Ricordare Adrienne Rich a dieci anni dalla scomparsa [1]. Richiamare Politica del posizionamento, bianchezza e simultaneità delle oppressioni, per segnare l’attualità e il potere trasformativo di una riflessione che ha riscritto «le condizioni di dicibilità dell'essere donna».
* * *
«At the centre of what?» si chiede Adrienne Rich all'inizio del saggio Notes Toward a Politics of Location [2] che già dal titolo svela il potere trasformativo della sua riflessione e costituisce di fatto un momento di profondo ripensamento del ruolo teorico e politico storicamente svolto dal femminismo bianco statunitense. Quando appare, nel 1984, il saggio disegna una topologia della svolta perché segna un momento che si rivelerà spartiacque, per la capacità della poeta femminista lesbica americana di re-visionare le condizioni di dicibilità dell'esperienza di vita dell'essere donna.
A partire dalla domanda «Al centro di cosa?» si articola un percorso in cui Rich ci chiede di rivedere il presunto centro da cui parliamo, incitandoci a riconoscere la trama di poteri di cui è intessuta tutta l'esperienza di vita delle donne. Per farlo, Rich propone di adottare la «politica del posizionamento», un concetto che si rivelerà centrale per rivendicare l'interconnessione fra teoria e politica femminista, e che ha fornito un linguaggio per articolare come il punto di partenza da cui si nasce, si vive, si parla è sì legato al corpo di donna, ma non è identico per noi tutte.
La politica del posizionamento ci insegna a politicizzare il terreno da cui parliamo e rappresenta quindi uno strumento teorico e politico cruciale per ri-pensare e abitare quella che Audre Lorde chiama la «casa delle differenze»: il femminismo [3]. Ma la politica del posizionamento basa la sua forza anche nell'aver saputo tracciare una genealogia critica e non innocente del femminismo che ci ha preceduto, che, secondo Rich, ha fatto della bianchezza un'invisibile arma epistemica per esercitare potere. E, nello stesso tempo, nell’aver sapientemente costruito un dialogo con il femminismo afroamericano, da cui Rich impara l'insegnamento politico della «simultaneità delle oppressioni», elaborato nel 1977 dal Combahee River Collective – un concetto in parte poi rivisto e modificato e che oggi conosciamo come intersezionalità. Con questa cornice sullo sfondo, Rich ha insegnato al femminismo bianco la lezione appresa dal femminismo afroamericano e si è fatta interlocutrice con le riflessioni più radicali dei femminismi di Mohanty, Anzaldua, hooks, che nell'arco di pochi anni renderanno il femminismo non più unidirezionale né unipolare.
Space Invaders [4]
Notes Toward a Politics of Location nasce come intervento alla Summer School of Critical Semiotics di Utrecht, sul tema: Women, Feminist Identity and Society in the 1980s. Erano presenti anche la scrittrice giamaicano-americana Michelle Cliff – dal 1976 compagna di Adrienne Rich – la studiosa cilena Cecilia Medina, Philomena Essed studiosa di Critical Race and Gender, e la poeta teorica femminista Myriam Díaz-Diocartez [5]. In realtà il saggio è l'esito di un lungo percorso di maturazione di Rich, che ne raccoglie le riflessioni nel volume Blood, Bread and Poetry uscito nel 1985. Questo saggio, insieme a North American Tunnel Vision e Resisting Amnesia: History and Personal Life, testimonia come la riflessione di Rich si stia spostando dal piano personale dell'identità e dell'esperienza di sé al più ampio paesaggio del Nord America, che fa da sfondo a una nuova crescente consapevolezza.
Come lei stessa afferma, è infatti sempre più mossa dal desiderio di confrontarsi con la storia reale del suo paese perché «Come donna, come femminista, come ebrea, come lesbica, sono perseguitata da questioni che riguardano il processo storico, la responsabilità storica, questioni di coscienza e ignoranza storica e del cosa queste hanno a che fare con il potere» (Blood, Bread and Poetry, 1983). Catalizzatore di questa apertura è un viaggio in Nicaragua che Rich compie nei primi anni Ottanta [6]. Si tratta di un momento di svolta che è documentato in questi saggi e la spinge a «parlare da, e di, e al [suo] paese» (Your Native Land, Your Life, 1986), nonché a pensare con nuovi approcci alle storie e alle identità delle donne, così come ad altre questioni che riguardano le loro vite.
