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Problematiche dell’autoproduzione editoriale negli anni Novanta


Immagine di Roberto Gelini

La documentazione qui proposta si inserisce nel progetto di rivisitazione dei decenni smarriti e in specifico del decennio Novanta. Si tratta di documentazione di archivio relativa alla produzione editoriale «di base», o cosiddetta «autogestita», circolante appunto nella prima metà del decennio Novanta nel circuito dei Centri sociali, particolarmente quelli romani. I testi, tranne la scheda della rivista «Infoxoa», sono di Sergio Bianchi. Il primo è composto da note relative a un seminario sul tema delle autoproduzioni editoriali tenuto presso il Centro sociale Brancaleone nel quartiere Montesacro di Roma nel dicembre del 1993. Il secondo, datato gennaio 1994, è una sintesi ragionata di quella esperienza. Il terzo è la proposta, non andata in porto, di realizzazione di una Bollettino autoprodotto da parte di alcuni Centri sociali romani, senza data ma della prima metà del 1993. Il quarto sintetizza l’esperienza della rivista «Infoxoa» interna ai Centri sociali, soprattutto romani. Il quinto è una trascrizione revisionata di un intervento esposto in occasione del convegno Autoproduzione e autogestione nei Centri sociali svoltosi al Centro sociale Forte Prenestino di Roma nell’autunno del 1995.


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Per l’autoproduzione editoriale di movimento

La produzione di riviste extrasistemiche, o antagoniste, dal dopoguerra ad oggi, si dipana, grosso modo, originandosi da cinque grandi ceppi teorici: quello marxista-leninista ortodosso, quello socialista, quello anarchico-libertario, quello operaista e quello situazionista. Escludiamo dal nostro discorso le migliaia di fogli, giornali, bollettini di agitazione e propaganda che i gruppi più o meno organizzati hanno prodotto concentrarci sulle riviste intese come strumenti culturali e teorici, uno strumento cioè che non si fonda sull’immediatezza del quotidiano, dell’attualità ma sui tempi lunghi della riflessione, del ragionamento approfondito.

Le aree dell’antagonismo hanno prodotto decine e decine di riviste di questo tipo, la stragrande maggioranza delle quali sono state autoprodotte, cioè non hanno avuto alle spalle alcun editore, ma la stragrande maggioranza ha avuto anche vita effimera. Un numero, qualche numero e poi chiudevano. Questa è stata una costante, un dato statistico, oggettivo. Perché? In parte per le difficoltà materiali che l’autoproduzione storicamente, e ancora oggi, porta con sé: difficoltà finanziarie, volontariato, cioè uso di tempo ed energia, di lavoro non retribuito, di difficolta distributive. Ma oltre a questi problemi di tipo materiale ci sono stati problemi di tipo politico: l’alto grado di sperimentazione e quindi di azzardo culturale, fluttuazione del mercato cioè fluttuazione di interesse dei soggetti destinatari di questi prodotti culturali. Non ultimo il problema della storica litigiosità e della rivalità interne al ceto intellettuale che faceva queste riviste.

Perché, appunto, fino ad oggi a fare queste riviste sono stati solo gli intellettuali. Dico fino ad oggi perché credo che oggi qualcosa stia cambiando. Oggi l’intellettualità non è più appannaggio di una casta ristretta ma di una massa di persone.

Facciamo l’esempio di me stesso e di Mauro [Trotta]. Noi due non siamo degli intellettuali in senso classico. Non siamo specialisti o professionisti del settore editoriale. Le nostre attività lavorative, pur essendo inerenti la produzione di comunicazione sociale, solo saltuariamente incrociano attività che hanno a che fare con l’editoria in specifico. Eppure noi due abbiamo progettato e realizzato una rivista che è considerata culturale e teorica. Le competenze che ci hanno permesso questo le abbiamo maturate sia nelle occasioni lavorative ufficiali sia nell’impegno politico e culturale negli ambiti del movimento. Voglio dire che le nostre soggettività sono mediamente riscontrabili in quei soggetti che animano gli spazi sociali del movimento. Con questo voglio dire che fare una rivista, contrariamente a quello che si può credere, è virtualmente alla portata di moltissime persone, tra le quali, sono convinto, quelle che sono qui adesso.

