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«Perdi la madre» di Saidiya Hartman: per un sapere nero sul mondo



Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi (Tamù Edizioni 2021, pp. 332, traduzione di Valeria Gennari), la «contro-biografia» di Saidiya Hartman, è la narrazione di una perdita, la storia di un’assenza incolmabile, quella delle vite nere annientate per sempre dal terrore bianco nel Middle Passage. A metà strada tra il racconto autobiografico e un’analisi storiografica, di cui è continuamente sottolineata l’impossibilità, è una contro-storia della schiavitù che non lascia spazio ad alcuna «riparazione» democratica, né prevede il lieto fine dell’abolizione o dell’intervento umanitario che ripulisce la colpa bianca. Al contrario, Perdi la madre, ha il merito spietato e inderogabile, di sbatterci in faccia, senza possibilità di replica, l’irriducibile antagonismo nero alla logica della modernità umanista e illuminista, quella che, allora come oggi, celebra l’«umano» prendendo le distanze dal nero razzializzato, incatenato, ridotto a merce, oggetto di inconfessabili fantasie e desideri di morte.

Franco Barchiesi, in questa recensione, ne offre una lettura densa e informata, che colloca il volume nella più fitta trama della teoria critica di Hartman e del dibattito contemporaneo sul tema della Blackness. Una recensione che è anche un efficace compendio introduttivo all’afropessimismo, una delle correnti più radicali del pensiero nero contemporaneo, i cui sviluppi (opportunamente rintracciati da Barchiesi) hanno diretta connessione proprio con il pensiero di Hartman.

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Saidiya Hartman: «una studiosa della morte sociale»

Durante un simposio alla Northwestern University, nel giugno del 2017, in occasione del decimo anniversario dalla pubblicazione del suo Lose Your Mother, Saidiya Hartman ebbe a definirsi come «una studiosa della morte sociale». Il riferimento diretto era al fondamentale testo di Orlando Patterson, Slavery and Social Death, che nei primi anni Ottanta aveva elaborato le coordinate paradigmatiche e strutturali, non soltanto storiche ed esperienziali, della schiavitù nera transatlantica in termini, appunto, di «morte sociale». L’espressione caratterizzava la brutalità con cui la schiavitù aveva devastato l’esistenza socio-culturale di intere popolazioni africane, al punto tale che, nella semantica occidentale, il termine «nero» veniva sovraimposto ad «africano» per marcare la soppressione di umanità attraverso lo status, unicamente razzializzato, di merce appropriata e commerciabile. Prospettive molteplici di pensiero radicale nero hanno messo in luce il carattere assolutamente specifico della schiavitù razziale in quanto essenziale violenza non semplicemente indirizzata ad una popolazione, ma mirante a definire una popolazione nei termini di una posizione senziente ma inumana, una posizione che il dibattito teorico ha assunto come Blackness, di cui una soddisfacente traduzione in italiano è ancora mancante, a parte la meno che convincente «nerezza». Nel suo senso strutturale, anche se non certo in termini di cultura, identità o esperienza vissuta, Blackness definisce una realtà nel mondo, ma senza essere del mondo, una negazione di appartenenza, di cittadinanza e di rispetto che non può essere controbilanciata dall’invocazione di origini e genealogie — l’Africa prima dell’evento-limite della schiavitù — che sono state violentemente rimosse dal terrore bianco.

Il testo di Hartman, ora finalmente tradotto in italiano con il titolo Perdi la madre, amplia, attraverso una sintesi originale e potentemente evocativa di riflessione personale e analisi storico-culturale, la dimensione della morte sociale aprendola verso orizzonti temporali che ne evidenziano il ruolo costitutivo del presente globale. Proprio in quanto paradigmaticamente razzializzata, la violenza anti-nera (anti-Black) non cessa con l’abolizione delle dinamiche socioeconomiche e istituzionali della schiavitù (lavoro forzato, proprietà legale di esseri non più definiti come umani) ma continua a demarcare la violazione dell’esistenza nera anche nel quadro odierno della cittadinanza liberale e multiculturale. Si tratta di un processo di mutazione manifesto non soltanto negli abusi diretti degli apparati repressivi, ma soprattutto nella persistenza di forze — dalla onnipresente segregazione in campo educativo, abitativo, o sanitario, alla evidente disparità razziale in morti e malattie evitabili o risultanti dall’insensibilità ordinaria del sistema sanitario — che sminuiscono, accorciano ed estinguono vite nere a prescindere da distinzioni di genere, ma anche di condizioni sociali o di reddito. Per definire tale mutazione nella persistenza paradigmatica, ovvero la continuità di una violenza razziale senza tempo che rifiuta di piegarsi alla contingenza, Hartman usa un’espressione che ha segnato l’enorme influenza di Perdi la Madre: «the afterlife of slavery», la «vita postuma» o vita oltre la vita, della schiavitù nera.

