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Per una ripresa della critica della vita quotidiana

Una nota

Nigel Rofe, 1983


Appare sempre più importante, soprattutto nella contingenza che stiamo vivendo, una ripresa della critica della vita quotidiana, laddove si può trovare uno stimolo a riarticolare la questione dell’alienazione riferita alle trasformazioni radicali dei comportamenti dei singoli, dell’umano in generale. La tradizione di tale forma di pensiero critico ha fornito strumenti preziosi per un’analisi non ingenua del reale a favore del possibile (idee, fantasie, aspirazioni, ciò che emerge dalle stesse attività del/nel quotidiano, in particolare da quelle che presentano caratteri tecnologici sempre più di rilievo, di impatto sui modi di pensare/agire/dire), restando storicamente legata, a partire dal secondo dopoguerra, a una comprensione degli spazi di lavoro disposti intorno alle abitazioni, comunque collegati a esse e quindi non separati dalla vita quotidiana.

Da tempo sappiamo che tale collegamento si è fatto ancora più stretto per via dei cambiamenti impressionanti della formazione economico-sociale, tanto che si può arrivare a vedere nella vita quotidiana la dimensione di comprensione, in ogni senso, della vita economica, sociale, culturale, politica, tecnica. In tale ottica, la vita quotidiana non si mostra però come qualcosa di irriflesso, di neutralmente e passivamente predisposto all’assunzione delle esigenze di capitale e di denaro proprie del feticcio economico che si fa appunto «soggetto»: in essa, intesa in ogni caso come pratica sociale, si dà la possibilità concreta della critica della sua stessa configurazione data, di quelli che sono i suoi assetti predeterminati. La vita quotidiana comporta, porta con sé (scriveva molti anni fa Henri Lefebvre), elementi di critica rispetto alle sue stesse esigenze/urgenze. Al suo interno si delineano e si confondono le figure del privato e del pubblico, del fittizio e del concreto, del sentirsi estraneo a se stesso e della atomizzazione autosufficiente (e però in effetti artificiosa). Lo studioso francese appena ricordato sottolineava, attorno alla metà del secolo scorso, come non si sappia bene come si vive, come bisogni, attitudini, aspirazioni siano sempre condizionati ideologicamente, filtrati cioè da temi ideologici anche nel momento in cui si spacciano come valori etici. Tutto ciò sta però insieme dentro e fuori la vita quotidiana e proprio in tale posizione particolare è da cogliersi la possibilità per l’essere umano di arrivare a una qualche forma di consapevolezza, meglio: a una percezione/riflessione di ciò che c’è come qualcosa che potrebbe essere anche diverso, che sarebbe potuto accadere differentemente.

Nel quotidiano si dà cioè la possibilità di un’immagine, di un immaginario predisposto ad andare oltre lo stesso quotidiano «dato». Torna, in tale prospettiva, quel particolare sistema complesso che è la coscienza, con la sua capacità di riflettere in modo non scontato non soltanto sulle cose, sul mondo esteriore, ma anche sulla stessa attività umana, con il suo potere pratico sul reale, con il suo rilevare pure i conflitti, le tensioni, le lacerazioni che si palesano sempre, in ogni caso, dentro a qualsiasi contingenza. Da qui la spinta a riprendere seriamente in considerazione, in un senso che ripropone l’importanza della riappropriazione in termini anche parzialmente marxisti, il quotidiano come fattore di produzione del cosiddetto «mondo umano», con la rimessa in primo piano dei caratteri – dei bisogni – dell’amore, dell’amicizia, della comunicazione, del gioco, di un’attività complessiva non mortificante/aberrante e ridotta unicamente al funzionale. Bisogni, dunque, a cui tornare a prestare vera attenzione; a questo punto si dovrebbe richiamare anche la stagione vivace e teoricamente (ma non solo) ricchissima dell’analisi della vita quotidiana che prende spunto da Lukács e dalla sua «scuola», con un rinvio ulteriore all’analisi del rapporto tra la sfera del quotidiano e la dinamica storica in Ágnes Heller. Si tratta però di ambiti e di figure ampiamente studiati, anche se il motivo d’interesse che qui si vuole sottolineare ha avuto da noi, in Italia, una purtroppo breve e comunque fortunata e stimolante ricezione nella seconda metà degli anni Settanta, anni sbrigativamente liquidati per le tante, troppe, meschine «ragioni» che si conoscono e che non vale proprio la pena menzionare ancora una volta.

