Mira Schor, Folio 99
Becero gruppo compatto, noi ce la passeggiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza incordonati. Siamo da ogni parte circondati da zecche e dobbiamo quasi sempre tirare delle cinghiate. Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa al bar dei cinesi, allo scopo di combattere i nazisti e di non sdrucciolare nel vicino centro sociale, i cui abitanti, fin dal primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito la via dello stadio alla via della politica. Ed ecco che taluni della città si mettono a gridare: «Andiamo nel centro sociale!» E, se si incomincia a fare schifo, ribattono: «Che gente provinciale siete! Non vi vergognate di negarci la libertà d’invitarvi all’assemblea universitaria del collettivo xenocyberqueer?». Oh, sì, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche tra le zecche; del resto pensiamo che il vostro posto è proprio tra le zecche e siamo pronti a darvi il nostro aiuto solo per il servizio d’ordine. Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e lasciateci bere un campari col bianco, perché anche noi siamo «liberi» di andare dove vogliamo, liberi di picchiare non solo i nazisti, ma anche coloro che il nazismo ce lo fanno salire con delle carogne mai viste.
Siamo comunisti semplici: ci dici rivoluzione, noi pensiamo alla costruzione autonoma di contropotere politico di classe. Alla disarticolazione a livello di massa degli apparati di comando della controparte. All’organizzazione del processo insurrezionale dentro il dispiegamento della guerra civile.
Ma ci basterebbe, per iniziare, che arrivaste alle assemblee in orario.
Che cambiaste una buona volta quella playlist sul furgoncino davanti ai cortei.
Che citaste meno «Deleuze», «gioia» e «migranti» nei vostri comunicati, paper o post su facebook e picchiaste un fascista in più. Uno. Non chiediamo tanto. Basta una cinghiata. Un pugno sui reni. Va bene anche se sta cagando. Va bene anche se non ha fatto niente (lui, tanto, lo sa).
Insomma, noi vogliamo tutto, ma da parte vostra ci accontentiamo di poco, perché sarebbe già una rivoluzione se la smetteste di fare le zecche, cari compagni e compagne. Senza asterischi del cazzo, grazie.
Perché è di questo che stiamo parlando. Da agenti del conflitto, portatori di un bacillo, quello dell’attualità della rivoluzione, siete ‒ siamo ‒ diventati una triste, debole, sterile sottocultura, neanche più giovanile. Zecche. Perfettamente riconoscibili, delimitabili, emarginabili dai contesti sociali per cui, con sprezzo del ridicolo, diciamo di agire, giustificando così la nostra riproduzione a gestori dell’esistente. Siamo anzi arrivati al punto che la controparte deve fare poco, o niente. Perché ci abbiamo già pensato noi a escluderci, a tirarci fuori dalla trama delle relazioni sociali, dai luoghi dove si riuniscono pezzi della composizione di classe, dalla realtà , quella vissuta e sentita socialmente con tutte le sue contraddizioni, ambiguità e bruttezze. Rinchiudendoci in ghetti ‒ che siano orizzontali o burocratici, identitari o della differenza, troppo sporchi o troppo chic poco cambia – riserve indiane vantaggiose al nostro nemico. Che infatti non ha poi così tanto interesse a chiudere, eliminare, combattere. Perché dovrebbe? Siamo diventati un utile sfogatoio della subalternità sociale, cassa di contenimento di pulsioni o istanze dei superflui, degli esclusi, dei diversi. Al punto che, nei fatti, come soggettività sedicenti politiche, contribuiamo a spegnere l’intemperanza giovanile, normalizzare il senso di impotenza, rendere compatibili e vertenziali le tensioni, funzionando, nei fatti, da tappo e da blocco per lo sviluppo e la radicalizzazione di movimenti reali di soggettività reali.
Alla ricerca e all’organizzazione della forza le zecche, infatti, sostituiscono la celebrazione della debolezza, della sfiga, della sconfitta interiorizzate. È questo il centrosocialismo reale, un fenomeno di folklore tra i tanti a contendersi spazi di marginalità metropolitana, che ha dismesso la sua funzione politica di produzione di controsoggettività antagonista a livello complessivo. Ci sono voluti dei ravers a occupare uno spazio sociale occupato, come fosse un capannone dismesso qualsiasi, in un ultimo dell’anno di qualche tempo fa, per far emergere tutta la ridicola tragicità della cosa, il dubbio, a qualcuno, che forse c’è un problema. Che non siamo più neanche considerati fattori politici, in grado di esercitare rappresaglia a suon di sprangate nelle ginocchia, da parte di tossici, sballati e punkabbestia.
