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Parlare con le cellule

I materiali intelligenti e la sostenibilità



Parlare con le cellule del nostro organismo, ricostruire tessuti e organi guidando nanostrutture autoorganizzate, sostenibili e prive di scarti. I nuovi confini della chimica sono sostenibili e vanno verso il pensiero sistemico. Ce ne parla Silvia Marchesan, giovane docente di chimica organica dell’Università di Trieste.


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Stiamo per raggiungere gli 8 miliardi di esseri umani, di cui la maggior parte oggi vive una qualche forma di povertà e si trova in un Paese in via di sviluppo. Chiaramente non abbiamo ancora trovato delle soluzioni efficaci su scala globale per un futuro sostenibile ed equo, soprattutto considerando i grossi danni alla biodiversità e verso la destabilizzazione del clima causati dall’impronta delle attività umane nell’antropocene, di cui si può leggere nel dettaglio nei rapporti di organizzazioni mondiali quali ONU e WWF. L’urgenza di un cambio di direzione è sotto gli occhi di tutti, ma è quanto mai necessaria una presa di coscienza a livello profondo, che sradichi gli schemi con cui agiamo oggi, per portarci verso nuovi modelli mentali che permettano una trasformazione radicale per realizzare un futuro sostenibile.

Fino ad oggi, ci siamo preoccupati prima di sviluppare materiali e prodotti che fossero i più duraturi possibile, e poi di sostituirli freneticamente con modelli più aggiornati e alla moda, in una corsa continua in cui oggetti, come i telefoni cellulari e i capi d’abbigliamento e accessori, sono destinati a un uso limitato a qualche stagione. La concomitante generazione di livelli di scarti ormai ingestibili è il campanello d’allarme che questa via non è più percorribile. Si parla sempre più di cicli virtuosi e di economia circolare come possibile soluzione, ed è interessante notare come l’arte del riciclo e del riuso sia da sempre una delle strategie più efficaci adottate dalla natura, dove ogni scarto diventa risorsa preziosa per qualche altro organismo, e dove il veicolo universale per i processi vitali e di trasformazione è l’acqua.

Ed è proprio da qui che parte la ricerca svolta presso i nostri laboratori (www.marchesanlab.com) presso il dipartimento di Scienze Chimiche e Farmaceutiche dell’Università di Trieste. Il Superstructures Lab è stato realizzato nel 2015 grazie ad un importante finanziamento del governo italiano tramite il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Le nostre attività puntano al design e allo sviluppo di una tecnologia a base di semplici biomolecole, cioè piccoli peptidi, che siano in grado di auto-organizzarsi in strutture dinamiche e funzionali per offrire soluzioni innovative a tanti problemi irrisolti di oggi, e che usino proprio l’acqua come veicolo e generino scarti biodegradabili. In natura, le biomolecole si auto-organizzano continuamente in un gioco di mattoncini di costruzione, che vanno a formare le nostre cellule e i nostri tessuti, così come quelli di piante e animali. A differenza dei peptidi più comuni però, i nostri usano dei mattoncini che permettono di modularne l’attività e migliorarne la resistenza.

L’aspetto affascinante di questi sistemi innovativi è che sono costituiti da composti estremamente semplici da preparare, i quali poi tramite l’auto-organizzazione in acqua, vanno a generare strutture complesse e funzionali, tenute insieme da legami deboli di per sé, ma la cui «unione fa la forza» in un gioco di cooperazione. Ne consegue che, con poco sforzo, queste strutture possono essere dinamiche, scomporsi e riconfigurarsi, e persino rispondere a stimoli esterni, per cui si sono giustamente guadagnate il nome di “materiali intelligenti”. Questo approccio è pertanto in netta contrapposizione con quello delle molecole complesse più tradizionali, che devono essere fatte dallo scienziato con maggiore sforzo produttivo. In questo caso invece, lo scienziato produce semplici composti che si assemblano in strutture complesse, con un netto vantaggio economico e di risorse.

Ovviamente dietro a tutto questo un notevole sforzo c’è, ma è più che altro uno sforzo mentale di design efficace, e che via via diventa più agile man mano che la nostra conoscenza avanza. Un po’ come gli oggetti funzionali più belli del design moderno, frutto di linee semplici e armoniose, ma dietro cui ci sono stati tanti anni di studio e ottimizzazione per portare al risultato finale, e togliere con maestria tutto il resto.

E cosa possiamo fare con questi sistemi? Il nostro limite ultimo è senz’altro l’immaginazione: finché riusciremo a ideare nuove applicazioni e modulare questi sistemi al bisogno, potremo allora fornire nuove soluzioni. Ad esempio, alcuni di questi piccoli peptidi possono auto-organizzarsi in strutture con attività antimicrobica, utili quindi per contrastare le infezioni batteriche. Non solo, l’attività risiede nella struttura, per cui andando a comporla e scomporla, posso ottenere una terapia che si accenda e spenga all’occorrenza, andando quindi a contrastare i problemi dei tanti farmaci che continuano nella loro attività anche dove non serve, e anche quando poi sono rilasciati nell’ambiente dopo l’uso. Non solo, queste strutture antimicrobiche possono formare dei materiali morbidi, dei gel, che quindi potrebbero rivestire impianti medici, come cateteri per esempio, che possono essere oggetto di infezioni. Perché non ne avete ancora sentito parlare? Perché il progetto che abbiamo presentato nel 2020, insieme ad una squadra altamente qualificata di scienziati e medici, non è stato finanziato. La qualità del progetto è stata riconosciuta, anche da esperti anonimi internazionali – infatti ha raggiunto un punteggio di 95/100 – ma non abbastanza per i pochi finanziamenti disponibili del bando PRIN del governo italiano. Senza risorse, non possiamo chiaramente sviluppare questi sistemi.