Se la crescente consapevolezza del Nord America come potenza politica e la stessa posizione della scrittrice all'interno del suo paese è di fatto una forza trainante che si coglie anche nelle raccolte poetiche di questo periodo (come North American Time, 1983), la politica del posizionamento rappresenta anche una sorta di topologia della svolta perché capace di incarnare una trasformazione che è in atto all'interno dell'epistemologia culturale femminista statunitense. Adottando una prospettiva di più lunga durata che considera il fluire della coscienza femminista statunitense, il saggio di Rich segna infatti anche una svolta dalla retorica temporale degli anni Sessanta e Settanta – in cui erano stati dominanti la metafora del risveglio, della rivelazione e della rinascita che si ritrovano negli scritti, nei manifesti e nelle pratiche della cosiddetta Seconda Ondata – a quella che la studiosa statunitense Susan Standford Friedman chiama la «retorica spaziale del posizionamento, della multiposizionalità e della migrazione» che diventano le immagini metaforiche del femminismo della Terza Onda negli anni Ottanta e Novanta [7]. La retorica dello spazio è infatti legata a una confluenza di tre fattori che, secondo Friedman, sono da rintracciare nella crescente importanza del Movimento per i diritti civili, nell'impatto del discorso postmoderno che intensifica le metafore spaziali della fluidità, e nella rivoluzione informatica e nei processi di globalizzazione. Notes Toward a Politics of Location, del 1984, è dunque testimone di questa trasformazione.
Ma in gioco c'è anche dell'altro. Assumendo una prospettiva teorica e politica, ciò che mi preme sottolineare è come la metafora spaziale della politica del posizionamento abbia insistito sulla necessità di problematizzare il presunto centro da cui si parla e in cui viviamo, ri-politicizzando la trama di poteri che plasma l'esperienza di vita delle donne. Il primo fattore politicamente saliente che Rich identifica si può trovare in questo noto passaggio, che attraverso una semplice quanto efficace reiterazione della parola politica [politics], mette in primo piano quanto l'esperienza del corpo, del piacere, e della sessualità, ma anche quanto l'esperienza che le donne fanno dei ruoli sociali e sessuali funzionali al piacere maschile, siano attraversati in modo costitutivo dal potere. Si tratta di un vortice solo apparentemente ossimorico che svela però come il femminismo abbia saputo leggere la continuità e la contraddittorietà dell'esperienza femminile: «La politica del rimanere incinta e della maternità. La politica dell'orgasmo. La politica dello stupro e dell'incesto, dell'aborto, del controllo delle nascite, della sterilizzazione forzata. Della prostituzione e del sesso matrimoniale. Di ciò che è stata definita la liberazione sessuale. Dell'eterosessualità forzata. Dell'esistenza lesbica» (Notes Toward a Politics of Location).
Ma se l'atto di politicizzare l'esperienza di donna e lo svelare come il personale fosse in realtà politico erano già tra alcune delle questioni centrali del femminismo americano – e che Rich riconosce come lezione imparata non solo dal femminismo radicale degli anni Settanta ma anche dal femminismo marxista – credo che la radicalità dell'insegnamento del testo di Rich vada ricercata in particolare seguendo tre piste di lettura. Quella che riconosce come politicamente saliente il privilegio della whiteness. Quella che guarda alla simultaneità delle oppressioni appresa dal femminismo afroamericano. Ed infine, la pista che cerca la sopravvivenza, le eredità, di Rich nelle riflessioni dei femminismi che, a partire dalla metafora spaziale, hanno proseguito questo percorso.
Bianchezza
Come sappiamo, per Rich il riconoscimento e la messa in discussione della trama dei poteri invisibili che dà forma alla vita delle donne, inizia a partire dal proprio corpo. È un corpo invocato come spazio del divenire soggette a se stesse, che determina la complessa geografia identitaria del farsi soggettività. Se da una parte non è difficile riconoscere in questo nodo l'eredità politica della pratica della consciousness raising dei collettivi femministi e dei gruppi di self-help statunitense, dall'altra parte l'avere un corpo non significa, per Rich, necessariamente ridurre all'unitarietà il complesso tema dell'identità: «Anche iniziando dal mio corpo, devo ammettere che fin da subito quel corpo aveva più di una identità» (Notes Toward a Politics of Location, p. 215). Tutto il saggio risuona infatti di interrogativi che nascono dal desiderio di capire come la propria identità sia modellata anche dal proprio contesto culturale. In che modo, si chiede Rich, un «luogo su una mappa» (Ivi, 212), situato in un particolare contesto storico, influenza chi siamo e cosa pensiamo? E in che modo il proprio paese influenza la propria identità e «la propria responsabilità» nel mondo (Ivi, 211)?