Come zecche continuate a replicare formule vuote, modelli inefficaci, immaginari depressivi spacciati come potenzialmente desiderabili dalle «persone normali» (curiosa abitudine, questa, di riferirsi al mondo là fuori, che non senza ragioni si tiene alla larga da tali tristi lande, e che dice molto di come perfino noi ci consideriamo). Una sottocultura triste, perché a dispetto di ogni arcobaleno esposto o alle felpe nere del collettivo, sono grigi e piatte le forme di vita e militanza del cosiddetto ceto politico ‒ oggi ben più vicino al funzionariato sindacale o al volontariato cattolico, entrambe figure in cerca di sfigati da tesserare o salvare ‒ che al ruolo cui il militante spetterebbe in questi tempi di crisi: quello di conricercatore della forza nella lotta, di anticipazione della tendenza, di esacerbatore delle contraddizioni contro lo status quo, di tessitura sovversiva di spontaneità e organizzazione. L’incarnazione vivente, inattuale, dell’attualità della rivoluzione.
E invece è debolezza quello di cui le zecche sono portatrici, perché le giovani rabbie e le intelligenze più lucide in cerca di un’idea-forza, di un esercito partigiano, di un nemico in grado di farle esprimere si tengono alla larga o si allontanano verso altri lidi, verso altre latitudini, dove vedono o credono di vedere una causa, una comunità , una forza: quanti compagni o potenziali compagni abbiamo perso lungo la strada nel corso degli ultimi anni? Quanti sono passati dall’altra parte della barricata, coi fascisti, o si sono infilati in una Ong, nella Caritas o in una delle tante associazioni depoliticizzanti, invece di farsi giustamente rovinare la fedina penale e la vita da noi? «Restiamo umani» un cazzo. C’avete fatto salire una carogna addosso che di umano non ha niente. Restiamo Stalin, allora, senza pietà per nessuno. Neanche per i nostri.
Le zecche sono una sottocultura sterile, ignorante, volutamente o meno, di quello che succede là fuori, all’esterno dalla propria bolla, nella vita vera, nei segreti laboratori della composizione di classe: oggi le periferie e le provincie. Semplicemente perché, per la maggior parte, non viene da qui, dalle terre di nessuno, ma fa parte di quel ceto medio mediamente progressista, altamente istruito, sicuramente metropolitano che va a ingrossare la sinistra liberale e democratica. Che preferisce impegnarsi in logoranti e sterili polemiche, molto spesso online, sulla «inclusività » di un certo lessico («sessisti!»), sulla problematicità di un certo «modo di fare» («fascisti!»), sulla bruttezza di certi settori popolari («razzisti!») o dare sfoggio della spocchia accademica derivata dagli importantissimi seminari che si consumano nelle aule universitarie, piuttosto che inchiestare le soggettività sociali realmente esistenti, scommettere sulla loro potenzialità e nelle loro ambiguità , dall’interno di un radicamento e di una legittimità conquistate verso i propri referenti. Oggi l’unico collettivo con del vero radicamento nei quartieri è quello degli spacciatori, se volete saperlo. Ma lo sapete, dato che anche nei vostri spazi la cocaina è diventata il motore dei rapporti, degli scazzi, delle alleanze, della stessa attività politica.
È questo oggi l’ambiente che, con sprezzo del ridicolo, si vorrebbe collettore di istanze rivoluzionarie. In che cosa non sarebbe compatibile con la catastrofe del «che tutto continui così»? Ci siamo dentro con l’acqua alla gola, in questo insopportabile pantano. Una palude stanca, mortifera, separata dal mare là fuori che invece ribolle annunciando la tempesta. È qui che, sui nostri legni, vorremmo, dovremmo essere, osando. È qui che vorremmo e dovremmo navigare anticipando, per solcarle, la potenza profonda delle mareggiate, ritenute improvvise solo per chi non sa più vedere i segni degli abissi. Invece affondiamo dentro melasse di vomitevoli buoni sentimenti, progressiste richieste di futuri concessi dall’alto, degenerazioni estremistiche di minoranze oppresse da tutelare, contenti di avere tutta la ragione del mondo ma nessuna vera forza, radicamento, incisività nella realtà quotidiana che intanto si muove intorno a noi, questa davvero.
A forza di mestare in questi fondali limacciosi, si è perfino riusciti a far riaffiorare il fetido cadavere della sinistra. Noi odiamo questa mefitica stagnazione di torbide acque. Qui rigogliano alghe infestanti e si riproducono colonie di parassiti: le prime togliendo ossigeno per respirare e i secondi succhiando energie per uscire. Sono queste le forme di soggettività che vediamo produrre oggi dalla palude del movimento. Zecche.
