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Niente come prima



Una recensione di Gli autonomi. Vol. IX. I «padovani». Dagli anni Ottanta al G 8 2001, di G. De Pieri, P. Despali, M. Gallob, V. Mazza, a cura di Mimmo Sersante, pubblicato da DeriveApprodi.


Immagine: Andrea Salvino, Ricominciare da capo non significa tornare indietro, 2002


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Così suona il titolo di una delle parti che chiudono il libro di G. De Pieri, P. Despali, M. Gallob, V. Mazza, a cura di Mimmo Sersante, Gli autonomi. Vol. IX. I «padovani». Dagli anni Ottanta al G 8 2001. E la parte che si riferisce al racconto dei fatti connessi alla manifestazione di Genova 2001, segna la linea di confine tra gli anni Ottanta-Novanta e il nuovo millennio. In questo caso i numeri sono quanto mai significativi, perché indicano una soglia, un passaggio: «Neanche tre mesi dopo le giornate di Genova la guerra plasma gli scenari del mondo. Le giornate di Genova sono a cavallo, nel mezzo del passaggio a un nuovo millennio. Qualcosa che apparteneva al Novecento ma al tempo stesso era parte del nuovo secolo, anzi del nuovo millennio» (Mazza, p. 137). Virata marcata anche figurativamente dal fumetto di Claudio Calia, che anche lui racconta la sua storia fino ai fatti di Genova, interrompendo il flusso dei racconti degli anni Ottanta-Novanta. In pochi quadri schizza la sua storia e conclude, dopo Genova, con la scritta bianca sul profilo nero delle torri gemelle in fiamme: «… stavamo vivendo solo le prime avvisaglie di un mondo che da lì a due mesi sarebbe cambiato per sempre» (p. 120).

Continuità, discontinuità. È una – forse quella decisiva – delle chiavi di lettura del libro, una contraddizione che lo attraversa, vissuta, rappresentata e raccontata in prima persona da Despali, ma senza intenzione dialettica: «Non ho tentato l’impossibile per portare a sintesi l’inconciliabile, piuttosto ho cercato di tenere aperta la contraddizione, convinto che fosse necessario tenere sotto controllo la mia mai sopita nostalgia, facendo i conti col mio passato» (Despali, p. 140). Il risultato è l’assenza della pretesa di voler risolvere il presente nel passato, e l’allontanamento della presunzione di poter istruire le generazioni a venire «con troppi e inutili ricordi», anche se la tentazione non è negata – «… forse una lezione di memoria non avrebbe guastato» (ivi). La complessità dell’accadere degli eventi, con le sue fratture, regressioni, deviazioni, anticipazioni non viene appiattita in un racconto monologico. Voci di soggetti diversi, di provenienza, inclinazioni, aspettative differenti si alternano in una continua intersezione di piani: le informazioni sulle proprie origini e il proprio percorso esistenziale si intrecciano con analisi e valutazioni politiche, con aspettative e progetti politici. E sensazioni, e sentimenti. Già Aristotele era interessato «agli stati mentali – alle condizioni di spirito che presiedono ai conflitti»; il che significa muoversi in una logica in cui «le piccole cause possono valere le grandi e in cui la percezione dell’ingiustizia precede nell’ordine delle ragioni la determinazione quantitativa dell’eguaglianza»; si cerca così di evitare «le griglie interpretative unidimensionali» [1] nella storia; e dare spazio agli affetti nel senso ampio di Spinoza: «Ho sempre nutrito una profonda insofferenza per l’ingiustizia» (De Pieri, p. 96).E in senso stretto. Come l’amicizia: «Vilma, per me non una compagna, l’amica vera» (Despali, p. 141). Un tema ricorrente, che lo storico di solito non considera, perché non illumina sul senso della storia, ma dà il sapore caldo della vita. Come se tutti sperimentassero, in una sorta di premessa che mette in moto e affianca la pratica politica, la «pericolosità» dell’amicizia, il fatto che è una scelta che si fonda sulla possibilità della revoca: «non è più forte dei ruoli, però costituisce legame al punto tale da potere scardinare i ruoli, se uno volesse»; è questo il suo potenziale sovversivo, «il suo essere qualcosa d’inafferrabile che però si contrappone al costituito e può infrangerlo e farlo saltare» [2]. Affine, e la prepara, è la simpatia: «un fatto di pelle più che di testa» (Gallob, p. 87). Si cercherebbe invano una traccia di tutto questo nei documenti in base ai quali si costruisce la «storia».