Il punto della questione, nelle parole di Rich, è però anche un altro, ossia quello di riconoscere come si tratti in realtà di un corpo bianco che viene alla luce già all'interno di regole sociali e costruzioni di potere istituzionalizzate che sono strutturalmente razziste. Il termine white ricorre infatti ben 45 volte in questo saggio di appena poche pagine indicando come sia la bianchezza la vera protagonista. Rich, in altre parole, ci invita a esercitare i nostri occhi nel riconoscere la whiteness come quel dispositivo attraverso cui si esercita il privilegio del non essere soggettività sottoposte al processo di razzializzazione. È una bianchezza che si costruisce come norma, che si dà in una presunta neutralità del proprio punto di vista. E, nella bianchezza Rich riconosce quel terreno apparentemente neutro e invisibile da cui si parla e che lei ci insegna a nominare come «il contesto dal quale veniamo, le condizioni che abbiamo dato per scontate» (Ivi, 219). Il racconto che, scevro da ogni retorica, parla della propria nascita sembra dunque avere l'obiettivo di mostrare come sia la bianchezza ad essere il vettore invisibile del privilegio.
Questo corpo. Bianco, femmina; o femmina, bianco. Le prime durature evidenze. Ma sono nata nella sezione bianca di un ospedale che separava le donne bianche in travaglio da quelle nere e nella nursery divideva i bambini bianchi da quelli neri, così come separava i corpi bianchi da quelli neri nell'obitorio. Sono stata definita bianca prima ancora di essere definita femmina. La politica del posizionamento. […] Posizionare me stessa nel mio corpo significa molto più di quanto ha significato avere una vulva, una clitoride, un utero, dei seni. Significa riconoscere questa pelle bianca, i luoghi dove mi ha portata, i luoghi dove non mi ha permesso di arrivare (Ivi, 215).
Tuttavia, la bianchezza non determina solo le forme in cui la propria geografia identitaria fa esperienza del mondo. È anche il vettore attraverso cui ridisegnare la mappa critica di quella geografia complessa delle differenze che è il femminismo.
Simultaneità dell’oppressione
La critica alla presunta invisibilità della bianchezza è l'insegnamento che Rich impara dal confronto con il femminismo afroamericano, dalle storie delle donne incontrate in Centro America e dalle scrittrici cubane.
«È stato negli scritti, ma anche nelle azioni, nei discorsi e nei sermoni della popolazione nera degli Stati Uniti che ho iniziato a sperimentare il significato della mia bianchezza come un punto del posizionamento di cui dovevo assumermi la responsabilità. È stato leggendo poesie di scrittrici cubane contemporanee che ho iniziato a sperimentare il significato del Nord America come un luogo che aveva plasmato il mio modo di vedere e le mie idee su cosa fosse importante, un altro posizionamento di cui ero responsabile. Ho viaggiato poi in Nicaragua, dove in un piccolo paese impoverito, in una società che da appena quattro anni si è dedicata a sradicare la povertà, sotto le colline del confine tra Nicaragua e Honduras, che ho potuto sentire fisicamente sulle mie spalle il peso degli Stati Uniti del Nord America, la sua forza militare, l'ingente stanziamento di denaro, i suoi mass media» (Ivi, 219-220).
A questa nuova consapevolezza politica ha dato sicuramente un contributo teorico importante la lezione del femminismo afroamericano, in particolare lo Statement del Combahee River Collective che nel 1977 aveva proposto un'analisi della condizione delle donne nere incentrata sulla nozione di simultaneità delle oppressioni. Oggi si parla soprattutto di intersezionalità, con riferimento alla nota formulazione di Kimberlé Crenshaw, che nel 1989 aveva articolato l'analisi a partire da un caso di giurisprudenza del lavoro del 1977: De Graffenreid contro General Motors, che aveva coinvolto cinque lavoratrici nere. L’analisi di Crenshaw aveva introdotto il termine intersection per indicare «i vari modi in cui razza e genere interagiscono per modellare le molteplici dimensioni delle esperienze lavorative delle donne nere» [8]. Entrato successivamente all'interno del dibattito statunitense, la nozione lascia il territorio giuridico e inizia a viaggiare per poi ibridarsi. Entra così – almeno parzialmente – nell'agenda politica del femminismo globale grazie, non a caso, ai movimenti sociali come Ni Unas Menos e Black Lives Matter, che hanno avuto il grande merito non solo di disvelare l'intreccio tra le diverse linee di oppressione e discriminazione nell'esperienza sociale contemporanea attorno al genere, la razza e la classe, ma forse e soprattutto hanno indicato l'urgenza dell'intersezionalità delle lotte, come ci ricorda Angela Davis [9].
