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Narrazioni sulle vicende della rivista DeriveApprodi

a cura di Sergio Bianchi



All’inizio del 1992, tra vecchi e giovani compagni sparsi per l’Italia, si discuteva delle necessità di tentare il riavvio di un percorso di riflessione critica dopo la terribile stagione della desertificazione mentale del decennio Ottanta. A tal fine si riteneva che lo strumento principe fosse ancora quello della «rivista politica». Il testo di Primo Moroni che segue ha contribuito alla fondazione della rivista «DeriveApprodi», il cui numero zero fu pubblicato nel luglio del 1992 con in copertina la frase: «È possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente». A questo testo fa seguito l’editoriale del numero 0 di DeriveApprodi dal titolo omologazioni resistenze esodi, che non reca firma perché frutto di una discussione collettiva. Vent’anni dopo la nascita della rivista, alcuni di coloro che contribuirono ad animarla scrissero di quella loro esperienza. Ne diamo conto di seguito all’editoriale con testi di: Massimo Kunstler, Mauro Trotta, Rossana De Simone, Franco Berardi Bifo, Pino Tripodi, Lanfranco Caminiti, Sergio Bianchi. Questi testi compaiono anche in: Sergio Bianchi, Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo, Milieu, Milano 2016.


Immagine: Massimo Kunstler, 1992


* * *


Una rivista è uno spazio comune dove si riconoscono delle intelligenze unite nella differenza

Primo Moroni


Si intende partire dal dato reale che considera il 1990 come massimo zenith relativo dei processi di innovazione e modernizzazione che hanno interessato il paese Italia.

I caratteri di mondializzazione delle economie occidentali hanno costretto le forze produttive locali a un processo estremamente accelerato di trasformazioni radicali che hanno sconvolto sopratutto l’universo dei «lavori» con effetti visibili e rilevanti nella sfera del sociale e – per ora – non del tutto avvertiti nella sfera culturale.

L’impatto delle nuove tecnologie ha disegnato uno scenario di «innovazione autodistruttiva» che assume sempre più frequentemente i contorni di una metafora di «fine d’epoca». La rapida «decostruzione» della città fordista trasforma la metropoli nel luogo critico del moderno costringendo uomini e donne a continue risposte affermative o negative. Tutto ciò che sembrava solido e convincente si dissolve in continuazione trasformandosi nel suo contrario. L’infinita avventura del presente genera omologazione o – al contrario e insieme – angoscia, inquietudine come forma dell’intelligenza nel moderno.

Nello spazio vuoto della perdita di riferimenti, di bisogni post-acquisitivi, il diritto alla felicità viene surrogato dalla «merce eccellente» eroina. La forza innovativa delle trasformazioni materiali si trasforma in geroglifico sociale, diventa linguaggio. I suffissi post (post-moderno, post-industriale ecc.) sono segni vuoti che occultano i processi reali, il «pensiero debole» l’ideologia che legittima il quadro generale.

Città dell’eccellenza, città delle regole, città neofondamentalista, città di frontiera, convivono negli spazi della decostruzione. Simulazione e falsificazione, vero o falso, visibile e invisibile possono assumere valenze opposte e rovesciate.

Dentro questo universo di segni e significati non esistono nicchie di serenità che non siano – ancor più e in quanto tali – minacciate da eventi rovinosi. L’unica possibilità che individuiamo risiede nell’accettare l’avventura del moderno collocandosi nelle linee (border-line) della frontiera. Marginalità come scelta cosciente – qui e ora – progetto esistenziale che generi culture e nuove intelligenze del mondo nell’epoca della produzione immateriale.

Una rivista che da sismografo delle «mutazioni» in corso aspiri a divenire sguardo freddo, ironico e partecipato dei processi reali che non sono mai – particolarmente ora – ne positivi, né negativi, ma appunto processi. Una rivista che si inserisca – come parte del mosaico – in quel vasto anche se minoritario e di esordio, movimento di «marginalità colta» in formazione nelle metropoli europee e americane.

Per la prima volta nella storia dell’uomo il nucleo centrale della produzione viene spostato dal corpo alla mente con effetti straordinari sulla vita e l’immaginario collettivi. A fianco dei processi di liberazione dei corpi (ingegneria genetica, body-building, steroidi, transessualità ecc.) non più indispensabili all’igienismo taylor-fordista, si sviluppano nuovi territori di schiavitù o libertà che hanno come obiettivo la mente. La produzione di saperi come «merce di eccellenza direttamente produttiva» domina strategicamente il quadro dei nuovi poteri tecno-imprenditoriali.

La scienza – vissuta spesso come dato cieco – abbatte tutti i confini tradizionali della produzione intellettuale: arte e tecnologia, parola scritta e immagine, pensiero umanistico o scientifico non sono più coppie separabili e distinte, ma l’uno sfuma nell’altro e viceversa sconvolgendo la vis-immaginativa e l’universo esistenziale dei soggetti sociali. In questo ultimo decennio intere sezioni di culture sociali, politiche, artistiche sono state spazzate via dai processi alti di modernizzazione. Ciò ha innescato contemporaneamente risposte omologanti e rifiuti nichilistici.

Oggi pensiamo che sia in fase di completamento quel segmento di tempo storicamente e socialmente utile ai soggetti per metabolizzare la comprensione dei processi reali. Cogliere la vitalità di queste intelligenze in formazione è l’obiettivo ambizioso e senza soverchie illusioni di questa rivista.

Con l’intenzione di diluire queste prime ipotesi sicuramente espresse in forma fredda e necessariamente schematica, si possono indicare alcuni possibili percorsi.

È possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli europee stia emergendo una nuova percezione del presente?


– l’intelligenza tecnico-scientifica dei «grunen» tedeschi?