L’economia libidinale dell’anti-Blackness

Delle correnti di pensiero nero che, negli ultimi due decenni e oltre, sono state in conversazione diretta con il pensiero di Hartman, quella che ne ha tratto le conclusione più radicali è senz’altro l’afropessimismo. Termine espressamente emerso nel corso degli ultimi dieci anni dall’opera di Frank Wilderson, l’afropessimismo ha elaborato, ad esempio nei lavori teorici di Jared Sexton, Patrice Douglass, Selamawit Terrefe, John Murillo, Taija McDougall e Zakiyyah Iman Jackson — per citare solo alcuni nomi — i temi hartmaniani della morte sociale e della violenza anti-nera per evidenziarne il carattere prettamente gratuito. Violenza gratuita significa violenza commessa e legittimata in assenza di una previa trasgressione. Violenza, insomma, unicamente autorizzata dal potere socialmente conferito dall’essere non nero nei confronti di quanti sono posizionati come neri. In ultima istanza, la necessità della schiavitù nera per il farsi del mondo è quindi definita non in termini di funzionalità socioeconomica (per quanto decisiva la schiavitù sia indubbiamente stata nella formazione del capitale globale, come i teorici del capitalismo razziale sulla scorta di Cedric Robinson hanno evidenziato) ma di una precedente ed eccedente violenza gratuita che è centrale nelle modalità con cui la modernità umanista e illuminista risponde alla sua domanda quintessenziale: che cos’è un soggetto umano? La anti-Blackness offre a tale questione una risposta ancorata al potere, violentemente esercitato, con cui un soggetto europeo (in ultima analisi razzializzato in quanto bianco) si autodefinisce come umano ponendo il nero quale limite visibile e assoluta esteriorità dell’umanità stessa, la cui espulsione del nero diviene quindi requisito sistemico e trans-storico di leggibilità, stabilità e coerenza. In ballo non è soltanto la moderna soggettività umana in quanto progetto intellettuale, filosofico o politico, e neppure il suo fondamento materiale nell’economia politica, ma l’insieme di affetti, fantasie, desideri, in breve, l’economia libidinale che trasforma e trasmuta la schiavitù in una pratica diffusa, fatta di piaceri inconfessati, feticci sessuati, consumi illimitati di immagini e stereotipi, persino rassicurazioni morali, specialmente nella forma di tradizioni abolizioniste e umanitarie bianche che identificano il nero in quanto oggetto di sviluppo, piuttosto che protagonista di rivoluzione e liberazione. Ancorare la definizione dell’umano nella violenza gratuita e razzializzata, di cui la schiavitù rappresenta la traduzione storica e la sua vita postuma, ne dimostra, nel pensiero afropessimista, la necessità strutturale ma sottolinea anche che popolazioni «di colore» (migranti, «minoranze», subalterni postcoloniali) possono aspirare a un’incorporazione, seppure marginale e subordinata (come «associati secondari»), nel grembo dell’umanità e della cittadinanza multiculturali a condizione di riaffermare la propria distanza antagonistica nei confronti della Blackness, che viene così rafforzata in quanto segno della morte sociale. La violenza anti-nera agisce così, in ultima analisi, come garanzia di stabilità non perché normata dallo Stato, ma perché incorporata e normalizzata nella vita quotidiana della società civile a livello consapevole e non. Ciò che è normale per il mondo, scrive Wilderson, rappresenta uno stato di emergenza permanente per i neri.