È merito del lavoro di Mimmo Sersante aver tentato di restituirci nella scrittura questi aspetti, non solo la pluralità delle voci ma anche l’«intonazione», poiché la parola «non solo denota un oggetto come qualcosa di presente ma… esprime anche il mio rapporto valutativo rispetto all’oggetto – ciò che in esso vi è di desiderabile e di non desiderabile»; non è soltanto un punto di vista, «ma un punto di vista valutante» [3].

Tuttavia, nessuna pretesa di totalità e linearità nelle vicende. «Vediamo solamente ciò che guardiamo. Guardare è un atto di scelta. Il risultato di tale atto è che quanto vediamo si pone alla nostra portata» [4]. Per questo gli eventi sono descritti secondo una «angolazione fortemente soggettiva» (Despali, p. 8), intenzione apertamente proclamata e rivendicata senza esitazioni. Trasformarsi in testimoni-storici permette di far entrare in una dimensione differente, un’atmosfera, una passione, una forma di autenticità che lo storico «oggettivo» distaccato dagli avvenimenti non può né provare né ricostruire veramente. Non a caso i racconti sono punteggiati di incontri, il cui carattere spesso casuale e imprevedibile è tuttavia capace di imprimere svolte determinanti nel proprio percorso politico ed esistenziale – «Comunque sia, eccomi davanti all’entrata e chi vi trovo? La Vilma» (Gallob, p. 85).

Certo, questo comporta rischi: nella costruzione e ricostruzione dei fatti, nella valutazione-sopravvalutazione del vissuto individuale, nella generalizzazione della propria esperienza, nella riorganizzazione del senso dei fatti e la sua gerarchizzazione in funzione del proprio vissuto. «A distanza di anni …» (Mazza, p. 40), la memoria a posteriori è influenzata da quello che chi racconta ha sentito, saputo, compreso dopo i fatti. Da un lato vale sempre l’idea secondo la quale «articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”» [5]; dall’altro nell’illusione di rappresentarli in termini di narrazione, come elementi di un costrutto narrativo non dissimile dalla fiction.

Lo sguardo produce verità parziali, nel duplice senso di limitate, non pretendono alla «totalità», e di parte, partigiane, situate. Il punto di vista è esplicitamente dichiarato. E però non per questo meno verità: «la» verità è proprio la composizione di queste verità di parte, eventualmente anche contraddittorie, perché restituiscono le movenze degli agenti reali nei contesti in cui operano. Non il «senso» della storia, una direzione, un progresso o sviluppo, visto da un unico improbabile occhio di Dio, ma la costruzione del senso degli avvenimenti da parte di un occhio particolare, singolare, da una pluralità di occhi singolari. Non c’è una verità storica, né molte verità nella storia, ma diverse letture vere degli avvenimenti in funzione delle questioni poste e la lettura differente delle fonti. Il fatto conosciuto a partire dall’archivio scritto è immutabile, mentre variano la lettura che se ne fa, l’interpretazione, le questioni che si pongono per arrivare a costruire l’oggetto storico. Questo abitua anche alla pluralità dei racconti riguardanti gli stessi avvenimenti e alla possibilità di «raccontare altrimenti» [6].