Il saggio di Rich si situa storicamente prima dell'introduzione e diffusione della nozione di intersezionalità e si richiama esplicitamente alla formulazione del Combahee River Collective che aveva articolato in questi termini l'esperienza dell'oppressione delle donne nere come «simultanea».
Per noi è spesso difficile separare l'oppressione della razza da quella della classe e da quella sessuale perché nelle nostre vite sono spesso una esperienza simultanea. […] Dobbiamo articolare la reale condizione di classe delle persone, che non sono semplicemente lavoratori e lavoratrici senza sesso e razza ma vivono l'oppressione sessuale e razziale come fattori significativi della loro condizione economica e lavorativa [10].
La lettura sulla simultaneità delle oppressioni proposta dal Combahee River Collective e ripresa da Rich, mette in luce una serie di aspetti cruciali. Il porre l'enfasi sui sistemi di oppressione che «sono vissuti simultaneamente e sono inseparabili» viene rafforzato da Rich attraverso l'impossibilità di scindere e distinguere il fronte dell'oppressione perché – come afferma – per molte donne i fronti su cui combattere sono molti e simultanei. La simultaneità delle oppressioni non è quindi solo riconducibile al concetto di sfruttamento ma è una nozione di oppressione di carattere politico.
Il riconoscere la simultaneità delle oppressioni significa inoltre dare valore alle teorie e pratiche del femminismo afroamericano, che le permette di aprire un ulteriore spazio di incontro con alcune scrittrici femministe nere con cui aveva da anni instaurato un prolifico confronto, come ad esempio Audre Lorde e Alice Walker. A ben guardare però, il confronto con la tradizione afroamericana si articola anche nel recuperare la genealogia del femminismo e delle/degli attiviste/i afroamericane: Sojourner Truth, W.E.B. Du Bois, Ida B. Wells-Barnett, C.L.R. James, Malcolm X, Lorraine Hansberry, Fannie Lou Hamer. L'importante contributo di Rich si unisce dunque ad una più recente riflessione che, ricostruendo la genealogia dell'intersezionalità, sottolinea come la storia di questa nozione sia emersa dalla pratica teorica del femminismo nero statunitense a partire dall'epoca della schiavitù. È infatti essenziale sottolineare, come fa la studiosa Ange-Marie Hancock in Intersectionality: An Intellectual History, come il capitalismo nell'intreccio sia con la schiavitù che con il colonialismo abbia di fatto contribuito a formare aspetti centrali dell'analisi intersezionale [11]. E, come ipotizza Ashley Bohrer parlando di «tradizione intersezionale» nel recente Marxism and Intersectionality, che, ben prima dell'uso del termine da parte di Crenshaw, il capitalismo ha contribuito ad articolare la complessità delle forme di oppressione [12]. Questa tradizione ha fra le sue precursore Sojourner Truth (1797-1883) e, in tempi più recenti, bell hooks che ricorre alla definizione di «White supremacist capitalist patriarchy» e Patricia Hill Collins che parla di «Matrix of oppressions» per indicare la duratura eredità della schiavitù sulle condizioni di vita delle donne afroamericane [13].
Infine, riconoscere la simultaneità delle oppressioni significa per Rich declinare all'interno del proprio impegno di femminista bianca le implicazioni di questa riflessione. Che conseguenze ha avuto l'interrogare la presunta invisibilità della propria bianchezza e conoscere i fronti simultanei di oppressione che le donne nere, centro-americane e cubane vivono nella propria esperienza di vita? La mia ipotesi è che Rich non solo abbia rivisto il proprio posizionamento nel femminismo, ma abbia anche voluto interrogare la narrativa universalista con cui il femminismo bianco ha raccontato le donne, a partire dalla categoria di «donna» per finire a un fittizio «noi donne». Riconoscere il privilegio che comporta avere la pelle bianca in una società strutturalmente razzista implica per Rich il tentativo di ri-leggere criticamente la genealogia del femminismo bianco occidentale, indagandone non solo le radici che affondano in un passato all'interno del quale si intrecciano reti di potere e privilegi, ma denunciandone anche i violenti risvolti epistemici, ovvero come la teoria del femminismo bianco abbia compiuto la marginalizzazione e l'invisibilizzazione delle altre. Si tratta in altre parole del paradosso del femminismo bianco occidentale che denuncia la marginalizzazione delle donne, ma è di fatto foriero di marginalità per altre soggettività che bianche non sono: «Anche se come donne siamo state marginalizzate, come donne bianche occidentali artefici di teoria, abbiamo noi stesse marginalizzato altre perché la nostra esperienza di vita è, senza essercene accorte, bianca, e anche perché le nostre «culture delle donne» affondano le loro radici nella tradizione occidentale» (Notes Toward a Politics of Location, p. 219).
