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«Non è (più) arte per gli spazi pubblici, ma arte che si occupa di questioni pubbliche»


La città di Atlantide
Mauro Staccioli, Anello 1997-2005, Volterra, Poggio di San Martino, immagine tratta da M.Bignardi, «La città di Atlantide. Arte ambientale tra processi di democratizzazione e ornamento urbano», meltemi, Milano, s.p

«Quale spazio occupa un luogo capace di generare una condizione pubblica?». Nell’articolo che pubblichiamo oggi, Simona La Neve parte da questa domanda per sviluppare un ragionamento complessivo sull’arte nei «decenni smarriti».

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Quale spazio occupa un luogo capace di generare una condizione pubblica? Un museo, un nucleo abitato di una città o un giardino in un pugno di mano? L’artista Claudio Massini insieme ad altri della sua generazione interessati alle tematiche del sociale, evocava un gesto poetico: i Giardini nelle mani, come il più piccolo dei rapporti utili a produrre gesti di condivisione. Se tra gli anni Sessanta e Settanta il discorso dell’arte pubblica pareva aperto, insieme a drammi e conquiste sulla tutela del paesaggio e dei centri storici – è in quegli anni che accade la tragedia del Belice e quella di Agrigento, mentre si approvano accordi come la Carta di Gubbio – sarà il ventennio successivo a determinare la vittoria della rendita urbana e la sconfitta della macchina pubblica. Così anche il Partito comunista italiano che si faceva difensore del tema pubblico nelle città, inizia a occuparsi di altro. È la corsa alla modernizzazione. E senza troppo rumore si verifica quella che Benevolo chiama «La fine della città» mentre a cavallo degli anni Novanta si affaccia un diverso interesse sulla condizione pubblica e sugli attori che possono garantirla. L’economia ha sempre fatto parte delle priorità degli spazi urbani collettivi ma è negli organismi in cui trionfa il capitalismo e il consumismo che questa diviene elemento spartiacque tra ciò che definisce un luogo funzionale e, uno meno. E questo, che è ancor più vero in occidente, accade contemporaneamente al calo delle manifestazioni d’arte nelle piazze e all'epilogo dei collettivi degli anni passati. A favore del ritorno nelle gallerie, si segnala un residuo d’interesse dei meccanismi sociali e relazionali, felice termine utilizzato da Nicolas Bourriaud. «Le utopie sociali e la speranza rivoluzionaria (degli anni Settanta) hanno lasciato il posto a micro-utopie quotidiane e a strategie mimetiche»[1] afferma il critico fondatore del termine arte relazionale, una delle maggiori tendenze artistiche più significative negli anni Novanta. D’altronde se «la vita collettiva si svolge sempre più lontana dagli spazi pubblici tradizionali»[2] perché allora l’arte interessata alle emotività umane, dovrebbe situarsi ancora nelle nostre piazze? Il fenomeno invero è più complesso di quello che sembra. In un cordoglio stretto intorno alla deregulation degli anni Ottanta e all’urbanistica neoliberista degli anni Novanta, in Italia si assisteva a un ritmo isterico. Era la frammentazione degli spazi pubblici disponibili intorno a quelli privati, utili a determinare una nuova vita sociale. La politica che doveva occuparsi di tutelare i “confini” di ciò che è pubblico, inteso per il benessere collettivo, cede alla mistificazione. Eleva a protagonista la tutela della libertà dell’individuo determinando per i Paesi il ridondante dispositivo del condono, la vendita diretta dei beni dello stato e l’espandersi delle aree commerciali. Quando una sedia viene liberata, evidentemente qualcun altro poi ne prende il posto, più o meno silenziosamente. Accanto ai grandi decisori della macchina pubblica e viceversa delle più piccole componenti sociali sul territorio, nascono perciò nuove figure professionali con nuove mansioni che trascinano con sé le dinamiche pubbliche dell’arte nel capitalismo cognitivo. Se poi da secoli i grandi monumenti nelle piazze sono utili alla necessità di prevedere sorprese, distrazioni e sequenze di eventi per il