Non si ricerca la verità con la V maiuscola, ma la verità del soggetto in quel momento, in quelle circostanze, poiché il soggetto è inconcepibile se sradicato dal proprio contesto e dalle relazioni che lo circondano.

È stato affermato, a ragione, che «filosofia – letteratura o qualunque altra cosa – ha un qualche valore per me solo nella misura in cui costituisce una decisione sulla vita, solo nella misura in cui voglio e sono in grado di interrogarla riguardo alla direzione della mia vita» [7].

La direzione della mia vita. Precisamente. È ciò che è implicato in tutta la storia – anzi, le storie raccontate nel libro. È una specie di basso continuo che regge tutto il racconto. Così, una situazione estrema, come la latitanza, non rappresenta un semplice caso particolare di una situazione generale, ma è «una situazione che vale solamente per te»; il problema è allora «come l’affronti, perché devi affrontarla», si impone il problema della scelta, «scegliendo, sia pure sotto il segno del rischio della rovina» (Despali, p. 20-1). Scelte come queste si presentano di tanto in tanto anche in altre situazioni, e comportano «una diversa modalità di vita»; e tuttavia si tratta sempre del «mio vissuto di comunista» (Despali, p. 49-50), l’intersezione con la visione e la pratica politica è sempre operante.

Nello scorrere degli anni, i racconti ci restituiscono i cambiamenti di scenario, punteggiati da avvenimenti che segnano momenti nevralgici che caratterizzano interi periodi. Dalla repressione ci si muove verso nuovi assetti e relazioni di potere, che si affermano man mano che la ristrutturazione post-fordista aggredisce tutto l’ambito sociale, mentre sul piano internazionale si profilano scenari di guerra infinita. In questi mutamenti nuovi soggetti si affacciano nelle strade, il cui carattere si rivela già nei riferimenti culturali: Afterhours, Assalti frontali, Subsonica, Meganoidi, 99 Posse, tutti gruppi musicali alternativi: «La programmazione musicale, che è l’anima di ogni centro sociale in quanto produttrice di aggregazione e socialità, era pienissima» (Gallob, p. 89); e romanzi, e i film delle transgender Wachowski, piuttosto che Adorno, Gorz, Bateson, e tutti i nomi sacri del marxismo. Grande attenzione viene data alla centralità del linguaggio, alla «produzione di linguaggio a mezzo di linguaggio – sta esplodendo Internet « (De Pieri, p.102) –, e al potere simbolico delle azioni di piazza. Ne deriva un’altra idea e pratica della militanza, non più concepita in senso classico, legata all’idea di progetto di medio-lungo periodo e di organizzazione; quello che conta, per soggetti a cui mancavano «sia l’organizzazione che la memoria storica», è il qui e ora dell’azione diretta, una combinazione di conflitto e consenso, in cui il consenso non era da parte di «una generica totalità astratta, l’opinione pubblica, le masse, ma da chi era al tuo fianco in quella specifica lotta» (Gallob, p. 92).

Arriviamo così alla fine dei racconti: storie incarnate e situate, in cui si delineano scenari diversi, pratiche di lotta diverse, soggetti diversi e percorsi di vita diversi. Niente è come prima.

Che dire ancora? Un libro da leggere.


Note [1] N. Loraux, La tragédie d’Athènes. La politique entre l’ombre et l’utopie, Éditions du Seuil, Paris 2005, p. 38. [2] F. La Cecla, Essere amici, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino 2019, p. 8. [3] M. M. Bachtin, Per una filosofia dell’azione responsabile, Piero Manni, Lecce 1998, p. 46. [4] J. Berger, Questione di sguardi. Sette inviti al vedere tra storia dell’arte e quotidianità, il Saggiatore, Milano 2015, p. 10. [5] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Giulio Einaudi editore, Torino 1962, p. 74. [6] P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, il Mulino, Bologna 2004, p. 90. [7] C. Casarino & A. Negri, In Praise of the Common. A Conversation on Philosophy and Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 2008, p. 186.

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