Il capitalismo all’assalto del quotidiano

La critica della vita quotidiana, dunque. Da riprendere come campo di analisi, soprattutto nel momento in cui le sue trasformazioni odierne, quelle della quotidianità – con quel motivo singolare, per citarne uno come esempio, del proiettarsi effettuale del privato interiore ed esteriore su una scena produttiva mediaticamente/comunicativamente disegnata – appaiono così rilevanti da motivare ulteriormente un approccio appunto radicalmente critico a un vivere comune di fatto quotidianamente coinvolto con un capitalismo che pare portato a presentarsi come sempre più insidiosamente «sociale».

È proprio lo spazio del quotidiano a essere investito da dinamiche che ne stravolgono il volto abituale, nel senso che esso pare predisposto non più soltanto per favorire la riproduzione della forza lavoro ma per renderla ancor più e sempre, ininterrottamente, produttiva. A mo’ di esempio si può qui ricordare lo studio assai significativo di Jonathan Crary, ormai di qualche anno fa, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, nel quale si fanno i conti con una giornata letteralmente riempita dal lavoro, nelle sue molteplici articolazioni, sempre nel rispetto della legge del plusvalore che invade appunto qualsiasi ambito della vita quotidiana. Alla riflessione di Crary, particolarmente acuta quando restituisce l’attacco che viene condotto al sonno, considerato come interruzione del furto di tempo che il capitalismo non smette di perpetrare e quindi come un ostacolo insopportabile da erodere con accanimento ostinato e rabbioso, si potrebbe anche affiancare su un altro piano d’indagine, quello del digitale e della sua spesa produttiva, il testo di Dominique Cardon su Che cosa sognano gli algoritmi. Le nostre vite al tempo dei big data, del 2015. Molte altre ricerche potrebbero essere ricordate rispetto a metamorfosi del quotidiano che corrispondono alle nuove esigenze/urgenze della valorizzazione capitalistica.

Ma a questo punto mi interessa di più sottolineare ancora che proprio nei confronti di tale spazio, quello della vita quotidiana, determinate tradizioni del pensiero critico novecentesco hanno impiegato risorse essenziali di intelligenza/sensibilità e di ampio respiro teorico, come già scritto in precedenza. A me pare che esse possano effettivamente fornire una spinta a riprendere l’analisi in modalità innovative, con la consapevolezza che molto è mutato «nel corso del tempo» e che convergenza e divergenza all’interno del quotidiano, rispetto al precedente quadro d’epoca, ai differenti modi di vita, vanno avanti di pari passo: il compito è appunto quello di cercare una qualche sintonia, di procedere riuscendo a realizzare dei collegamenti effettivi con le loro cruciali ragioni d’essere. Queste ultime rinviano a una prassi quotidiana che è pur sempre accompagnata da ombre di inconoscibilità, per dirla con Lukács, che possono piano piano parzialmente diradarsi soltanto a partire da una ecologia dell’azione rivolta a chiarire il nesso di condotte di vita «individuali» e logica propria della totalità sociale oggettiva, con le sue vicende complesse e articolazioni concrete.