Perdi la madre: una contro-biografia

Perdi la madre ha ispirato una simile radicalizzazione «meta-critica» — ossia deliberatamente volta a trascendere i confini di una teoria critica ancorata alla dimensione ontologica dell’umano (incluse le sue declinazioni di classe e genere, nonché rivendicazioni nazionali o anticoloniali e identità o divenire di movimento) — adottando un formato che solo approssimativamente si può definire narrativo o autobiografico. Hartman scrive indubbiamente della sua vita, soprattutto l’esperienza di ricerca in Ghana alla metà degli anni Novanta, in quanto borsista Fulbright. Ma cosa significa scrivere l’autobiografia non di un soggetto, ma di un’assenza? Quali coordinate temporali o cartografiche possono narrativamente rendere conto di un qualcosa umanamente essenziale che Hartman, donna nera discendente da schiavi, ha perso da tempo immemorabile, una perdita il cui stesso nome non è più recuperabile, ma la cui unica memoria è costituta dal senso che qualcosa dovrebbe esserci stato oltre la ferita dell’amputazione (nel suo ugualmente magistrale Scenes of Subjection, del 1997, Hartman chiama il senso di distanza irrevocabile e innominabile dell’Africa per i neri americani l’«arto fantasma»)?

Chiamiamo il libro «contro-biografia», dunque. «Contro-» è un termine che Hartman usa spesso nel suo lavoro, per sottolinearne la deliberata sovversione dei generi e delle convenzioni, nel campo tanto del racconto letterario quanto della ricerca storica di archivio. In questo caso, si tratta dell’apparente paradosso di un’autobiografia senza ancoraggio soggettivo o prospettiva di (ri)composizione di un’io narrante. Su questo, Hartman è esplicita fin dall’inizio. Il viaggio in Ghana non è alla ricerca di origini, identità o radicamento culturale. Non si svolge sulle direttrici che avevano guidato Alex Haley nello scrivere Radici e continuano a orientare l’adescamento turistico delle eredità etniche o genetiche. Hartman non ha neanche motivo di supporre che il Ghana sia effettivamente il luogo di provenienza dei suoi antenati. Ciò che cerca sono le rovine, qualcosa che dia almeno il senso dell’enormità inconcepibile che è andata perduta nei forti e nelle celle che condussero moltitudini africane alla «soglia del non ritorno», il terrificante portale dal quale è emerso il mondo attuale, di cui continua a inflettere e distorcere, come scrive Dionne Brand, ogni momento di una temporalità presente che, per coloro che sono neri, è continuamente risucchiata verso la violenza di quella soglia. Il Ghana non rappresenta per Hartman né risoluzione né redenzione. Identificata come obruni (straniera) dagli stessi residenti locali, per tutto il libro Hartman deve fare i conti con un profondo spaesamento, nonché con la sconnessione che la violenza schiavista determina tra i neri e il mondo, e tra le stesse comunità nere attraverso l’oceano, dentro un’America costruita sulla svalutazione della vita nera, e un’Africa per cui la schiavitù è stata preludio a colonizzazione, neoliberismo e aggiustamento strutturale. Hartman sa che qualunque significato, persino speranza, potrà emergere dal suo viaggio non verrà a ricompensa di un lavoro genealogico o di immaginario nazional-culturale, ma sorgerà dolorosamente da un paesaggio di macerie: «Per me la storia era proprio quella rottura», essa scrive.

La ribellione contro il genere assume nel libro, e nell’opera di Hartman più in generale, il doppio senso di sabotaggio delle convenzioni letterarie e di critica della priorità ontologica del genere come elemento di differenziazione della realtà di uomini e donne nere sottoposti alla violenza schiavista. Su quest’ultimo tema, che esplora con lucidità ineguagliata in Scenes of Subjection, il testo che per molti versi inaugura la riflessione critica sul radicamento della cultura occidentale nella schiavitù razziale, Hartman è in conversazione con generazioni di femminismo radicale nero che, a lungo inascoltato da organizzazioni di donne bianche liberali e di sinistra con pretese non razziali, hanno proposto con forza l’idea che la schiavitù, la stiva delle navi, inaugura la Blackness nel Nuovo mondo attraverso un terrore che, come scrive Hortense Spillers, «de-genera» l’essere nero, abolisce la differenziazione tra uomini e donne nere sottoposte alla medesima violenza, al medesimo abuso sessuale, alle medesima privazione e mercificazione di umanità, un terrore totalizzante che, mettendo corpi neri alla completa disposizione e al completo arbitrio dei bianchi (e dei non-neri generalmente), rende la stessa categoria di «corpo» inapplicabile, sopraffatta dalla semplice, diretta usabilità della carne (flesh, per Spillers).