– la sottocultura metropolitana che si trasforma in «cultura altra» dei processi di produzione immateriale?

– la frantumazione delle rappresentanze politiche come espressione dell’incapacità di governare i processi reali?

– lo sviluppo apparentemente «infinito» del progresso tecnico-scientifico che si sofferma a riflettere su se stesso per non aver contemplato nel piano l’elemento umano?

– l’economia criminale come elemento storicamente necessario al ciclo di accumulazione ovvero il paradosso della sfera delle leggi?

– la possibilità di leggere la città attraverso i labirinti successivi?

– è possibile cioè attingere dal passato per inventare il futuro. Un passato e un futuro che convivano con il moderno?

– il sostanziale passaggio del controllo dal corpo alla mente apre spazi di libertà o terribili ipotesi di controllo globale dove il media manipolatorio assume la fisionomia del «grande fratello»?

– nelle fasi di transizione si genera la paura prodotta dal vuoto e dal vissuto di perdita delle acquisite culture precedenti. In questo vuoto si inserisce frequentemente l’artista diventando il sismografo delle mutazioni in atto. Chi sono oggi coloro che si muovono in questa direzione?

– Nelle fasi di «frattura» dello sviluppo del moderno esistono solo i processi alti e la loro ricaduta nella sfera dell’esclusione. In mezzo ci sono i «coni d’ombra» della «classe della maggioranza». Vi sono risorse in quei «coni d’ombra»?

La «marginalità colta» è l'unica scelta possibile per interagire coscientemente con lo scenario generale?

Una rivista è uno spazio comune dove si riconoscono delle intelligenze unite nella differenza. La sua ricchezza è lo squilibrio delle esperienze e delle intelligenze soggettive. Queste riflessioni e note sparse possono quindi – come è ovvio – essere diluite, frantumate e ricomposte dal confronto soggettivo.



omologazioni resistenze esodi


I testi che compongono questo fascicolo non sottendono alcun intento costitutivo di un qualche «organico» progetto di ricerca culturale e politica alternativa, anche se siamo convinti che di qualcosa di simile si avverte sempre di più un diffuso bisogno. Qui si tratta piuttosto di qualcosa di molto più semplice e modesto: un punto di incontro di alcune derive esistenziali e di alcuni percorsi di ricerca, un contributo affinché nuove scoperte maturino, altre avventure comincino.

Crediamo che i temi qui trattati, anche se talvolta in forme contraddittorie e confuse, siano comunque importanti e vadano perciò, per quanto possibile, divulgati. Gli interventi che abbiamo raccolto provengono da un’area riconoscibile ma largamente differenziata. In queste pagine la memoria dell’epoca delle rivolte egualitarie non è perduta, ma neppure feticizzata, perché quello che oggi più ci interessa è gettare uno sguardo su quei panorami apparentemente emergenti oltre la densa cortina di banalità che soffoca le intelligenze in questa lenta lunga agonia della modernità.

In queste pagine non trovano invece alcun spazio i reiterati psicodrammi altrove messi copiosamente in scena da dirigenti e intellettuali di quel «glorioso popolo comunista» reso orfano dalla dissoluzione dei regimi totalitari dell’est europeo. Radicalmente altra è la cultura a cui si fa qui riferimento, una cultura nata proprio dallo schieramento, in tempi non sospetti, contro quegli stessi regimi la cui dissoluzione rappresenta semmai la fine tardiva di un equivoco.

Del panorama culturale italiano non ci sembra ci sia molto da dire: ai laceranti tentativi di elaborazione del lutto da parte dell’intellettualità ex e neo «comunista» fa da contraltare la continuità della chiacchiera insulsa di quell’intellettualità cortigiana nonché mediocre e volgare che, mossa dalle pulsioni della modernizzazione galoppante, negli ultimi dieci anni ha servito con zelo gli interessi del potere d’impresa, somma di tutti gli altri poteri. Immediatamente al seguito di queste due polarità corre con fiato affannoso la marea della piccola intellettualità questuante presso il ceto politico istituzionale: «un popolo di aspiranti al contributo, di subalterni che sgomitano per accaparrarsi le briciole di elargizione lasciate dalle grandi lobby, quelle che succhiano senza pietà le infinite mammelle dellìente pubblico» (Sergio Bologna, Sulla necessità di creare un polo culturale, inedito). Interloquire in questo panorama né ci piace né ci interessa. D’altronde la cultura dell’aggressività e della competizione al comando nel decennio passato scricchiola vistosamente, seminando il panico nel corteo di quegli squali finanziari, padroni di ferriere televisive, mafiosi e narcotrafficanti di vario genere, che si sono accompagnati in lucrosi affari con buona parte del ceto politico istituzionale. Per quel che ci riguarda non nascondiamo la speranza che la falla si allarghi e che questo funereo barcone affondi con tutto il suo infame carico e la sua ancor più infame ciurma e sotto ciurma comprensiva di lacchè, portaborse, sarti, presentatori televisivi e sedicenti artisti comunque prezzolati. Amen.

Alzato lo sguardo oltre questa immediata linea di orizzonte ci si scontra con l’orrida realtà di popoli che ormai quotidianamente si macellano in nome di un’appartenenza etnica, di un fondamentalismo religioso o ideologico. Mentre frotte di incoscienti imbecilli si ostinano a definire queste carneficine «lotte di liberazione nazionale» condotte in nome dell’«autodeterminazione dei popoli», produttori e trafficanti riforniscono di armi agguerrite schiere neonaziste di mezza Europa. E a est la fioritura di nuovi Stati «indipendenti» comporta, ben al di là delle fascinazioni per il libero mercato, una proliferazione nucleare difficilmente controllabile. Il tutto sovradeterminato da quanto va configurandosi sotto il nome di «Nuovo Ordine Mondiale».