Rich opera quindi una operazione di displacement del femminismo, nel tentativo di provincializzare il femminismo bianco come un territorio fra gli altri e di mettere in discussione la posizione di centralità con cui si era di fatto sempre auto-narrato, quella dell'universale.
È anche in questo senso che va letto l'atto di «re-visione» polemica, al contempo politica e poetica cara alla stessa Rich (1972), delle parole delle Le tre Ghinee (1939), il saggio di Virginia Woolf diventato manifesto del femminismo pacifista. A Woolf che aveva rivendicato l'estraneità delle donne alla guerra così come a ogni forma di imperialismo dichiarando «Come donna, non ho un paese. Come donna non voglio un paese. Come donna il mio paese è il mondo intero», Adrienne Rich risponde che non è possibile sottrarsi alle condizioni storiche e geo-politiche all'interno delle quali si è nate, perché il rischio è quello di replicare le dinamiche di potere e marginalizzazione che nascono dal credere che siamo nate tutte uguali.
«Come donna ho un paese; come donna non posso liberarmi da quel paese semplicemente condannando il suo governo o dicendo tre volte «Come donna il mio paese è il mondo intero». Lealtà tribali a parte, e anche se gli stati nazionali sono ormai solo dei pretesti usati dai conglomerati multinazionali per servire i propri interessi, ho bisogno di capire come un luogo sulla carta geografica è anche un luogo della storia all'interno del quale come donna, ebrea, lesbica, femminista sono stata creata e cerco di creare» (Notes Toward a Politics of Location, p. 211).
Eredità
Leggere questo testo oggi permette di svelare l’eredità di Rich, ovvero come la politica del posizionamento sia stata in grado di plasmare profondamente lo sviluppo della teoria critica e della discussione intorno ai temi chiave del femminismo di lì a venire. Rappresenta una tappa genealogica importante per comprendere alcune delle più radicali riflessioni femministe che nell'arco di alcuni anni renderanno il femminismo uno spazio abitato da una molteplicità eterogenea e non pacificata di differenze. Ne sono un esempio, il testo semi-autobiografico dell'attivista teorica cicana, lesbica e poeta Gloria Anzaldua Borderland/La Frontera: The New Mestiza del 1987, in cui si esplorano nuovi possibili significati di cosa intendiamo per la frontiera/i confini intesi non come linee che dividono ma come il terreno culturale, linguistico, politico e poetico, nonché di genere per ripensare il tema dell'identità e dell'alterità che abitiamo.
Oppure la riflessione della femminista indiana Chandra Mohanty che nel saggio del 1988 Under Western Eyes: Feminist Scholarship and Colonial Discourses [14] inaugura, insieme a Spivak, una critica ai presupposti che hanno determinato una visione essenzializzata – tutta occidentale – della cossidetta «donna del terzo mondo». Oppure l'elaborazione di Inderpal Grewal and Caren Kaplan di femminismo trasnazionale in Scattered Hegemonies. Postmodernity and Transnational Feminist Practices, del 1994 che propone pratiche femministe transnazionali per esplorare le possibilità di fare un lavoro femminista attraverso le divisioni culturali senza ignorare le differenze o cadere nel relativismo culturale.
Soprattutto è possibile rintracciare la sopravvivenza di Rich nel testo della femminista afroamericana bell hooks che nel saggio «Marginality as a site of resistance» del 1990 riconfigura la tensione fra il centro – che è rappresentato dal potere bianco e dall'università intesa come luogo di trasmissione di saperi unicamente bianchi e borghesi che sono considerati i soli legittimi – e il margine. Lo spazio della marginalità dell'esperienza afroamericana negli Stati Uniti segregati, viene rivendicato da bell hooks non solo come luogo della privazione, del dolore, e della repressione ma anche spazio della resistenza [15].