«Defamiliarizzare» la storia della schiavitù

Sul versante della ribellione hartmaniana contro il genere letterario, Perdi la madre va collegata con l’imponente lavoro di Hartman sulla metodologia storico-sociale. In un breve saggio (Venus in Two Acts), che accompagna, per così dire, il capitolo Il libro dei morti in Perdi la madre (narrandone la storia dell’altra ragazza africana che, assieme alla sua compagna di sventure discussa nel libro, soffre gli orrori della nave schiavista Recovery), Hartman sviluppa l’approccio della «fabulazione critica», che tanta parte svolge nella trattazione del materiale storico in Perdi la madre. Hartman sostiene che una ricostruzione storiografica del Middle Passage, il processo di trasformazione forzata di umani africani autodeterminati in neri americani schiavizzati, un processo di cui in particolare non sopravvivono descrizioni narrate da donne africane, è non solo impossibile, ma profondamente non etico. La documentazione di archivio su cui si basano i protocolli disciplinari della storiografia accademica sulla schiavitù riporta infatti le parole, i numeri, le stime e i calcoli di coloro che hanno organizzato e gestito il terrore: i padroni e supervisori delle piantagioni, i capitani bianchi delle navi, gli amministratori delle compagnie commerciali, gli assicuratori che con questi ultimi hanno disputato i pagamenti per interi carichi umani gettati sul fondo dell’oceano per poi riscuoterne l’indennizzo. Non c’è modo di, ne è desiderabile, Hartman scrive, ricostruire in dettagli accurati cosa sia «effettivamente» accaduto, o anche ridare voce a coloro la cui voce fu soffocata e distorta nelle grida e nella sofferenza di un’esperienza plurisecolare che, rimasta perlopiù senza parole è, per chi non è nero, semplicemente indicibile e inimmaginabile. Il lavoro critico deve perciò rivolgersi a «defamiliarizzare» la storia della schiavitù così come è stata tramandata, soprattutto da autori progressisti che alla schiavitù cercano di imporre letture a lieto fine tramite la supposta transizione all’abolizione e ai «diritti» democratico-liberali, interrogando piuttosto le strutture profonde, psichiche e materiali, della violenza anti-nera a partire dalla prospettiva virtuale della moltitudine di storie personali e collettive che «avrebbero potuto essere ma non sono state», delle vite, delle culture, e dei desideri spezzati. Per Hartman questa non è tanto opera di compassione o testimonianza, perché la violenza che ha annichilito tali esistenze continua a fronteggiate le comunità nere qui ed ora, ovunque. Quelle grida, quella protesta, quella rivolta di allora continuano a risuonare oggi, in Minnesota come in Sudafrica, a Rio come a Lampedusa, e nella miriade di luoghi dove la ferocia perpetrata sulla Recovery non è mai finita. Ed è solo ascoltando con attenzione tale «materiale sonoro», per dirla con Fred Moten, attraverso i secoli che se ne può iniziare a coglierne non soltanto il significato ma anche l’immenso portato etico e di ribellione.