È scontato in tale ottica l’apprezzamento di un’analisi dettagliata della relazione tra il quotidiano e il divenire storico che avvolge appunto la vita quotidiana e che sempre di più si introduce al suo interno, trasformando i contenuti che la specificano: ruoli, lavoro, sessualità, tempo libero, spirito di comunità. Si sa che a suo tempo le tradizioni critiche qui di riferimento si sono concentrate sul compito, opportunamente supportato a livello descrittivo, di opporre qualcosa di politicamente avvertito ai processi di disumanizzazione (di alienazione crescente, nel senso proposta da Rahel Jaeggi quando ne parla come di una realizzazione di relazioni in assenza di relazione) che sono propri del capitalismo. Oggi tale compito sembra delinearsi sulla base di una complicazione dovuta in gran parte all’entrata prepotente del lavoro digitale all’interno proprio della vita quotidiana, ingresso a porte spalancate a causa delle difficoltà crescenti a sviluppare progetti e azioni di fuoriuscita dalla camicia di forza della legge del plusvalore. Si potrebbe pure dire diversamente: negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso si pensava a un processo di liberazione contrassegnato anche dal superamento dell’antitesi tra il tempo di lavoro e il tempo libero, tempo di lavoro necessario e loisir, nel senso di una fuoriuscita progressiva dal lavoro; ciò che ci ritroviamo attualmente di fronte è però un venir meno del tempo libero come tempo di non lavoro, vale a dire una messa al lavoro generale che è di segno opposto rispetto al bisogno di farla finita con lo stesso tempo libero comunque codificato, con le sue condizionalità, per poter finalmente arrivare a qualificare così l’intera società come liberata dal dominio del lavoro passato, del lavoro «morto».

Aver fiducia nel mondo

Certamente il Novecento è stato un secolo ricco di aperture critiche nel senso che ho sopra richiamato, ma quello che vorrei di seguito indicare è un complesso di sensibilità di diversa natura che hanno il merito di ribadire come sia essenziale rimettere in piedi un rapporto di effettiva corrispondenza tra «noi» e il mondo, soprattutto nel momento in cui le accelerazioni dei modi di vita sembrano portare a fenomeni di depotenziamento, addirittura di «sparizione», delle «realtà» in gioco. Penso, ad esempio, sempre al secolo della repulsione generalizzata: per dirla con Paul Virilio, alle ricerche di Gilles Deleuze, filosofo che ha avuto il merito, tra l’altro, di porre la questione dell’«aver fiducia nel mondo» in tempi di suo concreto smarrimento, per non dire «perdita» (a cui corrisponde appunto il sentimento diffuso di esserne stati «spossessati»). «Credere al mondo»: delineando una sorta di «quadro clinico» del nostro tempo, Deleuze afferma che non è indispensabile credere a un altro mondo, bensì ritenere possibile realizzare una relazione positiva tra l’essere umano e il mondo, nel riconoscimento comunque della contingenza generale che abbraccia le affezioni e gli affetti di cui siamo composti. Ciò è affermato in termini netti nello studio sul cinema: «La nostra credenza può avere come unico scopo la “carne”, abbiamo bisogno di ragioni molto speciali che ci facciano credere al corpo […]. Dobbiamo credere al corpo, ma come al germe di vita, al seme che fa spaccare i selciati, che si è conservato, perpetuato nella sacra Sindone o nelle bende della mummia e che testimonia la vita, in questo mondo così com’è. Abbiamo bisogno di un’etica o di una fede, e questo fa ridere gli idioti. Non è un bisogno di credere a qualcos’altro, ma un bisogno di credere a questo mondo qui, di cui gli idioti fanno parte» (G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2 (1985), trad. it. di L. Rampello, Einaudi, Torino 2017, p. 202).

Credere al mondo, cioè nella vita, nel vivere con gli altri, è anche l’invito ricavabile dalle analisi di Virilio (e, in una prospettiva diversa, dal percorso di ricerca di Günther Anders: dall’antropologia negativa alle tesi sul carattere «antiquato» dell’uomo), centrate sulla velocità e piegate anche in direzione ecologica, nel senso del riconoscimento dell’esistenza, accanto all’inquinamento sempre più evidente della natura, anche dell’inquinamento della «grandezza della natura». Ciò vuol dire che all’ecologia «verde» va affiancata una ecologia «grigia», che si occupi delle cause dell’inquinamento delle distanze derivante proprio da quelle accelerazioni, in particolare delle trasmissioni e dei trasporti, che producono una «fine del mondo», meglio: una riduzione del mondo al «troppo piccolo», per non dire al nulla. È anche in questa direzione che si può parlare di una ecologia «politica» del quotidiano, di una indagine all’altezza dell’imposizione odierna di distanze che hanno come obiettivo la delineazione di un altro mondo fissato nello schermo, di fatto miniaturizzato, all’interno del mondo dato, anch’esso rigidamente circoscritto, che viene però a caratterizzarsi anche per il suo progressivo venir meno, per un vero e proprio assentarsi nell’affermazione, nel «trionfo» complessivo di quella «velocità» che comporta non troppo paradossalmente la fissazione patologica dell’umano.