Piaccia o no, questi, e altri non meno preoccupanti, sono gli scenari con cui un pensiero critico e alternativo deve fare i conti, e nel cominciare a farli crediamo valga il metodo del pensare innanzitutto in maniera libera da ogni compromesso con quegli stessi poteri che hanno concorso a determinare una situazione planetaria di cui non è avventato prefigurare un collasso. Pensare in libertà, dunque, cominciando col porsi delle domande che siano all’altezza della portata delle trasformazioni attivate dalla fine del bipolarismo e dalla terza rivoluzione industriale, avendo a riferimento l’ipotesi che l’intelligenza creativa, la forza produttiva tecnico-scientifica dispiegata nel sociale dà segni sempre più evidenti di insofferenza verso la sua unica finalizzazione economica, verso qualsivoglia gerarchia politica e forma di organizzazione statuale. Da qui l’inizio delle domande e il percorso tutto in salita che può portare alla costruzione di un'alternativa.



Ma con quel coso lì che robe si possono fare?

Massimo Kunstler


Mi vedevo spesso con Sergio, abitavamo talmente vicino che a piedi ci voleva un minuto. Avevo già sentito parlare di lui, ma ci siamo incontrati solo per caso verso la fine degli anni ’80. Sergio condivideva un appartamento con dei miei carissimi amici a Roma. Era il tipo di persona che mancava da tanto nel mio allora esagerato giro di conoscenze, fatto di esagerate frequentazioni e pochi veri amici. Dopo oltre un decennio avevo ritrovato qualcuno con cui poter comunicare, ed essere accettato, per il visionario che ero, al di fuori dei canoni dell’allora imperante edonismo reaganiano, detto tanto per intenderci.

Avevo trovato un compagno di merende – forse più di apertivi e cucina. Si parlava con il buon Sergio. Parlavamo in continuazione. Non di ricordi e vecchi tempi, ma di cosa fare. Ora. Passava spesso a trovarmi a fine giornata. A volte mi trovava ancora affaccendato sul mio Mac. Guardava, annusava, pensava. Poi, stappata una bottiglia di buon vino, si decideva il menu della serata e si cominciava a parlare mentre si cucinava. Nel corso del tempo, a tante merende, aperitivi, cene e ottime bottiglie di rosso – quasi sempre rosso, perché le cene erano belle corpose – e tantissime parole, chiacchiere e conversazioni seguirono altrettante merende, aperitivi e cene con parole, chiacchiere e conversazioni, ma vini anche bianchi. Intanto il Bianchi (Sergio) continuava a guardare il mio Mac, annusando e pensando. Fino a quando, una sera, smette di guardare il Mac e guarda me… Ascolta… – dice – ma con quel coso lì che robe si possono fare? Avevo già capito tutto da un bel po’, sapevo dove andava a parare. Di lì a poco uscì il numero zero di DeriveApprodi, della cui veste grafica, Sergio e il sottoscritto, siamo certamente gli unici irresponsabili.


Una rivista di «vela»


È possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente». Queste parole erano scritte sulla copertina del numero Zero della rivista «DeriveApprodi». Era il 1992 e in effetti stavano accadendo tante cose. In Italia crollava la Prima Repubblica e un movimento di lotta si affermava di nuovo nelle università con la Pantera. Fuori, era caduto il Muro di Berlino e, con esso, il cosiddetto «socialismo reale», iniziavano le guerre in Jugoslavia, c’era stata la prima guerra in Iraq, si discettava sul Nuovo Ordine Mondiale che si andava formando. C’era qualcuno che addirittura teorizzava la fine della Storia. E poi, erano finiti gli anni Ottanta, «gli anni di merda» come li definì Nanni Balestrini in una poesia letta in occasione della prima presentazione della rivista e pubblicata sul numero 1. «DeriveApprodi» è nata allora da un incontro: qualche tempo prima avevo conosciuto Sergio Bianchi che si era appena trasferito a Roma. Ci trovammo subito in sintonia, diventando amici veri, fratelli praticamente. Insieme entrammo a far parte di «Luogo comune», una splendida rivista, realizzata da un gruppo redazionale molto coeso, capace davvero di gettare uno sguardo lucido e critico sugli argomenti e i temi trattati. Ci si riuniva per discutere del numero in cantiere, tutti leggevano ogni contributo, ogni articolo, si decideva collettivamente. Tutto questo, però, aveva un prezzo: la periodicità. Non si riusciva a uscire in libreria con scadenze più o meno regolari. Con Sergio pensammo di metter su qualcosa di diverso. Una rivista di pensiero critico che però non nascesse dal lavoro di una redazione strutturata, ma rappresentasse, come scrivemmo nel primo editoriale «un punto di incontro di alcune derive esistenziali e di alcuni percorsi di ricerca, un contributo affinché nuove scoperte maturino, altre avventure comincino». Una rivista aperta a contributi differenti, di cui saremmo stati responsabili Sergio e io. Una rivista naturalmente autoprodotta – grazie agli abbonamenti preventivi che sottoscrissero parenti e amici e grazie al grande aiuto in questo senso, e non solo, dei compagni di Tradate – che sarebbe uscita tre quattro volte all’anno. Con un altro amico e compagno, che ora purtroppo non c’è più, Paolo Minervini, eravamo i proprietari della testata. Iniziò così il percorso di «DeriveApprodi», che vide coinvolti già nella preparazione del numero 0 tanti amici e compagni. Da Nanni Balestrini, che ci aiutò anche a correggere le bozze di quel numero, a Bifo, da Primo Moroni ai compagni di «Luogo Comune» (Paolo Virno, Giorgio Agamben, Lucio Castellano, Benedetto Vecchi, Lanfranco Caminiti, Andrea Colombo, Marco Bascetta ecc.), a molti altri ancora. Discutemmo del nostro progetto, ricevemmo aiuti, suggerimenti, contributi. Il progetto iniziava a prendere forma. Sergio, che trovò anche il nome DeriveApprodi, e io individuammo i temi generali di cui si sarebbe dovuta occupare la rivista: le trasformazioni nella struttura stessa del lavoro, l’emergere di nuovi soggetti legati alla produzione immateriale, crisi della sovranità e della rappresentanza, la centralità della comunicazione e dell’informazione. Volevamo che anche l’aspetto grafico di «DeriveApprodi» fosse fortemente innovativo e, da questo punto di vista, fu decisivo il contributo di un formidabile grafico che si unì all’impresa: Massimo Kunstler, il quale disegnò la testata, creò le gabbie, realizzò le copertine, insieme a noi (in genere di notte) impaginò la rivista. Trovammo poi la tipografia grazie a Giorgino Boldrin, il distributore (Joo) e un amico giornalista che assumesse la direzione, Antonello Grassi. Così, vent’anni fa partiva l’avventura di «DeriveApprodi», che nel corso degli anni avrebbe vissuto cambiamenti e trasformazioni, sarebbe diventata casa editrice, avrebbe coinvolto tanti altri, a iniziare da Ilaria Bussoni, vera colonna portante sia della rivista (fin quando è uscita) sia della casa editrice. E oggi quella rivista, che fu scambiata da un libraio a cui portai delle copie per un giornale di vela, celebra il ventennale. E il fatto strano è che gran parte dei testi pubblicati nei suoi venticinque numeri mi sembrano ancora attuali. Così come quella frase stampata sulla copertina del numero Zero. Forse, ancora una volta «è possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente». Instabile/possibile


