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Prima dell’università neoliberale (Prima parte)

Movimenti studenteschi e Riforme universitarie

Cominciamo i lavori di questa sezione con alcuni testi provenienti dalla più recente inchiesta di «Sudcomune», della quale Machina ha già pubblicato un paio di Note (www.machina-deriveapprodi.com/post/l-università-indigesta-note-da-un-inchiesta; www.machina-deriveapprodi.com/post/l-università-indigesta-2). Più precisamente, per i prossimi tre mesi, a cadenza quindicinale, affronteremo il tema dell’avvento dell’università neoliberale in Italia dal punto di vista dei movimenti studenteschi che l’hanno combattuta e delle riforme legislative che l’hanno imposta. Ripercorrere storicamente tale questione riteniamo sia ancora oggi utile, perché se è vero che solo gli studenti, in potenza, possono cambiare le sorti aziendali dell’università, è altrettanto vero che rivolgendosi alle generazioni precedenti possono scoprire e, soprattutto, attualizzare i motivi autentici per rimettersi in movimento.


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Alle prese con la storia «Un avvenimento storico: i movimenti studenteschi». Con questo titolo apre Università e Classe politica di Felice Froio, che nel pieno del dibattito parlamentare sul Disegno di legge n. 2314/1965 (meglio noto come «Riforma Gui»), invoca una soluzione ragionevole per pacificare la contestazione studentesca e giovanile, divenuta rovente e pronta all’esplosione. Per una Riforma all’altezza dei tempi, degna delle aspettative allora maturate, Froio suggeriva alla classe politica di considerare anche il punto di vista degli studenti, senza badare troppo alle loro idee «poco chiare» o al fatto che non sempre «si sono comportati nel migliore dei modi». Cosi scriveva nel novembre del 1967, impressionato dalla piega che la protesta stava assumendo e ispirato da buon senso paternale:

«Tutti gli uomini politici, negli ultimi mesi, in pubblici discorsi, hanno preso in seria considerazione i fermenti degli studenti e si sono dichiarati disponibili per operare in maniera di venire incontro alle loro rivendicazioni. È però sufficiente che si verifichi un episodio come quello di Firenze o di Roma[1] per aumentare la sfiducia dei giovani e per accentuare l’atteggiamento di contestazione globale, ritardando l’inizio di un colloquio costruttivo. Nessuno vuole o può sostenere che tutto quello che fanno i giovani sia ben fatto o che finora si siano comportati nel migliore dei modi o che abbiano sempre idee chiare sui problemi che dibattono. Ma proprio per questo bisogna trovare il modo di capirli, andargli incontro, instaurare un dialogo capace di risolvere i problemi. Altrimenti contribuiremo a metterli o a farli proseguire per strade sbagliate»[2].

La risposta politica fu la sovrapproduzione di circolari e interventi settoriali, parziali e di ricucitura, indicativa del disinteresse ad affrontare la questione universitaria nella sua globalità. Tutte una serie di «leggine staccate dal contesto delle esigenze e delle emergenze», formulate senza «un esame globale dei problemi, nell’attesa di una Riforma Universitaria titolata con le maiuscole, che non verrà mai a concretizzarsi»[3]. In questo scenario un paio di leggi furono comunque particolarmente significative per i cambiamenti che generarono: la prima (n. 162/1969), che istituisce il cosiddetto «presalario»; la seconda (n. 910/1969), che getta le basi per l’Università «di massa»: si eliminano le barriere alle iscrizioni (in ogni facoltà indipendentemente dagli studi secondari seguiti) e si regolamentano i piani di studio individuali «liberi», ossia aperti alla discrezionalità degli studenti. Queste, possiamo dire, sono state le prime conseguenze delle lotte del ’68 dentro l’Università. Negli anni che seguono, fallito il tentativo di una Riforma complessiva del sistema universitario, la decretazione d’urgenza divenne sistematica e nel 1973, con il varo dei «provvedimenti urgenti», vennero effettivamente introdotti elementi di democratizzazione nella gestione degli atenei. Detto ciò, bisogna aggiungere, che «l’urgenza» riguardò solo le questioni «più mature e improcrastinabili» mentre non si ritennero tali le istanze degli studenti, «i grandi assenti dal progetto riformista», come vennero etichettati decenni più tardi da uno storico dell’università[4]. Visti nel loro insieme, i Provvedimenti, pur introducendo elementi innovativi, palesarono «l’impossibilità» di una riforma complessiva e ingigantirono il fenomeno del precariato universitario, che da quel momento divenne un tratto costante nella storia dell’università italiana[5]. A rileggere il brano dal quale siamo partiti, col senno di poi, possiamo dire che il dialogo paventato da Froio non avvenne: le forze politiche non vollero ascoltare e gli studenti proseguirono per le loro «strade sbagliate», arrivando addirittura a pensare, come recita la canzone, che insieme agli operai potevano cambiare il mondo[6]. Studenti, Partiti e Stato Ad oltre cinquant’anni dal ’68 è opinione comune che gli studenti universitari in quegli anni vissero da protagonisti le trasformazioni sociali che contribuirono a determinare. Sempre più interni al movimento studentesco ed ai gruppi extraparlamentari si allontanarono progressivamente dalle prospettive e pratiche politiche concepite per loro dai partiti di massa, parteciparono alle lotte sociali del decennio e cominciarono a sottolineare energicamente le funzioni ideologiche dell’Università in quanto struttura asservita agli interessi della classe dominante[7]. Per quanto riguarda la Democrazia Cristiana, Aldo Moro aveva intuito che quanto stava avvenendo annunciava tempi nuovi («sono segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità») ma il partito nel suo insieme scelse una strada reazionaria, nonostante l’attivismo e la partecipazione di numerose strutture cattoliche di base alla contestazione sociale e studentesca. Per quanto riguarda il Partito Comunista Italiano, allora partecipe nelle principali dinamiche sociali presenti nel paese, il rapporto con gli studenti, dapprima dialettico, divenne nel corso degli anni ostile. Come ricorda Rossana Rossanda, che tentò lungamente di portare le istanze del movimento studentesco dentro il Pci del quale era allora dirigente prima di esserne radiata insieme agli altri del gruppo de «Il manifesto»:

«I giovani erano già perduti. Era troppo facile vedere quanto fosse fragile quel sollevarsi di una generazione che non si opponeva, come noi, alla «reazione» ma all’intera architettura del sistema capitalistico – noi dicevamo diritto allo studio, loro davano assalto alla scuola come formatrice di consenso, noi dicevamo diritto al lavoro, loro volevano la fine del salariato, noi volevamo più giustizia distributiva e loro se ne fregavano dei consumi. Era la prima ondata che contestava il progressismo (…) Finché durò l’eruzione studentesca il Pci non aprì bocca. Si cacciò in un angolo inarcando il dorso come un gatto sotto il temporale. Quando qualche anno dopo ne avrebbe veduto le derive minoritarie violente non si chiese niente, non si rimproverò un’omissione, si felicitò con sé stesso e passò dalla parte dell’accusa. L’assenza fu teorizzata come severamente critica, ma fu assenza e basta (…) Che cosa mostrava il Pci se non l’incapacità di capire, nonché far avanzare ed elaborare un bisogno che esplodeva dalle viscere della società? Anzi dal cervello, dai suoi punti alti? Quella degli studenti era tutto fuorché una jacquerie»[8]

Chiare ed importanti le parole di questa donna straordinaria. L’assenza fu teorizzata come critica. Quella degli studenti era tutto fuorché una jacquerie. Per meglio intendere come il rapporto tra gli studenti e la classe politica si fosse logorato nel corso degli anni ’70, insieme alle cronache puntuali di quegli anni (in primis, che il 12 dicembre del 1969 con la strage di Piazza Fontana comincia la strategia della tensione) restano proverbiali le parole di Francesco Cossiga, Ministro degli Interni in quegli anni e, successivamente, Presidente della Repubblica:

«Gli universitari invece bisogna lasciali fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco la città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli, e picchiare anche quei docenti che li fomentano (…) “In Italia torna il fascismo”, direbbero. Balle, questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio»[9].