fruitore distratto di centro città, che proposta può arrivare allora dai nuovi musei e spazi espositivi sempre più dislocati ove la morfologia urbana si dirada? Nel 1995 Mapping the Terrain, un importante gruppo di saggi sull’arte pubblica, definisce nuovi modelli di coinvolgimento tra luogo e pubblico. I punti fondamentali di questo testo fanno emergere quella che negli Stati Uniti viene definita socially engaged art che più direttamente permette la discussione delle istanze oggi contemporanee. Jane Jacob in particolare interrogandosi sul ruolo del mondo non artistico (non-art-world) si chiede se «il museo d’arte potrebbe non essere il punto di partenza più appropriato per un vasto e nuovo pubblico dell’arte contemporanea»[3]. Nonostante queste teorie, si moltiplicano fondazioni d’arte e musei delocalizzati che perlopiù non sempre vedono l’alba del giorno dopo l’inaugurazione[4]. Come bolle di sapone il modello spesso è il medesimo: si dissolvono una volta raggiunto il distretto commerciale e il mercato immobiliare a cui demandare il governo del territorio. L’interesse sulla gestione dell’uso dei suoli «usa e getta» cresce poi in quegli anni vertiginosamente con l’aumento di attività temporanee legate all’arte, come la biennale nomade manifesta che prende avvio nel 1996. Di chi sono i suoli? Quest’ultima, come noto utilizza ogni volta una parte di territorio sempre differente in ogni edizione, senza porsi come generatore di proposte o di elementi strategici per il riequilibrio fra insediamento antropico e ambiente. È qui che sorge la questione cruciale. Cosa si vuol intendere per sviluppo urbano dei suoli, nella compartecipazione pubblico-privato? Inoltre, se Germano Celant proponeva a fine anni Sessanta uno sguardo severo verso un’arte urbana paragonabile a quella della «corsa ai sacchi» nelle piazze[5], la politica individua invece profitti di cui appropriarsi tramite qualsiasi forma d’arte. Temi quali l’inclusione sociale, la creative class e finanziamenti internazionali basati sulla competitività tra città e Paesi, esordiscono confusi negli anni Novanta e con quesiti irrisolti su modi, tempi e ruoli, arrivati fino a oggi. Chi sono perciò i garanti della dimensione pubblica? Difficile individuarli accanto alla chiamata a lavoro di nuovi operatori del capitalismo cognitivo, alle beghe burocratiche e alla riduzione dello spazio d’azione nel dibattito politico e accademico dell’urbanistica[6]. In quale oblio si sono nascosti i decantati atti di poesia e resistenza all’interno delle stanze istituzionali e delle università? Il compianto Alberto Magnaghi sosteneva la necessità di una nuova carta per l’urbanistica proprio mentre la vedeva crollare. La ricerca di elementi generatori di rinascita che pongano «la qualità, la cura e la poesia della sapienza ambientale» è fallita, se non per poche luminose eccezioni. L’unico confine che pare essere compito d’interesse collettivo è, come ormai noto, quello nazionalista e patriottico che comunque si genera dall’individualismo sfrenato. Mentre un diverso interesse sulla condizione pubblica e sugli attori che possono garantirla si è diffusa senza risposte, la geopolitica delle nazioni odierne ci mostra difatti la necessità di condividere questo pianeta con orgoglio collettivo, solo nella smania di una difesa del territorio. Il problema si è rotto, specchiato, invertito. La sfera conflittuale è la matrice più diffusa. Il rischio è rendere facoltativa la necessità di risolvere le dinamiche interne di un determinato territorio «sepolto vivo», per inserirlo invece in un contesto a noi più noto e in definitiva, occidentale. E così siamo eserciti, nessuno escluso, chiamati a generare posizionamenti politici per non appassire di fronte alla psicosi d’indifferenza. Anche l’arte così è chiamata a generare risposte, e non solo evocarle. È folle? Sì. D’altronde questa è la nostra era e perciò «Non è (più) arte per gli spazi pubblici, ma arte che si occupa di questioni pubbliche»[7]. Giardini che diventano periferie, città che diventano nazioni. Paesi che diventano universi.