Inoltre, questi gel sono molto simili ai tessuti morbidi del nostro organismo, come il tessuto nervoso, per esempio, e in particolare alla matrice extracellulare, che definisce l’ambiente in cui si trovano le cellule. Con i nostri studi di ricerca abbiamo prodotto infatti un gel, in cui le cellule possono crescere e proliferare, guidate dalle istruzioni che vengono codificate dai peptidi. Nel nostro caso un messaggio di adesione ha portato le cellule ad aderire al gel. Infatti la natura usa proprio il linguaggio dei peptidi e delle proteine per svolgere i processi biochimici che avvengono continuamente all’interno delle cellule. Una gran parte di questo linguaggio è già stata decodificata, per cui ad ogni mattoncino dei peptidi corrisponde una lettera. Oggi sappiamo quali lettere usare per parlare con le cellule. Possiamo quindi immaginare un futuro dove, quando una parte dei nostri tessuti e dei nostri organi deve essere sostituita e rigenerata, potremo semplicemente usare questi gel per guidare la crescita delle cellule a rigenerare il tessuto, e man mano che questo si riforma, i peptidi inziali vengano man mano riassorbiti per non lasciare traccia. Anche su questo tema abbiamo presentato vari progetti, nessuno di essi finanziato, dopo il primo esplorativo che nel lontano 2015 ci ha permesso di gettare le basi e capire i principi fondamentali per il design di questi sistemi.

Possiamo anche andare ben oltre! Molti processi industriali di oggi che richiedono la trasformazione delle molecole, possono essere più efficienti in presenza di un catalizzatore che di fatto assomiglia ad una versione semplificata, resistente ed intelligente, di un enzima. Sì perché gli enzimi, che vengono utilizzati sia in tanti prodotti che usiamo tutti i giorni come molti detersivi, sia in processi industriali come soluzione «verde», sono composti da proteine, cioè macromolecole complesse che sono composte da mattoncini uguali o molto simili a quelli che usiamo nei nostri sistemi intelligenti. L’importanza del loro uso per l’industria, e soprattutto del loro sviluppo in versioni più resistenti alle condizioni industriali, è stata riconosciuta con il premio Nobel in Chimica nel 2018 alla Prof.ssa Frances Arnold. Una differenza chiave è che gli enzimi hanno una grande struttura ripiegata per proteggere il loro interno dove si trova il «sito attivo» che permette le trasformazioni chimiche. Nei Superstructures Labs invece sono state individuate delle alternative fatte da piccolissime molecole, dette «tripeptidi», che «copiano» i mattoncini attivi degli enzimi, e creano una superstruttura auto-organizzandosi da soli. Per dare un’idea delle differenze di costo, gli enzimi sono costituiti tipicamente da un centinaio di mattoncini o più, mentre i «tripeptidi» soltanto da tre mattoncini, e poi da soli si auto-organizzano a formare strutture molto più grandi, anche più grandi degli enzimi stessi, per svolgere il lavoro che abbiamo codificato nelle «lettere» che li compongono.

In questo modo abbiamo ottenuto dei catalizzatori biodegradabili che svolgono attività simili agli enzimi naturali, ma solo quando sono «organizzati», permettendo perciò di «accendere» e «spegnere» il sistema all’occorrenza. Questo tipo di sistemi sono stati applicati anche nell’organocatalisi, che è un altro tipo di approccio molto utile per ridurre l’impatto ambientale della chimica industriale, e che infatti anch’essa è stata riconosciuta con un altro premio Nobel in Chimica proprio quest’anno ai professori List e MacMillan. Anche su questo importante tema abbiamo pubblicato degli articoli scientifici che dimostrano la fattibilità delle idee un paio di applicazioni molto diverse tra loro, e insieme ad una squadra di chimici tutta italiana abbiamo presentato un altro progetto al governo, anch’esso valutato bene ma… non abbastanza bene da essere finanziato.

Nel frattempo, nel resto del mondo, altri scienziati con grandi finanziamenti a disposizione, stanno studiando sistemi simili a questi non solo per riparare i tessuti, ma anche addirittura come alternative verdi ai componenti elettronici, nell’ottica in futuro di creare una «bioelettronica», magari compostabile? Immaginate che meraviglia. Una transizione «verde» quindi non è impossibile, ma richiede sia finanaziamenti adeguati, sia che tutti noi ripensiamo il nostro modo di vivere e di consumare, accettando i cicli naturali, e senza ostinarci a prodotti e stili che lottino contro il tempo e lascino tracce indelebili negli scarti. Una passeggiata nei bellissimi paesaggi naturali del nostro Paese potrà senz’altro aiutarci a trovare l’ispirazione dalla Natura per cambiare mentalità.


Per approfondire:



Immagine: Sergio Bianchi


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Silvia Marchesan, è docente di chimica organica nel dipartimento di Farmaceutica dell'Università di Trieste. È stata selezionata da «Nature» come sesta tra gli 11 migliori scienziati emergenti al mondo su 500 ricercatori che hanno pubblicato almeno un articolo nelle 82 riviste del «Nature Index» nel 2017. Secondo la prestigiosa rivista internazionale questi 11 ricercatori stanno lasciando il segno nella scienza, ciascuno nelle rispettive discipline di studio. I suoi interessi di ricerca riguardano i processi di self-assembly, le nanotecnologie, i biomateriali, come gli idrogeli di proteine, per applicazioni che vanno dalla terapia per malattie neurodegenerative, a nuovi composti antimicrobici, rilascio di farmaci e materiali intelligenti.

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