L’equivalenza tra Blackness e morte

Perdi la madre è in molti sensi costruito attorno al capitolo Il libro dei morti, quello dove Hartman aveva già anticipato gli aspetti storici della sua ricerca. È anche forse il capitolo più direttamente alle prese con i concetti e le strutture fondamentali della modernità, soprattutto lo Stato-nazione e il capitalismo. Hartman reclama con forza l’unicità della violenza anti-nera rispetto ai massacri e i genocidi che hanno costellato la storia della modernità occidentale e coloniale. Non si tratta qui affatto, come spesso rimproverano tra le righe gli esponenti non neri di approcci critici tradizionali, di rivendicare una mera preminenza della sofferenza nera su basi quantitative o di durata (le «olimpiadi dell’oppressione», come a volte la mettono le voci più volgari in tale coro). E, per intenderci, forse anche di tali osservazioni ce ne sarebbe talvolta bisogno, soprattutto se ci si rammenta di come, laddove si trova alle prese con «disumanizzazione» e «nuda vita», la teoria critica ricorre spesso alla schiavitù perlopiù in termini di analogia amplificante per altre sofferenze, e di solito con riferimento alla schiavitù nel mondo classico o premoderno, piuttosto che allo schiavismo razziale anti-nero. Ma Hartman non ha tempo per queste polemiche accademiche. Il confronto con l’unicità incomparabile della violenza anti-nera è per lei necessario per ridefinire l’intero terreno del significato di umanità in relazione a nozioni di valore e capacità. In un passaggio di devastante potenza ne Il libro dei morti Hartman riflette che la morte di milioni di neri nel Middle Passage non rappresentava la «logica» o la finalità del sistema, nel modo in cui lo sterminio sistematico è posto ad obiettivo del genocidio. Invece, quelle decine di milioni di morti furono definiti in anticipo come incidentali e assolutamente trascurabili, nemmeno un prezzo da pagare, per così dire, nel processo che avrebbe trasformato altri milioni in proprietà e strumenti da lavoro schiavizzati. È proprio il fatto che, Hartman scrive, la morte di massa non fosse la ratio del sistema ma solo un sottoprodotto perfettamente accettabile, che dà la misura dell’incomparabilità della schiavitù nera come violenza che fonda non tanto una nuova forza lavoro nei circuiti dell’impero, quanto la determinazione stessa di cosa conta come essere umano. Morte di quel tipo, Hartman conclude, accade tra le righe di un calcolo per cui non solo «non ci sono esseri umani coinvolti» (echeggiando l’espressione resa famosa da Sylvia Wynter) ma la cui popolazione in oggetto è considerata come già morta, quando il soggetto umano della modernità ha già deliberato l’equivalenza tra Blackness e morte, definendo per la Blackness il mondo stesso come «orizzonte di morte», per dirla con Denise Ferreira Da Silva. Coloro che, per Hartman, sottolineano la «razionalità» economica della schiavitù per discolparne le intenzionalità dalla morte che ha causato, ratificano, senza volerlo, l’incomparabilità dell’orrore di accettare che così tanti possano essere stati estinti nel perserguimento della valorizzazione capitalistica, non perché l’estinzione fosse richiesta dalla valorizzazione, ma semplicemente perché era stato deciso che i morti non avessero valore, neanche in vita.

Teorizzazioni del capitalismo che, sin dai tempi di Marx, ne hanno enucleato la violenza costitutiva (inclusi i dibattiti attuali sull’«accumulazione originaria») hanno avuto difficoltà a concepire come la valorizzazione possa procedere non semplicemente da processi di spossessione miranti a creare un residuo vivente, corpi umani lavoranti, sfruttabile dalla macchina del capitale, ma sia piuttosto messa in moto dalla previa svalorizzazione che, sulla base di criteri razziali (non solo il razzismo esplicito, ma l’intero spettro cognitivo, discorsivo e simbolico che costituisce l’economia libidinale dell’anti-Blackness), riduce in carne assolutamente fungibile (un altro termine chiave nel lessico hartmaniano) quelli che un tempo furono corpi africani. Non è questo il solo terreno sul quale concetti e termini da tempo consolidati nell’argomentazione critica (come genere e sessualità, evento e divenire, affettività e solidarietà, attivismo e liberazione) risultano spiazzati e defamiliarizzati dal lavoro di Saidiya Hartman. Non si può uscire da una lettura attenta di Perdi la madre, Scenes of Subjection o Venus in Two Acts con l’impressione che tali categorie, qualora il lettore le avesse care all’inizio, rimangano stabili e trasparenti. Un senso di profonda messa in discussione del modo stesso di intendere l’umano e il politico deve accompagnare il confronto con Hartman, a partire dalla maniera assolutamente unica in cui ha saputo comunicare l’intuizione che è proprio negli spazi e nelle realtà della più profonda soggezione e abiezione che etica, verità e motivazione (se non proprio la «speranza») vadano rintracciate. Ed è su queste note che Perdi la madre si chiude.