Ma torniamo al discorso delle riviste in generale. Per quanto riguarda le riviste del passato, le storie di queste riviste, al di la dell’essere state perlopiù effimere, la fortuna che alcune hanno avuto su altre è dipeso dai contenuti che trattavano. Quelle che sono passate alla storia, che sono ricordate, che sono nella memoria, sono riviste che hanno trattato temi fatti propri, durante o dopo, da un movimento di massa. Per gli anni Sessanta è il caso di riviste come «Quaderni rossi», «Classe operaia», «Quaderni piacentini, «Quindici», che hanno trattato temi fatti poi propri dal movimento studentesco del ’68 e da quello operaio del ’69. Negli anni Settanta si possono ricordare «Primo Maggio», «Controinformazione», «Rosso», «aut aut», «Ombre rosse», «Sapere», «Metropoli» e decine di altre. Queste riviste hanno funzionato, in anticipo e/o in contemporanea con i movimenti di massa, da momenti importantissimi di riflessione. Sono state queste riviste a fare da innesco alle centinaia di altri fogli e giornali più propriamente di movimento. Quando un movimento si appropria di una teoria, poi l’articola in mille modi e forme. La porta alle sue estreme conseguenze in termini di verifica pratica attraverso le lotte. Le quali, a loro volta, rigenerano teoria. Sono le lotte a generare la teoria o almeno a stimolarla. Quando non ci sono movimenti di lotta di massa, la teoria ristagna. Basti vedere cosa è successo negli anni Ottanta. Non a caso tutte le riviste degli anni Settanta durante gli anni Ottanta si sono estinte. La ripresa delle riviste non a caso è iniziata da ’90 cioè da dopo la Pantera. Infatti, dal ’90 nascono improvvisamente alcune nuove riviste. Per citarne alcune: «Luogo comune», «La balena bianca», «Riff-Raff», «altre ragioni», «DeriveApprodi», «Millepiani», si rafforza «Decoder»…


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1. Il prerequisito fondamentale di qualsiasi progetto editoriale è la soggettività che si attiva, un insieme di soggettività che si attivano per cooperare.

2. La molla che attiva questa soggettività è ovviamente il bisogno di comunicare qualcosa.

3. Parliamo qui della scelta di comunicare questo qualcosa utilizzando il mezzo della scrittura combinata con delle immagini fisse. Il mezzo più vecchio dopo quello orale e gestuale.

4. La scelta successiva è quella di muoversi dentro due prospettive comunicative:

- comunicare con intenzioni di interazione.

- comunicare con intenzioni di informazione .

(fare accenno a quanto è stato detto riguardo la rivista come organo propagandistico di un impianto teorico prestabilito o la rivista forum, la rivista dibattito).

5. Badate bene che questa non è una scelta di poco conto perché rinvia alla concezione di come fare politica, di come concepire l’organizzazione politica e quindi l’organizzazione sociale.

6. Infatti, agire unicamente per informare sottende un modo di fare politica verticale, tipica di tutta la tradizione politica fondata sul rapporto élite/masse, avanguardie/masse. Abbiamo allora, da una parte un comunicare che è informare per convincere, dall’altra un comunicare per contaminare e farsi contaminare.

7. Esiste poi il quesito del target, per usare un termine pubblicitario, cioè dei referenti, dei destinatari, degli interlocutori. Chi si vuole informare e con chi si vuole discutere.

Ieri dicevamo che fino ad oggi questa elaborazione teorica è stata esclusivo appannaggio di una élite di intellettuali, ma che oggi, appunto qualcosa sta cambiando. Oggi siamo tutti virtualmente in grado di misurarci su questa questione dell’elaborazione intellettuale, dell’elaborazione teorica.

Non esiste mai un destinatario o un interlocutore indefinito, indifferente, indistinto.

Nella tradizione culturale della sinistra poi c’è il presupposto che a seconda della fase storica è, di volta in volta, un determinato soggetto sociale, nel suo rapporto con la produzione di ricchezza, ad essere individuato come il motore della trasformazione sociale.

È stato così nella fase della produzione pre-fordista, quando il soggetto centrale era l’operaio professionale, l’operaio di mestiere, l’ex artigiano portato forzosamente dentro la grande manifattura; poi, nella fase fordista, l’operaio massa, l’operaio dequalificato, interscambiabile; e ora, nella fase post-fordista, il lavoratore mentale, o almeno alcuni così sostengono.

Ecco, tutte le riviste teorico politiche hanno prodotto riflessione e interpretazione attorno al variare storico del soggetto nel suo rapporto con l’organizzazione del lavoro.

Gli altri prodotti editoriali, come dicevamo ieri, i fogli, i giornali, i bollettini di propaganda e agitazione, vengono quando una qualche teoria è data, è sistematizzata e si invera nella pratica.