Alla fine degli anni Ottanta Varese aveva seppellito un ciclo storico iniziato con l’insurrezione delle classi operaie provocate dall’avvento del fascismo, «la città giardino», che Benito Mussolini aveva elevato a capoluogo di provincia con l’ambizione di «italianizzare» il Canton Ticino, era passata dal fascismo al razzismo della Lega. «Abbasso lo Stato e viva l’individuo sociale e il privato» gridava Bossi, tutto poteva essere usato come grimaldello per scardinare il sistema, bisognava legittimarsi e delegittimare perché solo «quando tutti i meccanismi saranno sfasati si dovranno prendere decisioni» avvertiva Miglio. Varese è una città che aveva visto uccidere focolai di socializzazione sovversiva e una volta rimasta senza più un residuo di socialità urbana era tornata a cullarsi nella cultura del narcisismo. Una cultura che pensava di trovare le sue radici nell’ordine della sua piazza principale, piazza Monte Grappa, dove l’architettura fascista ha lasciato un fortissimo segno. Gli anni Novanta cominciavano qui come altrove con lo spazio pubblico interamente occupato dagli organi dei media e della comunicazione, capaci di penetrare stati d’animo che riflettevano l’esaltazione dell’individualismo e della proprietà privata con la diffusione di micro-imprese decentrate dalle medie e grandi fabbriche. È in questo periodo di fuga dell’individuo dal sociale e di disillusioni collettive, che eventi come il crollo del Muro di Berlino, piazza Tien An Men in Cina e il movimento della Pantera nelle università italiane, facevano presupporre che si poteva e doveva voltare pagina, ed è in questa atmosfera che la rivista «DeriveApprodi» mi arriva fra le mani. Un incontro felice non solo perché come si leggeva nella copertina del numero zero era «possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente», ma perché il tempo tornava a suscitare emozioni, la voglia di nuove relazioni affettive e, prima ancora che un sentire comune, un agire comune, rispondeva alla necessità di intercettare nuovi linguaggi che incorporavano l’aspetto immateriale della produzione. Da questo punto di vista «DeriveApprodi» dava voce a interpretazioni diverse provenienti dal corpo sociale produttivo che sperimentava e alimentava l’economia della conoscenza attraverso dinamiche centrifughe e centripete, movimentando il territorio urbano non come ferraglia pensante ma come insubordinati capaci di una autonoma produzione del comune. Elementi chiave di un nuovo progetto costituente non potevano che essere gli intellettuali francesi Deleuze-Guattari. Foucault da coniugare con il pensiero post-coloniale e la riscoperta di Frantz Fanon. Ma poi come non riconoscere che solo il partire da sé del pensiero femminista potesse captare i mutamenti nella percezione del corpo, la sua indisponibilità all’identità unitaria, i tentativi di assoggettamento da parte delle relazioni di potere? Non ancora risolto il problema del rapporto capitale-lavoro e/o capitale-vita risultato della finanziarizzazione dell’economia, che già le frontiere indebolite dallo sgretolamento degli Stati, imponevano l’argomento dello spettacolo mediatico del naufragio, delle migrazioni vissute troppo spesso come avvelenamento di una convivenza sociale già distrutta dalla frammentazione. Viceversa era necessario ci fosse un approdo al naufragio possibile di tutti poiché è la vita di ognuno a rischio di instabilità. Quell’instabilità che provocava le rivolte nei quartieri urbani di grandi metropoli, espresse con violenza da giovani che si rifiutavano di riprodurre il modello di genitori supersfruttati e maltrattati, rivolte che poco si conciliavano con quelle degli intermittenti precari, dell’intellettualità collettiva esposta come altre alla crisi di un sistema in via di decomposizione. Sarà la nuova guerra al terrorismo a svelare la simbiosi tra multinazionali e politici statunitensi, a far emergere i retroscena della deregulation e del sistema dei fondi pensione di quella «nuova economia» degli anni Novanta che si era presentata come la più democratica ma che aveva preso in ostaggio i lavoratori e le loro pensioni. Quando il potere diviene immateriale la rete, sistema nervoso attraverso il quale circola l’informazione, diventa modello organizzativo, ma quando la capacità di dissuasione del potere, e il modello di diplomazia coercitiva mostra la sua inefficacia, arriva il ricorso della forza come accaduto in Iraq o a Genova. I numeri della rivista sui movimenti d’Europa e negli Stati Uniti, Canada e Australia sono piccoli capolavori. Freddi, forse un po’ troppo fitti, ma esuberanti. Quell’esuberanza che si stempera nella malinconia dell’ultimo numero, quello della fine. La malinconia è una passione che rimane costantemente incostante, creatrice perché capace di trasformarsi, di divenire altro. Il tempo, è certo, ha subito una accelerazione. Personalmente ho salutato con simpatia e un sospiro di sollievo la svolta effettuata dalla casa editrice che aveva deciso, più o meno con l’accordo da parte di tutti coloro che la arricchivano, di cessare l’uscita periodica della rivista. Un diverso approccio ai movimenti era cominciato, più riflessivo, di ricongiunzione della memoria che solo i libri possono offrire, senza dimenticare che il tempo, appunto, impone nuove sfide. Ben scavato vecchia talpa!