L’impensato della libertà

Nel villaggio di Gwolu, nord-ovest del Ghana, Hartman incontra un gruppo di ragazze che, giocando, la invitano come benvenuta. Nel paesaggio di macerie che ha attraversato, Hartman arriva in quel luogo distante dove avevano trovato rifugio coloro che erano scappati alla schiavitù e ne avevano rifiutato le dinamiche e combattuto gli attori, fossero mercanti bianchi o governanti africani. Ed è nella persistenza di quel rifiuto che, Hartman scrive, e nell’assoluta estraneità dell’essere nero nel mondo, un’estraneità fuggitiva che non trova consolazione in sogni di sovranità, territorialità o appartenenza, che le libertà oscene e assassine di cui l’umanità ha goduto per il tramite di carne nera gratuitamente violata possono ugualmente essere rifiutate come condizione preliminare per pensare una libertà a sua volta gratuita, senza aggettivi, qualificazioni o limiti, libertà «fatta nera» (Blackened), Frank Wilderson scrive, in quanto libertà non dell’ ma dall’ umanità. L’enfasi nella tensione verso la liberazione nera come libertà gratuita è, nel discorso afropessimista, apocalittica più che messianica. È libertà che non può essere concepita sulla base delle categorie mondane esistenti (in una conversazione pubblicata su Qui Parle Hartman e Wilderson usano semplicemente l’espressione «the Unthought», l’impensato) e può quindi agire forse solo come motivazione etica verso ciò che Wilderson, riprendendo Frantz Fanon, chiama «la fine del mondo». Rimane materia di riflessione come l’emergere, dall’interno della teoria nera, di una visione dove la Blackness è strutturalmente centrale nel pensare l’antagonismo verso la totalità del mondo stesso, interroghi modalità di movimento e coalizione (volti, ad esempio, a cambiamenti istituzionali o contro la brutalità poliziesca) che, anche nei loro esiti indubbiamente affermativi e positivi, e persino nel salvare vite nere, incanalano l’antagonismo tra Blackness e mondo in conflitti più delimitati, popolari e risolvibili, ma solo perché e finché non attaccano l’essenziale radicamento della vita umana nella morte nera.

A seguito delle proteste per l’omicidio di George Floyd, mentre la società civile celebrava da più parti le proprie capacità di «riformare» la polizia, le istituzioni avevano già provveduto a santificare Floyd stesso, il cui «sacrificio per la giustizia» la speaker della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, espressamente lodava: nuovo sangue su cui può navigare la barca delle buone intenzioni. Poche ore dopo le parole di Pelosi, un’altra giovane donna nera, Ma’Khia Bryant, veniva assassinata dalla polizia a Columbus, Ohio. È sempre più difficile evitare di fare i conti con l’analisi afropessimista della violenza strutturale anti-nera nelle sua multiformi manifestazioni, dalla polizia, ai movimenti abolizionisti, ai politici buonisti, ai teorici della multiculturalità, presi in una coazione a ripetere di cui la morte nera fornisce stimolo e carburante. O, come scrive Hartman, «l’amore non c’entra nulla con questo, l’amore c’entra eccome».

L’abisso della perdita per ripensare sapere, etica, verità

Chiudo su una nota personale. Negli ultimi anni ho spesso discusso in classe, nel corso che insegno sulle voci letterarie afroamericane, Perdi la madre assieme ad un altro racconto romanzesco a sfondo storico, lo straordinario Homegoing (Non dimenticare chi sei, nella pessima traduzione italiana del titolo) di Yaa Gyasi, ugualmente centrato sul trauma della schiavitù e la sua trasmissione intergenerazionale e transcontinentale, un trauma nei cui confronti la parola «diaspora», con l’ottimismo e il senso di possibilità che invoca, appare, se non inadeguata, perlomeno indebitamente consolatoria. Gyasi, scrittora afroamericana di origini ghanesi conclude il suo libro, geograficamente contiguo ma stilisticamente e contenutisticamente assai diverso dal testo di Hartman, su toni stupendamente affini. Dopo secoli di separazione forzata, a causa della schiavitù, delle rispettive famiglie dalla loro comune stirpe africana, gli ultimi discendenti dalle due sponde dell’Atlantico, Marjorie e Marcus, si incontrano e si tuffano nell’oceano, da cui Marcus è atavicamente terrorizzato. «Bentornato a casa», Marjorie gli dice, abbracciandolo. Come nell’incontro di Hartman con le ragazze di Gwolu, un benvenuto tra coloro che, a scapito di tutto e contro l’immensa violenza del mondo stesso, avevano combattuto e rifiutato la schiavitù chiude il libro di Gyasi, un benvenuto racchiuso nell’immagine di «casa». Non una casa nel senso familiare del termine, ovviamente; piuttosto un’abitazione che a quel punto non è né l’America né l’Africa, le cui coste pur sono a pochi metri da Marcus e Marjorie, ma risiede nell’oceano stesso, da dove la Blackness, casa comune ad entrambi, è venuta al mondo, il paradossale luogo nero dove solo dall’abisso della perdita senza nome e senza redenzione, non dalla potenza agente dell’umano, è possibile ripensare il sapere, l’etica e la verità.

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