(dicembre 1993)




Per l’autoproduzione editoriale di movimento

«Circa un anno fa, un gruppo di amici e conoscenti interessati, anche in modo generico, a una serie di temi culturali e politici incentrati sulla “crisi della sinistra” ebbero l’idea di dare vita a una pubblicazione autoprodotta: mettere insieme, senza alcuna pretesa di organicità o di osservanza di una linea politica precisa, testi e immagini, preferibilmente di difficile reperibilità, ritenuti utili da segnalare e divulgare. Tanto meglio se poi a questi si fosse aggiunto del materiale di produzione propria. II “contenitore” sarebbe stato molto modesto nella forma: una raccolta di materiali fotocopiati da far circolare “a mano”. L’idea ebbe un primo riscontro negativo, ma non fu abbandonata. Un ristrettissimo nucleo di persone riuscì in pochi mesi a realizzare il n. 0 di “DeriveApprodi”, un progetto più ambizioso di quello originario. Un progetto che è stato reso possibile non solo dal lavoro volontario e gratuito di queste persone, dall’utilizzo delle loro attrezzature e dei loro rapporti personali e di lavoro, ma anche dal risveglio di interesse da parte dell’area inizialmente interpellata che espresse il proprio sostegno con una sottoscrizione capace di garantire la copertura di gran parte delle spese della nuova pubblicazione. Altri hanno inoltre contribuito in modo fattivo con discussioni, suggerimenti, consulenze alla gestazione del n. 0


Premessa

Queste prime sommarie note informative sono indirizzate a tutti gli ambiti collettivi di movimento interessati ai processi riguardanti l’elaborazione e la realizzazione di progetti editoriali, in specifico di giornali o di riviste a scadenza periodica.

Premettiamo di non essere «specialisti» o «professionisti» del settore in questione, nel senso che le nostre attività lavorative, pur essendo inerenti alla produzione di comunicazione solo saltuariamente incrociano attività che hanno a che fare con l’editoria in specifico.

Ciò che intendiamo socializzare sono saperi maturati in parte tramite le occasioni lavorative «ufficiali» e in parte tramite l’impegno politico e culturale negli ambiti del movimento. Le conoscenze accumulate nell’intreccio di questi percorsi ci hanno permesso l’elaborazione e la realizzazione di una rivista a diffusione nazionale che tratta temi teorici e culturali di alcune componenti del movimento. Ciò che motiva questa nostra proposta è proprio il fatto che, considerandoci soggettività con caratteri mediamente riscontrabili nell’insieme delle soggettività che animano gli ambiti di movimento, riteniamo possibile una incentivazione di queste pratiche quanto mai utili ai fini di una radicale trasformazione dell’esistente.

Nell’operare la socializzazione di quanto noi stessi abbiamo appreso nell’esperienza che ci ha portato all’autoproduzione della rivista «DeriveApprodi» cercheremo di dare un ordine espositivo dei problemi da affrontare il più possibile razionale. A tal fine crediamo sia utile partire con un primo generale schema in forma di scaletta.


Prima fase

- Come si elabora la formula editoriale di un giornale o di una rivista periodica di movimento.

- Chi sono i soggetti promotori dell’intento.

- Quali sono gli elementi che fanno da supporto e che li costituiscono in ambito collettivo.

- In quale ambito sociale il collettivo vive e agisce, quali sono cioè gli altri soggetti o collettivi più prossimi.

- Qual è il contesto territoriale nel quale vive e agisce il collettivo.

- Quali saperi, competenze, esperienze i vari soggetti del collettivo hanno riguardo la creazione e la produzione di comunicazione sociale, in specifico di quella a carattere editoriale.

- Cosa si vuole comunicare.

- A chi si vuole comunicare.

- In che modo si vuole comunicare.

Per dare risposta a questi elementi preliminari di carattere più politico e culturale che tecnico è utile il metodo dell’autoinchiesta. La quantità e qualità delle risposte accumulate permetteranno una prima sommaria definizione del grado delle proprie forze utile a definire le caratteristiche e i limiti del progetto. Si passerà così a confrontare questo grado delle proprie forze ai problemi di carattere più specificatamente tecnico e organizzativo.

Seconda fase

Approssimazione di un primo ambito di impegno redazionale.

- Apprendimento generale delle voci che compongono un preventivo di spese per la realizzazione del progetto:

1) Spese di costituzione giuridica associativa o societaria editoriale: compenso notaio, registrazione testata preso tribunale, tasse.

2) Spese redazionale: telefono, fax, cancelleria, corrispondenza, eventuali macchinari, esempio fotocopiatrice, macchina da scrivere, computer ecc., rimborsi per eventuali viaggi, eventuali compensi ai redattori.

3) Spese di impaginazione: videoimpaginazione o fotocomposizione; ricerca-realizzazione-sviluppo-stampa-trattamento delle immagini.