Franco Berardi (Bifo)


Cominciammo a pubblicare questa rivista all’inizio degli anni Novanta per riprendere il filo di una ricerca che nel decennio precedente si era ingarbugliato e perso nelle carceri speciali in cui il potere aveva rinchiuso centinaia di intellettuali. Volevamo riprendere il filo della ricerca autonoma: autonomia della società dal capitale, autonomia del sapere dalla legge del profitto, autonomia della mente e del cuore dall’economia. Gli anni Novanta sono stati un decennio di straordinaria intensità. Crollato il regime statalista autoritario che aveva abusato del nome di comunismo, l’evoluzione del capitalismo conobbe una svolta straordinaria, che prese nome di globalizzazione. L’intelligenza tecno scientifica, sposata alla creatività e sospinta da intensi flussi di capitale dedicati alla ricerca, dispiegò le tecnologie di teletrasmissione simultanea dell’informazione digitale. Questo rese possibile una nuova forma di sfruttamento deterritorializzato del lavoro, e permise di allargare enormemente il mercato del lavoro, togliendo forza di contrattazione al lavoro operaio occidentale. Un arricchimento straordinario e un impoverimento senza precedenti furono resi possibili, nel tempo, da questa nuova condizione. La conoscenza ampliata senza più limiti spaziali, da una parte. Il lavoro precarizzato, frammentato, ridotto in servitù, dall’altra parte. Il pensiero sociale si trovò di fronte a una situazione difficile da interpretare secondo le categorie ereditate dal ventesimo secolo. Occorreva qualcuno che cercasse di collocarsi a questo livello. DeriveApprodi nacque per provarci. Rifiutammo di farci nostalgici difensori della composizione sociale del passato, e delle sue forme di identità e di ideologia. Rifiutammo la nostalgia del comunismo storico. Ma nel far questo ci guardammo bene dal credere nelle illusioni della new economy, che prometteva un’espansione infinta sul piano economico e una nuova felicità nella competizione generalizzata. Cominciammo a studiare le forme emergenti della precarietà e del lavoro cognitivo in rete. Cercammo di affrontare la questione migrante dal punto di vista delle culture post-coloniali e dal punto di vista della composizione del lavoro. La rivista ebbe fin dall’inizio un pubblico per lo più giovane, intelligente, smaliziato. Il pubblico che veniva fuori dal movimento della Pantera, che nel 1990 aveva posto con chiarezza preveggente il problema dell’autonomia della ricerca, e aveva individuato la tendenza pericolosa della politica (di destra e di sinistra) a considerare il campo della conoscenza e della ricerca come un campo riducibile al mercato, alla competizione economica, alla crescita infinita. La rivista non si lasciò catturare dalla nostalgia degli anni Settanta, ma non accettò il cinismo che dominava nella chiacchiera intellettuale. E alla fine incontrò il movimento che dava forma soggettiva di massa alle intuizioni complesse che avevamo cercato di elaborare. Quando esplose l’insurrezione di Seattle, nel novembre del 1999, ci venne voglia di dire: ben scavato vecchia talpa! Il movimento cosiddetto no global, che in realtà era un movimento di critica e trasformazione interna alle forme della globalità culturale e tecnica, tentò di rendere possibile una via d’uscita progressiva, egualitaria, umana, dall’agonia del moderno. Quel movimento riuscì a diffondere una consapevolezza ampia del carattere non naturale, non inevitabile del capitalismo, e riuscì perfino a far comprendere che la globalità della rete poteva funzionare come fattore di liberazione e di autorganizzazione autonoma della ricerca. Ma non riuscì a consolidare quella consapevolezza in istituzioni del sapere e dell’agire solidale, perché la guerra ripiombò sul mondo, dopo l’11 settembre del 2001, e iniziò il processo di smantellamento e sottomissione dell’intelletto generale.