La domanda con cui si conclude il saggio: «Who is we?», è una interrogazione che il femminismo contemporaneo deve portare con sé, per continuare a costruire e pensare questo noi come un campo di tensione formidabile, in cui la circolazione del potere deve continuare ad essere riconosciuta, là dove era prima invisibile o dove è invece sempre esistita.
Note [1] Una prima versione di questo saggio è stata presentata in occasione della giornata di studi: Poesia solidarietà impegno. Ricordando Adrienne Rich a dieci anni dalla scomparsa, promossa dal Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne, MASTER GEMMA (Studi di genere e delle donne), Associazione Orlando, in collaborazione con Biblioteca Salaborsa; Bologna, 26 marzo 2022. [2] A. Rich, Notes Toward a Politics of Location, in Blood, Bread, and Poetry: Selected Prose, 1979–1985, W. W. Norton & Company, New York 1985, 210–231. La traduzione in italiano degli stralci riportati nel testo è dell’autrice [NdR]. [3] A. Lorde, Zami: A New Spelling of My Name. A Biomythography, Crossing, Berkley 1982, p. 226, trad. it Zami. Così riscrivo il mio nome, Ets 2014. Vedi anche A. Lorde, Age, Race, Class, and Sex: Women Redefining Difference, in Ed., Sister Outsider. Essays and Speeches, Crossing, Berkeley 1984 trad. it. Età, razza, classe e sesso: le donne ridefiniscono la differenza in Sorella Outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde, Il dito e la luna, Milano 2014. [4] N. Puwar, Space Invaders: race, gender and bodies out of place, Berg. London 2004. [5] L. Davis, The Politics of the Personal Essay: Reading Adrienne Rich in the Women’s and Gender Studies Classroom, «Feminist Formations» 32, n. 1, 2020): 137-158, p. 137. [6] J. E. Riley, Understanding Adrienne Rich, University of South Carolina Press, 2016. [7] S. S. Friedman, Locational Feminism: Gender, Cultural Geographies, and Geopolitical Literacy, in edited M. DeKoven, edit, Feminist Locations: Global and Local, Theory and Practice, Rutgers University Press, New Brunswick, 2001, p. 24. [8] K. Crenshaw, Mapping the Margins: Intersectionality, Identity Politics, and Violence against Women of Color, «Stanford Law Review», 1991 43(6), 1241-1299, p. 1244. Vedi anche K. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory, and Antiracist Politics, «University of Chicago Legal Forum», 1989, 139-167 p. 140. [9] A. Davis, Freedom is a Constant Struggle. Ferguson, Palestine, and the Foundations of a Movement,: Haymarket Books, Chicago 2016. [10] Combahee River Collective, A Black Feminist Statement, in Capitalist Patriarchy and the Case for Socialist Feminism, ed. Zillah Eisenstein, Monthly Review Press, New York and London, 1979. [11] A. M. Hancock, Intersectionality: An Intellectual History, Oxford University Press, New York, 2016, p. 44. [12] A. Bohrer, Marxism and Intersectionality. Race, Gender, Class, and Sexuality Under Contemporary Capitalism, Transcript, Bielefeld 2019, p. 16. [13] P. H. Collins, Black Feminist Thought: Knowledge, Consciousness, and the Politics of Empowerment, Routledge, New York, 2008. [14] C. T. Mohanty, Under Western Eyes: Feminist Scholarship and Colonial Discourses, «boundary 2», Vol. 12, No. 3 (Spring - Autumn, 1984), pp. 333-358. In italiano vedi «Sotto gli occhi dell’Occidente» rivisto: solidarietà femminista e lotte anticapitaliste, in Femminismo senza frontiere, ombre corte, Verona 2012. [15] bell hooks, Feminist Theory. From Margin to Center, Routledge, 2014.
* * *
Cristina Gamberi lavora presso il Master internazionale in Women's and Gender Studies GEMMA al dipartimento di Lingue, letterature e culture moderne dell'università di Bologna dove è anche tutor dell'insegnamento Italian women's literature. La sua ricerca si colloca sul confine fra la riflessione filosofica contemporanea, le teorie femministe e la produzione artistica delle donne, lavorando in particolare sulla scrittura femminile contemporanea e la complessità della narrazione del Sè.
Comentários