4) Spese tipografiche: sviluppo pellicole, fotoincisione, lastre, carta, stampa, confezionamento.


Terza fase

Definizione dell’ambito redazionale e suddivisione dei compiti.

Definizione della periodicità di uscita della pubblicazione.

Definizione di un preventivo dei costi almeno del primo numero della pubblicazione.

Definizione di un piano finanziario (mezzi di reperimento del capitale iniziale, preventivi di bilancio entrate-uscite).

Ricerca e definizione di un’area di autori e relativi accordi.

Ricerca di uno o più grafici e accordi per la realizzazione del progetto grafico.

Ricerca e accordi con il tipografo.

Dopo la realizzazione del primo numero della pubblicazione, ricerca del distributore e relativi accordi.

Definizione e organizzazione di altre forme di distribuzione.

Ciascuno dei punti elencati nella scaletta si articola in sottopunti la cui specificazione e trattamento si rimanda agli eventuali incontri che seguiranno.


Appunti di metodo

1) Diffondere e fare circolare questo primo scritto tra il maggior numero di persone potenzialmente interessate all’argomento.

2) Creare un punto di riferimento per la raccolta delle adesioni.

3) Valutare (in base alla consistenza delle adesioni raccolte) l’opportunità di avviare il progetto di esposizione.

4) Organizzare un metodo razionale di esposizione che preveda:

a) una serie di incontri a partire dai temi generali passando gradualmente a quelli più specifici.

b) La produzione di dispense a supporto delle esposizioni verbali. c) Il coinvolgimento di «tecnici» che espongano con esempi concreti i vari passaggi del «processo produttivo» di una pubblicazione editoriale (per esempio come si fa il trattamento dei testi, quali tecnologie e competenze occorrono per la videoimpaginazione ecc.).


(gennaio 1994)




Progetto di «Bollettino» dei Centri sociali romani L’idea che si propone è la realizzazione di un giornale autoprodotto e autodistribuito da alcuni dei Centri sociali romani. La formula editoriale del giornale sarebbe quella del Bollettino di informazione delle elaborazioni teoriche e pratiche espresse all’interno dei Centri. Tendenzialmente, quindi, una «casella postale» che riceve e procura documentazione scritta e visiva prodotta all’interno Centri e che successivamente ordina per temi. Per esempio: I) calendari informativi delle iniziative previste in ogni Centro; 2) rendiconti delle iniziative svolte; 3) esposizioni di iniziative culturali: progettate o realizzate: musica, teatro, cinema, audiovisivi, poesia, letteratura etc.; 4) informazione sulle lotte; 5) produzioni teoriche. La periodicità prevista è mensile. L’intenzione e di realizzare una cosa utile, nuova, bella che abbia una referenza «interna» (gli animatori e i frequentatori dei Centri) e una «esterna» (la citta). A tal fine occorrono competenze reali e non pressapochismi dilettantistici che farebbero immediatamente naufragare il progetto. Vanno scartate in partenza illusioni volontaristiche. Al di la di considerazioni di carattere politico il buon senso obbliga a pensare che chi si farebbe carico di organizzare questa iniziativa lo dovrebbe fare a tempo pieno e a ritmi massacranti. Un reddito a riguardo è quindi da mettere preventivamente nei costi.

Le fasi di realizzazioni del progetto dovrebbero prevedere: 1. Versamento da parte di ogni Centro disponibile della propria quota di capitale per l’avviamento (acquisto strumentazione tecnica, compenso redattore, costi vivi del primo numero). Laddove un Centro mettesse a disposizione una parte di strumentazione tecnica già in suo possesso questa sarebbe sostitutiva della quota in danaro. La strumentazione tecnica consisterebbe in: computer, stampante laser, scanner, fotocopiatrice, fax, modem, linea telefonica. Il passaggio successivo potrebbe essere la costituzione di una qualche forma di associazione editoriale. Verrebbe quindi l’elaborazione di un progetto grafico. La messa in conto di un minimo di spese per un lancio pubblicitario. Per evitare altri costi occorrerebbe pensare di ricavare lo spazio redazionale all’interno di una struttura autogestita. Come punti distributivi si possono pensare i Centri sociali stessi, le piccole librerie e i centri di documentazione del movimento, le librerie Feltrinelli e Rinascita, alcune edicole cittadine collocate in punti strategici e previa opportuna pubblicizzazione, la vendita militante tramite banchetti ecc.