Che la ricetta democratica del Presidente Cossiga avesse tali ingredienti è indubitabile dato il ruolo di quest’ultimo: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio. Picchiare gli studenti e i docenti, perché l’Università non era una fiammella politica qualsiasi, mirava piuttosto ad essere la scintilla che avrebbe concorso, se non determinato, l’incendio della prateria. La forza politica degli studenti divenne incontenibile anche perché questi crebbero notevolmente di numero grazie alla caduta delle barriere all’immatricolazione che si ebbero con la citata L. 910/1969. Per fare solo alcuni esempi circa i cambiamenti strutturali dell’Università di quegli anni basti ricordare che, se nell’anno accademico 1961/62 gli studenti iscritti sono poco meno di 300 mila, dieci anni dopo superano i 750 mila e al termine degli anni ’70 superano il milione di unità. Stessa dinamica, va da sé, per il numero annuale di laureati (da 23 mila nel 1961/62 a 74 mila nel 1981/82) che induce gli Ordini professionali a considerare la drammaticità della frequenza universitaria come la causa principali degli stravolgimenti in atto nelle tradizionali professioni liberali[10]. Nello stesso arco di tempo vengono costruite 88 nuove facoltà, che nel 1981/82 arrivano a 295 ed il personale docente aumenta di 20 mila, attestandosi nel 1981 a quasi 48 mila unità (24 iscritti ogni docente contro la media di 10 iscritti a docente del 1961/62). È noto come andarono a finire le cose, la prateria non si incendiò e i fuochi che anche gli studenti contribuirono ad appiccare lungo la penisola vennero accuratamente spenti. Per usare un detto in voga tra le forze politiche di allora: «dobbiamo prosciugare il mare per prendere i pesci». Il movimento studentesco fu cosi frantumato e disperso, come il più vasto movimento giovanile e sociale degli anni ‘70, e molte sue frange imboccarono spesso vicoli ciechi: chi nelle patrie galere, chi nella droga e chi nel semplice ritiro a vita privata, proiettando le proprie aspirazioni nella carriera individuale e nel successo professionale, ben capendo che un periodo storico era terminato e che, forse, non si sarebbe più data nella storia una stagione simile. Note [1] Si tratta delle manifestazioni degli studenti universitari di Firenze del 30/01/1968 e di Roma del 27/04/1968. La prima è solitamente ricordata come l’inizio del ’68 fiorentino. In sintesi: alla fine di una manifestazione di protesta gli studenti universitari e medi organizzarono un sit-in in Piazza San Marco a Firenze, mentre una delegazione di rappresentanti di tutte le facoltà era dal Rettore per presentare un documento, quando all'improvviso vi fu una carica delle forze dell'ordine con contusi e feriti. Relativamente alla seconda manifestazione, il corteo giunge a piazza Cavour, presidiata dalla polizia che circonda in forze il Palazzo di Giustizia. I dimostranti si fermano davanti alla scalinata e lanciano slogan per la liberazione di studenti e operai arrestati al temine di manifestazioni precedenti. Gli agenti indossano le maschere antigas, impugnano i manganelli e caricano gli studenti. Cfr. http://patrimonio.aamod.it/aamod-web/film/detail/IL8600002121/22/ [2] F. Froio, Università e classe politica, Edizioni Comunità, Torino 1968. Cit. pag. 16-17. [3] U.M. Miozzi, Lo sviluppo storico dell’Università italiana, Le Monnier, Firenze 1993. Cit. pag. 211. [4] Ivi, pag. 234. [5] Con i «Provvedimenti urgenti» vennero stipulati 9 mila contratti e 3 mila assegni per laureati, di durata biennale (o triennale), che consentirono il funzionamento dell’università sia dal punto di vista della didattica che della ricerca; ma che cominciarono ad ingrassare le fila del precariato accademico navigando a vista fino alla promulgazione della Riforma del 1980, dato il blocco concorsuale, l’abolizione della «libera docenza» e la messa ad esaurimento del ruolo di «assistenti ordinari». Una critica aspra dei «Provvedimenti», tra le diverse dell’epoca, è contenuta in F. Ippolito, Università. Crisi senza fine, I Libri de L’espresso, Milano 1978. [6] Giorgio Gaber, La razza in estinzione, in La mia generazione ha perso, CGD East West 2001. [7] «L’università funziona come strumento di manipolazione ideologica e politica teso ad instillare negli studenti uno spirito di subordinazione rispetto al potere (qualsiasi esso sia) ed a cancellare, nella struttura psichica e mentale di ciascuno di essi, la dimensione collettiva delle esigenze personali e la capacità di avere dei rapporti con il prossimo che non siano puramente di carattere competitivo». Cfr. Guido Viale, Contro l’università, in L. Baranelli e M. G. Cherchi (a cura di), Quaderni Piacentini. Antologia, 1962-68, Milano, 1977. [8] R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005. Cit. pag. 356 - 385. [9] Francesco Cossiga, Intervista di Andrea Cangini del 23/10/2008. Ripresa da La Nazione, Il Resto del Carlino, Il Giorno. Riportato da R. Mordenti, L’Università struccata. Il movimento dell'onda tra Marx, Toni Negri e il professor Perotti, Edizioni Punto Rosso, Milano 2010. [10] Sulla «drammatizzazione della frequenza universitaria», vedi: A. Cammelli - A. Di Francia, “Studenti, Università, Professioni: 1861 - 1993”, in M. Malatesta (a cura di), I Professionisti. Storia d’Italia - Annali 10, Einaudi, Torino 1996.



Immagine: cartellone utilizzato durante le manifestazioni del novembre 1964 contro il Piano per la scuola presentato dal ministro Luigi Gui. (Archivio storico dell’Università, Comitato Studentesco Universitario Interfacoltà)




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Francesco Maria Pezzulli è sociologo e ricercatore indipendente. Ha insegnato presso l’Università La Sapienza di Roma e svolge attività di ricerca e inchiesta nel Laboratorio sulle Transizioni, il mutamento sociale e le nuove soggettività dell’Università degli Studi di Roma Tre. Si occupa delle tematiche inerenti lo sviluppo capitalistico e il mezzogiorno italiano.


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