Una volta c’era il partito mondiale della rivoluzione. I compagni diventavano ricercati. Oggi sono tutti ricercatori. La strategia era la politica criminale. Non quella istituzionale. La carriera militante si misurava nella maggiore vicinanza alla forca. Non nei like su facebook o nelle birre spillate dietro al bancone. Erano tempi così. Ma almeno erano concreti. Veri. Oggi, invece, quello che siamo è un non-movimento irreale, grottesco, inutile. Che ha smesso di generare fascino, attrazione e partecipazione verso i nostri. E non fa neanche più paura, orrore o stupore ai nostri nemici. Che ci compatiscono. Ecco la peggior fine che poteva capitarci.
«Non riesco a scrivere senza offendere qualcuno», diceva un tale. Bella. Molto vera.
Noi, se scriviamo, scriviamo solo per offendere. Altrimenti abbiamo di meglio da fare. Anche solo andare al bar a berci un campari col bianco. Anzi, sicuramente più di uno.
«Chi vi dice che ci sta a cuore la civiltà  dell’uomo?», diceva un altro. Ecco, da qui bisogna ripartite. Dallo sparare sul quartier generale, senza lacrime per le rose.
Perché vi odiamo.
È questo il punto. Non ci sarebbe nient’altro da dire. Solo questo implacabile sentimento di vergogna, imbarazzo e disprezzo che si tramuta in repulsione violenta per quello che siete – siamo – diventati. Zecche.
Noi ci odiamo.
Il nostro non è odio mosso d’amore, come scrivete voi, ma odio mosso da odio. Ci basta vedere da una parte la vita di merda che facciamo, la serenità dei padroni, il rancore e la rabbia scaricarsi orizzontalmente o verso il basso venendo incanalata dai nazisti sulle strade; e dall’altra le inutili zecche che siete – siamo – diventati. Intellettualini di sinistra alla ricerca di una carriera accademica. Apologeti dello sconfittismo romantico. Tutori della vittimità degli oppressi. Giudici ed esecutori delle tavole del politicamente corretto, delle buone maniere, degli «spazi sicuri».
Non ci sono spazi sicuri in un mondo che brucia, neanche i ghetti in cui vi siete rinchiusi, che siano aule universitarie come centri sociali, felici di mantenere una certa distanza da una composizione sociale, deflagrata e incattivita dalla crisi, che non è come ci piacerebbe.Â
Il nostro odio viene dal dentro dei processi di cui abbiamo fatto parte, di cui rivendichiamo tutto. Bisogna sempre rivendicare tutto, a maggior ragione gli errori, gli eccessi, gli attacchi al senso comune, e rilanciare.
«Dai, state scherzando». No. Siamo pagliacci che dicono sul serio.Â
Processi, dicevamo. Soprattutto quelli penali. Ma qui, più che altro, sono quelli collettivi che ci interessano. Materiali. Visibilmente concreti. Di trasformazione, orribile, imbarazzante, del movimento ‒ come una volta si chiamava e ci chiamavamo ‒ in immota e imperturbabile stasi. Mortale.
«Dottore, non c’è più battito politico. Il sangue nuovo nelle arterie della metropoli ha smesso di circolare. Sentiamo solo noi l’odore di questo corpo collettivo in putrefazione?».
Il movimento è morto.
E allora fanculo il movimento.
Oggi l’unica cosa che muove sono i coglioni che fa girare. Ci scusino le compagne, non è nostra intenzione escluderle, ma non sappiamo esprimere il concetto altrimenti.
È ora di diventare altro. Di rompere, di esercitare una rottura, non solo all’esterno, ma anche all’interno di noi, non solo in senso collettivo. Di fare uno scarto rispetto a quello che siamo diventati quasi antropologicamente. Di mettere in crisi la piatta riproduzione di noi stessi in quanto parte delle forze del nemico che vogliamo, dobbiamo, combattere. È da questo rifiuto di accontentarsi di un placido stagno che passano le condizioni per poter tornare ad affrontare a viso aperto le tempeste.
Basta parole. Noi odiamo tutti. A partire da noi stessi. In quanto soggettività prodotte dal capitale. Ma anche in quanto zecche. È un miserabile punto di partenza. Ma è il minimo da fare. Il punto zero. Pur sempre qualcosa rispetto al confortevole, inutile, già noto.
Senza rivoluzionari non si fa la rivoluzione, si diceva una volta.
Ripartiamo da qui.
Dal ri-cominciare a sprangare la zecca che è in noi.
Comments