2. Note sull’eventuale redattore-organizzatore. All’inizio potrebbe essere una persona sola, più avanti, con il consolidarsi dell’iniziativa, altri potrebbero aggiungersi. Costui dovrebbe avere alcune qualità e requisiti quali: competenze tecniche redazionali, di videoimpaginazione, di stampa, di distribuzione, una reale internità al circuito dei Centri sociali, dovrebbe godere della fiducia, della stima di tutti o quasi.


Un po’ di conti

Materiale tecnico: computer MC Centris con monitor colori 14 pollici on lettore cd e hard disk a 16 ram: 5.100.00; (230 mega) datapak id 45: 960.000; scanner: 2.600.000 (con programma photoshop, stampante laser 300 punti 2 MB ram: 1.800.000; fotocopiatrice buona: 3.000.000; fax: 1.000.000, modem: 300.000; linea telefonica: 200.000; Totale: circa 15.000.000.

Siccome si pensa a una cosa bella, con buona grafica, buona carta ecc, indichiamo queste cifre del tutto approssimative ma utili per farsi un’idea.


Tiratura: 5.000 Costo a copia: 2.000* Prezzo di copertina: 5.000 (in fondo poco più di un pacchetto di sigarette).

Compenso redattore: 2.000.000 Telefono, fax, cancelleria, rimborso spere vive collaboratori, varie, imprevisti ecc.: 500.000

Totale costo di un numero 12.500.000 La copertura dei costi si otterrebbe vendendo 2.500 copie. Da qui in su sarebbe tutto ricavo netto che andrebbe ad ammortizzare il capitale originario investito con le quote e a potenziare il progetto.


· Il calcolo di 2.000 a copia prevede una rivista molto lussuosa, addirittura a colori, se non tutta almeno in parte. Questo è dovuto all’alta tiratura, poiché più è alta la tiratura più basso è il costo della singola copia.


Prima generica proposta di prospetto di formula editoriale:

- Ipotesi formato: A4 (cm. 2Ix29)

- Numero pagine: 62

- Copertine con immagine a pagina piena ed elenco dei Centri sociali che collaborano al numero Al posto del classico «editoriale», improponibile perché implicherebbe la realizzazione di un punto di vista comune e omogeneo tra tutti i Centri, si propone la «rubrica» di apertura Evento e mutazione: un fatto accaduto in città, piccolo o grande che sia, comunicato o non comunicato dai grandi media, offre lo spunto, l’aggancio, per la segnalazione, la registrazione di una mutazione in atto nelle relazioni sociali metropolitane di volta in volta sui vari piani: culturali, produttivi, comunicazionali ecc. La rubrica è affidata per ciascun numero a un singolo Centro con il criterio della rotazione: 3 pagine.

- I calendari dei centri: per quanto è possibile la programmazione delle attività dei Centri con schede informative molto curate su musica, cinema, audiovisivi, teatro, letteratura, conferenze, dibattiti ecc.: 12 pagine.

- Lavori in corso: i progetti in cantiere nei Centri con qualche concessione all’immaginario e all’utopia: 12 pagine.

- Avvisi vicini: informazioni ritenute utili su attività e progetti di uno o più Centri sociali italiani: 5 pagine.

- Avvisi lontani: idem ma dai Centri sociali del panorama internazionale, riprendendo magari «pezzi» della loro produzione editoriale: 5 pagine.

- Mon amie: il mio amico, l’«intellettuale eretico» complice e partecipe: il regista, lo scrittore, il pittore, il musicista che interviene direttamente sui temi dei Centri sociali: 5 pagine. – Immagini: disegni, foto, fotomontaggi, collage, fumetti ecc. a grandi dimensioni o a pagina piena: 10 pagine.


Note sulle possibili forme di organizzazione redazionale

Una o due persone dovrebbero coordinare il lavoro redazionale complessivo funzionando quindi da «centralizzazione».

I problemi di decisionalità e di discrezionalità nella scelta di cosa pubblicare verrebbero eliminati o fortemente limitati dalla rigorosa definizione degli spazi del giornale, sia per quanto riguarda la lunghezza delle sezioni che la lunghezza dei singoli articoli. Si eviterebbe cioè la necessità di operare dei «tagli» che comporterebbero inevitabilmente criteri di discrezionalità soggettiva.

Sarebbe ottimale la formazione all’interno di ogni Centro sociale di un ambito redazionale o l’assunzione di funzioni redazionali, all’inizio, anche da parte di una sola persona che farebbe da cerniera tra l’assemblea del Centro sociale e l’ambito di coordinamento complessivo.

All’assemblea di ogni Centro sociale verrebbero sottoposti per l’approvazione gli articoli realizzati anche da un solo soggetto, da più soggetti, da gruppi o collettivi. Il redattore provvederà quindi a centralizzarli ai coordinatori.