Verso un’ecologia della vita quotidiana

Da tutto quello che abbiamo detto si potrebbe ricavare l’importanza di un esercizio critico da contrapporre alla pratica di purificazione, di pulizia, su tutti i fronti, che sembra ossessionare i portabandiera e i portavoce dei poteri dominanti: una sorta di educazione civica rivolta a evidenziare il valore dello smarrimento «nel vento che cammina» (Joё Bousquet), la ricchezza dell’esistenza senziente, con la sua intelligenza connettiva e cooperante. Ma insieme a questo, voglio rilevare ancora un’attenzione al motivo del «mondo» – e a noi che possiamo corrispondergli – presente negli studi di Hartmut Rosa, di matrice «francofortese», dal suo Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, pubblicato in inglese nel 2010, a Resonanz. Eine Soziologie der Weltbeziehung, del 2016, in particolare laddove si coglie quel nesso di incremento di velocità e approfondimento delle dinamiche di alienazione che si traduce poi in un indebolimento delle relazioni tra «noi», soggetti, e il mondo. A ciò va aggiunto il motivo del «silenzio» del mondo, della sua freddezza, di quel carattere sfuggente rispetto al quale anche il tentativo della soggettività contemporanea di fare minimamente i conti con problematicità, tensioni, conflittualità (da cui è comunque impensabile liberarsi completamente) non sembra poter trovare effettivo riscontro. Rosa ha pagine assai intense quando scrive di una «sordità», di una non «responsività», che contraddistingue la relazione tra il sé e il mondo: a ciò corrisponde un «urlare a vuoto», anche e soprattutto nelle situazioni e nei momenti più difficili, che evidenzia la mancanza di risposte e una condizione di vita di «non risonanza per e nei confronti dell’ambiente», un vero e proprio «disastro di risonanza tardomoderno». Risonanza appare qui come un concetto opposto, nel momento in cui indicherebbe degli «assi di risonanza» materialmente presenti e distinguibili sui piani di articolazione del vivere sociale, a quello di alienazione: un concetto fortemente connotato in senso esistenziale ed emotivo ma che può essere apprezzato teoricamente e politicamente laddove venga riferito a delle pratiche di riapertura al mondo e di sua ri-progettazione, pratiche che possono restituircelo come nostro compagno di avventure o – per dirla con Tim Ingold – come ciò che è con noi, nel nostro esistere.

Insomma, la questione è sempre quella del come vivere. Il bisogno di una teoria critica dell’accelerazione e dell’alienazione può trovare parziale soddisfazione, a mio modo di vedere, in una ecologia della vita quotidiana che ha come suo presupposto anche l’invito deleuziano a credere alla possibilità concreta di articolare un rapporto più positivo tra l’essere umano e il mondo, eventualità che qui mi interessa rimarcare anche per la contingenza attuale che pressa in modo particolare i movimenti del quotidiano, il suo manifestarsi anche in ciò che caratterizza il nostro sentire in generale e dunque pure il conoscere. Si tratta allora di ripensare ancora insieme vita e mondo, anche attraverso quelle trasformazioni radicali del quotidiano che hanno subito negli ultimi tempi una accelerazione notevole: il quotidiano, appunto, ciò che fornisce oggi un quadro di problematicità che può stimolare una critica rinnovata delle politiche date e un riformulare diversamente i suoi contenuti e in modo particolare i suoi bisogni.

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