Da meno vecchi a più giovani

Pino Tripodi


Quando vent’anni fa nasce DeriveApprodi eravamo anagraficamente meno vecchi. Convivevano più nidiate sovversive in quell’avventura. I ventenni con le unghia già graffianti del movimento della Pantera, i trentacinquenni sempre più autonomi del movimento 77 e qualche decano delle storie precedenti. Convivevano tutti nel pentolone messo assieme per forza ciclopica dalla cocciuta volontà del Bianchi recalcitrando non poco, però. Ché pochi esclusi – il Sergio, l’io, il Bifo… – avevano doppia tessera in tasca. Quella tosta dell’identità – il simulacro di un’antica forma partito, l’icona di un qualche collettivo politico o centro sociale, la parentela stretta con qualche sparuta microrganizzazione – e quella spuria di DeriveApprodi, una specie di amante disinibita tenuta come carta jolly per fare le porcate che in famiglia non è lecito fare. Con le armate di volta in volta cangianti, si confezionava la rivista (e poi i libri della casa editrice, nelle intenzioni e fors’anche nella realtà una rivista all’ennesima potenza) DeriveApprodi, la più importante assemblea di Movimento prodotta in Italia negli ultimi vent’anni. Chi volesse conoscere le posizioni di una delle tante anime del Movimento italiano può rivolgersi alla relativa parrocchia – se per pura sventura sopravvive ancora; chi invece desiderasse cogliere con uno sguardo il panorama di tutto il Movimento e seguirne le storie, le relazioni, le differenze ontologiche come quelle di lana caprina non può che rivolgersi a DeriveApprodi. Ghigno della storia: DeriveApprodi, per quel carattere di contenitore-assemblea che l’ha contraddistinta, è sempre stata accusata di confusione mentre appare oggi come un elemento di chiarezza. Come ogni assemblea, DeriveApprodi è stata contemporaneamente rappresentazione – ovvero petulante litania delle posizioni, delle identità e delle rappresentanze costituite- ed espressione, ovvero puntellato universo mai sintetizzabile di teoria politica, di discorsività, di pratica sociale. Nel suo nome, DeriveApprodi ha indicata la sua programmatica e sublime condanna: luogo di derive, impossibile e inconosciuto luogo di approdo. Sbrindellato ma preciso e ben orientato legno di naufragio, festoso e desiderante, per tutte le derive singolari e collettive dei movimenti che furono, e assenza genetica e congenita di ogni possibile approdo. Ai movimenti è dato solo di naufragare, sempre, ai suoi becchini – le organizzazioni- può esser dato di approdare, solo. Sull’antagonismo tra movimenti e organizzazioni, sull’insopportabilità di ogni aspetto identitario, sul bigottismo coglione di ogni appartenenza si è costruita l’etica e l’estetica di DeriveApprodi. I pezzi migliori della collezione DeriveApprodi sono infatti quelli da cui emerge ciò, non a caso i medesimi nei quali si dà un cortese vaffa alla zavorra – e alle medaglie – del nostro passato. DeriveApprodi è stata una freccia bidirezionale con il cuore – grande, troppo grande – rivolto al passato e la mente – piccola, troppo piccola come lo è sempre la nostra mente – rivolta al futuro. Vent’anni dopo si assiepano alle nostre porte nuovi ventenni che ci chiedono del passato. È un indizio preciso che i loro movimenti non avranno futuro. Vent’anni dopo molti di noi hanno superato l’età oltre la quale è una vergogna vivere. Come noi ci siamo lanciati in una ribellione totale verso le sragioni del nostro tempo, così oggi i nostri corpi si vendicano di noi con le medesime modalità di quel giudice che accoglieva nel suo ufficio inquisitorio gli autonomi con il manifesto dell’Autonomia su cui era scritto: Pagherete caro, Pagherete tutto. A questa età rivolgere la mente al proprio passato è un’idiozia su cui possono allignare solo rancore, nostalgia, boria, altri sentimenti tipici di reduci e combattenti. L’unica possibilità per sopportare la vergogna del vivere è quella indicata da Andrea Pazienza che spero di citare con buona memoria: «Chi aveva vent’anni nel 77 ne ha diciotto vent’anni dopo». Vent’anni fa eravamo meno vecchi, ora siamo più giovani. Non diamo vanto al progressivo rincoglionimento dei corpi – e del passato – , siamo legno – sempre più marginale e sempre più discreto – per continuare a naufragare in un mondo nel quale tutti gli approdi che abbiamo conosciuto – paradigmi e organizzazioni, stati e sistemi di rappresentanza – , dopo il trionfo dei decenni scorsi, vanno implodendo seppelliti – ironia della storia – non, come avremmo voluto, dalla forza dei movimenti ma dalla propria inconsistenza e miseria.

Quando uscì il numero 25, l’ultimo, di DeriveApprodi la prima di copertina aveva una grande x come a dire: basta, chiuso, è finita un’epoca. Oltre il lutto, nella quarta di copertina, mister White pose, dopo averci spaccato i maroni per anni, la festa, ovvero il programma politico del divenire che recitava: freccia tenda cammello. In quel deserto in cui il lutto e la festa si impastavano senza riuscire a coniugarsi provai a scrivere Diario del domani sul potere destituente. Anni dopo non so se c’è ancora qualche freccia nel nostro arco, di certo continuiamo a pensare – un po’ con ironia, un po’ con trattenuta rabbia – cose forse troppo stravaganti o forse troppo folli, cose obbiettivamente fuori dal tempo come cani che abbaiano alla luna non perché attendano dalla luna una conferma. Solo perchè avendo scelto di non quidar mandrie, nè di star dietro a qualche fottuto carro, la solitudine del cane ci tocca come ci tocca la luna che sola come noi, fa flebile luce ma ci riscalda tanto i cuori.