Per le immagini sarebbe auspicabile la formazione di un ambito di progettazione e realizzazione specifico composto da soggetti possibilmente appartenenti a più Centri sociali promotori dell’iniziativa.



La rivista «Infoxoa»

«Infoxoa» nasce come rivista nel 1997 dall’esperienza dei Centri sociali e dell’area autogestita di Roma. In 10 anni di attività sono usciti 20 numeri, che si trovano in versione cartacea e anche telematica in una versione solo testo sul sito www.infoxoa.org. Infoxoa si dota così, a partire dal numero 0, di un nodo redazionale che funge da collegamento, stimolo al dibattito e produzione del numero, la redazione non è mai «fissa», ma per scelta, si è aperta agli interventi più vari cercando di far parlare diverse esperienze in movimento. La rivista si auto-finanzia, non fa pubblicità e ama essere distribuita tramite canali non ufficiali, dai Centri sociali, dai collettivi politici, dai singoli giramondo, dalle librerie indipendenti. La rivista cartacea e la webzine, si occupano in particolare di alcune tematiche politiche, sociali e culturali dei movimenti di massa e radicali, facenti parte della lunga esperienza dei movimenti legati al comunismo, sociali, rivoluzionari degli ultimi anni del Novecento. Infoxoa sta per informazione (info) e per csoa, Centri sociali occupati autogestiti, (xoa), ma la x sta anche a significare più cose, ovvero la molteplicità dei soggetti e delle lotte, la diffusione di idee e sperimentazioni, nonché l’incognita della domanda e della problematizzazione delle esperienze di conflitto e di movimento, in particolare dei Centri sociali. In 10 anni vi hanno scritto centinaia di persone e decine di realtà in movimento, dai Centri sociali ai sindacati di base, dalle realtà ambientaliste a chi si occupa di media indipendenti. I 20 numeri della rivista: estate 1997: n. 0, ottobre n. 00, dicembre n. 3. 1998: marzo n. 4, maggio n. 5, settembre n. 6. 1999: gennaio n. 7, aprile n. 8, luglio n. 9, ottobre n. 10. 2000: marzo n. 11, dicembre n. 12, 2001: aprile n. 13, giugno n. 14. 2002-2003: n. 15, n. 16, n. 17. 2004: giugno n.18. 2005: marzo n. 19. 2006: ottobre n. 20. (da www.edueda.net)


(s.d. ma secondo semestre 1993)



Su autoproduzione e autogestione nei Centri sociali negli anni Ottanta e Novanta*