Pesce rosso. Bagnoli
Ernesto Jannini, «Pesce rosso. Bagnoli», 1976, immagine tratta da A.Pioselli, «L'arte nello spazio urbano. L'esperienza italiana dal 1968 a oggi», Johan&Levi Editore, Milano, 2015, p.119


Ne vale la pena?
Fabrizio Rivola, «Ne vale la pena?», Milano, 1998, immagine tratta da A. Pioselli, «L'arte nello spazio urbano. L'esperienza italiana dal 1968 a oggi», Johan&Levi Editore, Milano, 2015, p.119


Animazione al rione Traiano
Riccardo Dalisi, «Animazione al rione Traiano», Napoli, 1971-1975,immagine tratta da A. Pioselli, «L'arte nello spazio urbano. L'esperienza italiana dal 1968 a oggi», Johan&Levi Editore, Milano, 2015, p.46

Les Jardins de Babel
Eric de Ville, «Les Jardins de Babel», 2019, immagine tratta da M.Bignardi, «La città di Atlantide. Arte ambientale tra processi di democratizzazione e ornamento urbano», Meltemi, Milano, s.p.



Teoria, spazzatura, animali di pezza, Cristo
Mike Kelley, Dialogo n.1 (Una citazione da «Teoria, spazzatura, animali di pezza, Cristo», 1991, immagine tratta da H.Foster, R.Krauss, Y.Bois, B.H.Buchloh, D.Joselit, «Arte dal 1900. Modernismo, antimodernismo, postmodernismo», Zanichelli, Bologna, 2016, p.751

Note [1] N. Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia Books, Milano, 1998, p.38. [2] F. Bottini, (a cura di), Spazio pubblico. Declino, difesa, riconquista, Ediesse, Roma, p.24. [3] M. J. Jacob, An Unfashionable Audience, in S. Lacy, (a cura di) Mapping the terrain: New Genre Public Art, Bay Press, Washington, 1995, cit., p.52. [4] A solo titolo esemplificativo si presenta il caso del museo oggi chiuso Museo Internazionale Arte Contemporanea Euro Mediterraneo a Castel Volturno, nella periferia di Caserta. L’edificio dedicato all'arte contemporanea si trova in prossimità del villaggio Coppola di Pinetamare, un’area tra le più note in Italia che ha visto la realizzazione di opere abusive poi condonate, seppur deturpando il paesaggio irrimediabilmente. Il museo era nato con buoni auspici e narrato come risolutore di problematiche complesse. [5] G. Celant, Arte turistica, in “Casabella”, n. 342, novembre 1969, p.7. [6] La riduzione dello spazio accademico dell’urbanistica vede proprio a metà anni novanta lo sgretolarsi di fondi e finanziamenti. Cfr. C. Venuti, F. Oliva (a cura di), Città senza cultura. Intervista sull’urbanistica, Laterza, Bari, 2010. [7] C. Bishop, Artificial Hells. Participatory Art and the Politics of Spectatorship, Verso Books, New York, 2012, p.54.


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Simona La Neve (1985), art researcher e docente, dopo studi in architettura si specializza alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano con una tesi conservata oggi all’archivio del Mart di Trento e Rovereto. Ha svolto ricerche e progetti curatoriali anche in ambito istituzionale (Inu, Roma; Politecnico, Milano; Bocsart, Cosenza). Si occupa oggi principalmente di scrittura come pratica artistica di resistenza empirica, endogena ed esogena. È suo tra altri, il saggio per i cinquant’anni di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini («il manifesto», 19 maggio 2021).


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