Codici miniati e prediche ai passeri

Lanfranco Caminiti


Vent’anni fa stavamo attraversando il deserto. Non eravamo diretti verso la terra promessa, quella, semmai, era alle nostre spalle. Il deserto era tutt’intorno a noi, era abitato, sovrappopolato. Una civiltà era andata distrutta, una nuova specie umana emergeva dalle sue rovine, ma noi non riuscivamo a riconoscerne i volti, i corpi: tutto levigato, senza tracce né memoria. Solo noi eravamo pieni di cicatrici. Ma non ci eravamo salvati, eravamo i sommersi. Era successo troppo. Gli anni Ottanta erano stati l’apotesosi delle ideologie liberiste: il thatcherismo e il reaganismo avevano trionfato. In breve: la società non esiste, ci sono solo gli individui; i ricchi sono l’élite sociale e quelli che trainano, spendono e investono, e non vanno certo penalizzati, tassati, ma lasciati liberi di muoversi senza regole, lacci e lacciuoli; la collettività, lo Stato non può farsi carico di chi rimane indietro, ci penserà il mercato, e la disoccupazione e la povertà sono comunque endemiche; ci saranno opportunità e possibilità di arricchimento per tutti, se riusciamo a toglierci di dosso l’eredità di diritti e normative sul lavoro che pesano parassitariamente sulla mobilità del capitale e quindi sullo sviluppo. Questo era successo negli anni Ottanta, gli anni del ritorno dell’ideologia come arma letale, arma di distruzione di massa. L’occidente non può mettere ordine nel mondo, se non mette ordine in casa propria. E il socialismo aveva dimostrato il suo fallimento in termini di utilità e razionalità: aveva preteso di offrire più sicurezze e meno sperperi, invece non funzionava, nonostante un’oppressione bestiale. Aveva dimostrato anche la sua irriformabilità; era condannato a ripetersi sempre uguale (disfunzionalità e oppressione: le disfunzionalità erano sempre colpa di un qualche permissivismo che andava spazzato via). Non c’erano alternative, solo il default. Il 1989 era stato il default del comunismo reale: a Mosca come a Pechino. Un default insanguinato. Ora scoppiavano le crisi a catena dentro il suo mondo, la Jugoslavia, anzitutto, la Cecenia, la Georgia. Una doppia crisi – quella dello sviluppo e quella del progresso –, scoppiata negli anni Settanta e che investe contemporaneamente il capitalismo e il socialismo, cerca una risposta nell’azzeramento della storia. La storia finiva perché ricominciava all’indietro. Insomma, era stato il tempo delle nuove e vecchie geo-ideologie: l’occidente era tornato ai fondamentali del mercato, l’utile, l’interesse individuale; e, prendeva consistenza, si espandeva l’ideologia della religione come guida politica, dopo la rivoluzione khomeinista: l’islam riscopriva il Corano – e le sue versioni – come interpretazione politica del mondo, come nuova soggettività storica. La Cina, come il Brasile, come l’India, possono profittare di questa crisi. Quella che era rimasta stritolata era l’ideologia sociale, il comunismo, la geo-ideologia dell’est europeo e asiatico, del Terzo mondo, dei paesi emergenti. Qui la storia finiva in un vicolo cieco. Gli anni Novanta si trovano in questo passaggio. Ed è qui che prende corpo il clintonismo. Il clintonismo non c’entra niente con l’esperienza europea della socialdemocrazia, del riformismo laburista: questi dovevano far fronte all’incombenza del socialismo, quello sta dentro la crisi del capitalismo. Il clintonismo (e Blair, Prodi, Schroeder, fino a Zapatero) è l’idea di poter governare il passaggio, di poter pragmaticamente fare fronte a quella crisi degli anni Settanta, la crisi del capitale: scarsa produzione, scarsa occupazione. E di poter acconciare in modo meno traumatico la svolta liberista. Il clintonismo è speculare alla svolta cinese, l’idea di poter accomodare la fine del socialismo in modo meno traumatico da quello sovietico. Era questo il deserto. Alla fine degli anni Ottanta, ci ritroviamo nel deserto delle idee in occidente. Nella teorizzazione della fine delle idee. Il conflitto si sposta dal lavoro (che ha subìto la più grande ristrutturazione dall’introduzione ottocentesca delle macchine) e diventa questione marginale: la riduzione del lavoro diventa riduzione della sua soggettività politica; un andamento ciclico. Mentre l’attenzione torna tutta sulla geo-politica, sulla forza, sulla guerra e sulla pace. Anche il capitale si sposta dal conflitto – non solo con il lavoro ma anche con le nuove tecnologie – arrivando sulla finanza. La finanza è ancora appartata, poco visibile. Ma è qui che si gioca la globalizzazione. È qui, e non sulla mobilità delle merci o del lavoro – che già c’erano state nella commercializzazione mondiale dell’impero britannico e nelle nazioni-impero – la differenza sostanziale. Il pensiero politico italiano è il più attrezzato di tutti. Dicono dipenda da una lunga tradizione. Io credo piuttosto dipenda solo dalla straordinaria contingenza degli anni Settanta. Come Lenin riuscì a trasformare un paese industrialmente arretrato – dove mai avrebbe dovuto esserci l’affermazione del proletariato industriale – nell’officina del bolscevismo, nel posto più avanzato della sperimentazione sociale di un ordine nuovo, così l’onda lunga del biennio ’68-69, fino al Settantasette, aveva trasformato il paese più cattolico del mondo nel posto della legislazione più avanzata in termini di divorzio e aborto, e di una tolleranza culturale e sessuale inimmaginabile altrove, il paese con il più forte partito comunista occidentale nel posto dove la critica ai suoi princìpi, ai suoi riferimenti, alle sue politiche era di massa ed era libertaria non reazionaria, il paese più malfermo nei fondamentali dell’economia e dove la distribuzione della ricchezza era ancora ferma al latifondo nel posto del benessere più diffuso ed equo. La dolce vita italiana era iniziata negli anni Settanta, quell’altra era una manfrina per pochi. Ora, nel deserto c’era rimasto solo il pensiero politico. A iosa, strabordante, eccedente. Ma sommerso. Che succede quando hai un patrimonio teorico enorme ma non il tempo storico? Ti chiudi in convento e lo conservi. Ne fai codici, digesti, pandette. Metti i monaci a lavorarci sopra, a arricchire il lascito con miniature e mappe e disegni. Che succede quando hai una religione ma non i fedeli? Predichi ai passeri, sperando che un giorno acquisiscano la parola. Questo erano le riviste degli anni Novanta. Questo era «Derive Approdi», come le altre. Codici miniati e prediche ai passeri. Pochi altri ferventi monaci arrivavano, pronti a perpetuare il lavoro, ma le chiese restavano vuote. Ci si passava l’un l’altro le profezie, come fossero terzine di Nostradamus capaci di indovinare gli accaduti. Era così. Tra le oscure righe, la profezia era chiarissima. Ma restava una pratica di iniziati. Di illuminati. Di massoni. Poi gli anni Novanta finirono. E finirono con Seattle. I passeri arrivavano in stormo e facevano un gran baccano.