Nel rapportarmi a questo dibattito prendo per buono l’avvertimento di Sergio Bologna espresso in altra sede ma, credo, del tutto pertinente anche in questa: «È illusorio cercare ruoli in comunità precostituite come i Centri sociali. I giovani che le hanno fondate hanno fatto tutto da soli, si sono creati sistemi relazionali che li hanno strappati dall’emarginazione sociale e civile. Non hanno avuto e non hanno bisogno di noi». Per quel «noi» si intende quei soggetti delle generazioni precedenti a quella degli anni Ottanta che ha fondato l’esperienza dei Centri sociali occupati autogestiti. Chi appartiene alla storia di un movimento che ha subìto una sconfitta clamorosa, ed è stato assente dalla genesi di un movimento successivo, non ha titoli per dire cosa occorre fare, dove occorre andare. Può solo, con prudenza, contribuire a fornire elementi di dibattito, rispondere dietro richiesta più che dichiarare a priori. Prendere la parola non è quindi facile, soprattutto se quel che si ha da dire non si annota sul registro delle conferme ma su quello delle smentite, su quello della critica. Riguardo al merito del dibattito, in un primo momento il termine autoproduzione non mi ha fatto venire in mente niente che, da quindici anni a questa parte, non sia già stato detto e ridetto dalle stesse persone che hanno continuato a fare le medesime cose, nella maggior parte dei casi fatte male e in modo approssimativo, sia nelle forme che nei contenuti. Ma poi, riflettendo meglio, ho pensato: perché le tematiche dell’autoproduzione e dell’autogestione – tematiche che hanno avuto rilievo nella storia del movimento operaio, soprattutto deisuoi settori più radicali – si sono ridotte oggi a un’ideologia rozza, semplicistica, a una pratica naif del «fai da te»? Forse perché nel decennio della rivoluzione informatica – che ha scompaginato paradigmi e riferimenti concettuali consolidati e tramandati – il «movimento degli spazi sociali autogestiti» non è sorto da un progetto forte di trasformazione ma da una reazione istintiva di resistenza. Una resistenza ai ritmi e alle regole dell’economizzazione della vita nella sua interezza. Davanti a ciò la parola d’ordine di quel movimento, povera ma efficace, fu cioè quella di resistere all’omologazione imperante, punto e basta. Comprensibile, dato che sul panorama dell’antagonismo politico e culturale imperava un silenzio avvilito, un’assenza di pensiero, un contemplare attonito gli effetti devastanti di un bombardamento subìto, e riuscito. Comunque, quella resistenza ha prodotto degli effetti emersi gradualmente nel corso degli anni in termini di acquisizione di visibilità, di riconoscimento e riscontro nel valere da riferimento sociale per altri soggetti sensibili al disagio. Quei riscontri sono bastati a fondare una piccola storia, una piccola tradizione con il suo corollario di miti e rituali, insomma una specifica cultura. Una cultura però fragile, irriflessa, conchiusa perché essenzialmente fondata sull’autoreferenzialità, sulla conferma di sé data da sé o dall’immediato adiacente. Tanto è bastato a garantire la certezza di possedere un’identità piena di senso, ricca di una cultura alternativa capace di diffondersi socialmente. Il meccanismo della spettacolarizzazione, di cui si ciba quotidianamente il sistema dell’informazione, ha poi compiuto il resto: un relativo rilievo giornalistico e televisivo ha contribuito a creare la convinzione d’essere soggetti centrali nello scontro politico. Chi nasce in un fortino assediato trae la forza di resistere dagli elementi riferiti al culto dell’appartenenza familistica, clanistica. Anche quando i ponti levatoi potrebbero essere calati perché l’assedio non c’è più ha il sopravvento la coazione a ripetere forme di pensiero e di azione riferite agli elementi fondativi, costitutivi della propria identità. Quindi, i Centri sociali nati negli anni Ottanta, dove autoproduzione e autogestione sono ampiamente sperimentate, hanno dato e tuttora danno risposta a tematiche di ordine esistenziale prima che politico, si collocano cioè nello spazio della pre-politica, costruiscono aggregazione e consenso prioritariamente attorno a quella sfera. L’invenzione di un loro agire politico e culturale sconta lentezze, contraddizioni, errori, ricominciamenti. Abbiamo già detto come nel momento costitutivo dei Centri sociali, all’inizio degli anni Ottanta, autoproduzione e autogestione abbiano assunto un significato simbolico valevole di per sé, indipendentemente dalla qualità dei contenuti e delle forme che esprimevano. Non c’era la pretesa di possedere un progetto politico. Piuttosto che pensare di trasformare la società si pensava che da essa occorreva difendersi strappandole spazi interstiziali dove sperimentare relazioni non sottoposte ai vincoli della sua morale e delle sue leggi. L’importante era affermare un rifiuto, una sottrazione, come presupposto e requisito indispensabile alla sperimentazione di un’alterità esistenziale. Nel corso degli anni però le cose sono cambiate. La pervasività delle tecnologie informatiche applicate agli strumenti informativi e comunicativi hanno rideterminato la sensibilità sociale generale, hanno smantellato le vecchie forme nelle quali si rappresentavano le identità collettive, hanno cancellato o trasfigurato gli spazi in cui si condensavano. In breve tempo la socializzazione è diventata un bene scarso perché i suoi costi sono stati progressivamente depennati dagli indici di bilancio delle politiche sociali istituzionali. È in questa contingenza di domanda di socializzazione inevasa che i Centri sociali si sono ritrovati a valere da referenti di un’offerta capace di garantire, almeno parzialmente, il contenimento di tensioni indotte dal disagio, tensioni che avrebbero potuto sfociare in comportamenti «devianti» socialmente diffusi, difficilmente controllabili e contenibili, gravosi soprattutto sul piano economico. È forse anche per queste ragioni che il comportamento di alcuni settori della politica istituzionale nei confronti dei centri sociali è mutato e al bastone ha cominciato ad alternare l’uso della carota. Ma questo passaggio di fase è stato perlopiù frainteso da alcuni ceti politici dei Centri sociali che hanno letto l’offerta istituzionale di una «trattativa» come determinata unicamente dal grado raggiunto dalla propria forza aggregativa, dall’espressione della propria rappresentanza politica reale e potenziale. Un’altra distorsione di lettura degli eventi e dei processi prodotta dall’abitudine a ragionare in termini autoreferenziali, senza tener conto della complessità delle determinazioni politiche generali. Comunque, agli inizi del decennio Novanta, sollecitati dall’irruzione del movimento studentesco della Pantera e dal crollo del vecchio sistema dei partiti, i Centri sociali sono stati messi di fronte all’urgenza di aprirsi a una socializzazione larga e indistinta o perire per assuefazione e inedia. Qui siamo all’attualità, all’irrisolutezza di questo passaggio, all’accumulo dei suoi ritardi, all’ineguatezza dell’intelligenza utile a favorirlo. Infatti, mentre con le parole si afferma la ne- cessità di adeguare autoproduzione e autogestione al «nuovo corso» degli anni Novanta, con la mentalità si è rimasti alle sue pratiche degli anni Ottanta. La paura della «contaminazione» con tutto ciò che ha veste istituzionale arriva a impedire la cooperazione con quei soggetti che, collocati in quel campo, offrono l’occasione di un’appropriazione di saperi che valorizzerebbero le autoproduzioni favorendone uno sviluppo capace di superare le sue attuali espressioni ridotte alla fornitura di servizi sociali di basso contenuto e qualità. Spesso, all’impegno dell’autoproduzione fa da presupposto motivazionale una concezione volontaristica, miserabilista, populista, moralista, un’attrazione fatale per le tematiche riferite ai poveri, ai disperati, agli emarginati ecc. È stupefacente questo riemergere di concezioni «terzomondiste», retroterra di un agire che rischia una comunione oggettiva di intenti, e una competizione soggettiva impossibile da sostenere, con il volontarismo cattolico. Al mercato non ci si può «sottrarre» perché nel mercato ci si sta dentro, sempre e comunque. Allora, se il problema dello «stare dentro» non si pone, perché è un falso problema, il problema vero diventa unicamente come essere contro. La «sottrazione» al mercato non passa per la riduzione dei costi di produzione di una merce ottenuta dall’abbattimento del costo del lavoro vivo tramite autosfruttamento in cambio di un autoreddito da fame (così come largamente viene intesa e praticata l’autoproduzione). Ciò che si deve piuttosto sottrarre al mercato sono i «saperi alti», quelli che dentro al mercato stanno perché sinora solo lì dentro trovano le condizioni materiali per esprimere il massimo della loro potenza produttiva di ricchezza. Per concludere, alcune annotazioni sulle esperienze dell’autoproduzione. Intanto occorre dire che la gran parte di esse non si collocano dentro i Centri sociali ma, pur essendo spesso maturate al loro interno o in rapporto a essi, se ne collocano fuori bordeggiandoli anche, se non soprattutto solo, per questioni di referenza di mercato. Domandiamoci perché i soggetti che animano le autoproduzioni più significative non scelgano di collocare le loro iniziative «autoimprenditoriali alternative all’in- terno degli spazi sociali autogestiti. Di seguito alcune, parziali, possibili risposte. 1) La stragrande maggioranza di questi luoghi non offrono le condizioni logistiche per impiantare un’iniziativa imprenditoriale. 2) L’ambito decisionale di quei luoghi è un’assemblea che si ritiene legittimata a discutere e prendere decisioni collettive su tutto ciò che si svolge nel luogo. Si crea pertanto una situazione di interferenza decisionale esterna e generale a chi materialmente si ritrova a gestire direttamente un’impresa specifica. Forme, contenuti, metodi e finalità dell’impresa costituita da un piccolo gruppo si ritrovano a essere vagliate da un insieme indistinto di persone che spesso non hanno neppure le competenze elementari per entrare nel merito dei problemi. 3) Qualsiasi produzione implica rapporti di mediazione col mercato «ufficiale», quindi col denaro ecc., elementi vissuti spesso ideologicamente con disagio e contraddizzione. 4) Qualsiasi iniziativa imprenditoriale, pur modesta che sia, necessita la costruzione di relazioni con soggetti e strumenti esterni a quei luoghi. La loro esternità è sempre guardata con sospetto, se non addirittura considerata illegittima. Si creano pertanto condizioni di inospitalità per tutti quei soggetti detentori di saperi esterni alla quotidianità di quei luoghi che, prima di essere accettati e messi nella condizione di operare, si ritrovano nella condizione di intraprendere il defatigante processo della loro legittimazione che passa attraverso la lenta costruzione di rapporti personali fiduciari e l’accettazione del complesso cerimoniale che precede l’iniziazione all’appartenenza.


(autunno 1995)


* Questo testo è stato pubblicato anche in: Sergio Bianchi, Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo, Milieu edizioni, Milano 2016.


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Sergio Bianchi ha lavorato per il cinema e la televisione. È stato tra i fondatori della rivista e poi della casa editrice DeriveApprodi, di cui è stato amministratore e direttore editoriale per 25 anni. Ha curato diversi saggi sui movimenti politici degli anni Settanta.












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