazioni e interviste 1964-1995, cit., p. V. [4] Per un maggiore approfondimento sulla rete di relazioni tra Amelia Rosselli con la più viva avanguardia musicale e artistica europea di quegli anni, si rimanda alla massima interprete di Amelia, Emmanuela Tandello, e in particolare alla pubblicazione del 2015. [5] A. Rosselli, È vostra la vita che ho perso: conversazioni e interviste 1964-1995, cit., p. 23. [6] ivi, p.366. [7] A. Rosselli, Nei dintorni della Libellula. Tre note, a cura di Palli Baroni, in La furia dei venti contrari, a cura di Andrea Cortellessa (Firenze: Le Lettere, 2007), p. 37. [8] A. Rosselli, È vostra la vita che ho perso: conversazioni e interviste 1964-1995, cit., p. V.
Immagine: Daniele Lombardi
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Simona La Neve (1985), art researcher e docente, dopo studi in architettura si specializza alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano con una tesi conservata oggi all’archivio del Mart di Trento e Rovereto. Ha svolto ricerche e progetti curatoriali anche in ambito istituzionale (Inu, Roma; Politecnico, Milano; Bocsart, Cosenza). Si occupa oggi principalmente di scrittura come pratica artistica di resistenza empirica, endogena ed esogena. È suo tra altri, il saggio per i cinquant’anni di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini («il manifesto», 19 maggio 2021).
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