L’uovo di Colombo

Sergio Bianchi


Cadde il Muro e subito dopo arrivò la Pantera. Quel movimento che aspettavamo, che chiuse quei mai abbastanza maledetti Ottanta aprendo insieme orizzonti e scenari nuovi. In un battibaleno rinacquero le riviste: «Futur antérior» a Parigi, «Altre ragioni» e «Millepiani» a Milano e molte altre più effimere. A Roma nacque «Luogo Comune», e lì dentro ci ritrovammo io, Mauro Trotta e Benedetto Vecchi. Una redazione assembleare (troppo assembleare per garantirne la continuità) composta da Paolo Virno, Marco Bascetta, Andrea Colombo, Papi Bronzini, Augusto Illuminati, Lucio Castellano, Franco Piperno, Lanfranco Caminiti, Giorgio Agamben, Massimo De Carolis, Enzo Modugno, Giovanni Giannoli, Franco Lattanzi, Massimo Ilardi e molti altri. In assoluto il meglio del «pensiero critico» romano. Le donne però erano pochissime: Alessandra Castellani, Bia Sarasini, Angela Scarparo. Quasi una totalità di uomini. Eggià... qualcosa voleva pur dire. «Luogo Comune» fu uno spartiacque, in soli quattro numeri costruì i paradigmi teorici che fecero da base a molto dell’agire dei movimenti nel quindicennio a venire. Seminari, riunioni, presentazioni si susseguivano. Avevamo la netta sensazione di essere finalmente usciti dal pantano, di aver ricostruito delle nuove idee-forza capaci di diffondersi socialmente. Ma dopo tre numeri la macchina si inceppò. L’assemblea redazionale era troppo ampia e i suoi discorsi prendevano direzioni disomogenee che rischiavano di creare confusione annullando la forza dei paradigmi fin lì costruiti. O almeno così pensarono alcuni, i più autorevoli però. Forse la vecchia idea che il partito epurandosi si rafforza li convinse. Così, mentre il grosso della partecipazione andava in dispersione, prepararono il quarto numero. Senz’altro il migliore, ma per paradosso anche l’ultimo. Dopo il terzo numero non passò la proposta di formalizzare una redazione motivata con le ragioni di rendere il lavoro più effciente e coeso. Benedetto, Mauro e io eravamo i più giovani e in accordo con la proposta della formalizzazione della redazione, pur sapendo ovviamente che non ne avremmo fatto parte, o forse Benedetto sì. Infatti poi lui seguì la fattura del quarto numero, mentre io e Mauro ci mettemmo a delirare sull’ipotesi di una nuova rivista tutta da inventare. Non avevamo il minimo dubbio sul fatto che il punto più alto dell’intelligenza analitica e della conseguente elaborazione teorica stesse nella componente, diciamo così, più omogenea di «Luogo Comune», ma eravamo anche convinti che le altre soggettività in dispersione erano comunque preziose. Inoltre, forse per il semplice fatto di essere più giovani, avevamo un occhio più attento e una qualche concreta internità a quel che il movimento della Pantera aveva prodotto, al fatto che i suoi animatori si stavano riversando nei centri sociali alfabetizzandoli, togliendoli da un difensivismo autoreferenziale che li aveva fin lì obbligati a un isolamento e a una scarsa significanza nei conflitti sociali. In sostanza pensavamo che quel ribollire di nuova soggettività in costruzione era una referenza diretta e di massa a quanto «Luogo comune» aveva elaborato. Certo, esisteva il problema di come organizzare il lavoro progettuale, e poi redazionale, evitando il guazzabuglio assembleare, di come tenere insieme e ricavare ricchezza teorica da una partecipazione larga e anche disomogenea senza che ciò fosse di impedimento alla realizzazione concreta del progetto. Discutemmo per settimane su quel rompicapo finché una sera capimmo che l’uovo di Colombo era lì a portata di mano: non si sarebbe fatta alcuna redazione fissa ma redazioni specifiche numero per numero in base alle tematiche scelte. E quella fu la formula che funzionò per 26 numeri, dal 1992 al 2005. (…) Ci diedero retta Lanfranco Caminiti e Lucio Castellano, insieme a Bifo da Bologna. Ma soprattutto sapevamo di avere l’appoggio concreto di quel placido leone di Nanni Balestrini, che di riviste ne aveva fatte fin dagli anni Cinquanta, e di Primo Moroni che scrisse il testo «fondativo» dal quale venne tratta la frase che comparve nella copertina del n. 0: «È possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenze collettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendo una nuova percezione del presente».
 Mentre tessevamo la rete delle collaborazioni e il recupero dei testi da pubblicare (tra i quali anche quelli di Agamben e di Negri) assistevamo sbigottiti alla velocità con la quale si sbriciolava il sistema dei partiti della prima repubblica. Stampammo il numero 0 nell’improbabile mese di luglio del 1992. Un classico formato A4 impaginato con uno dei primi programmi di computer grafica da Massimo Kunstler, che fu autore anche del logo della testata DeriveApprodi, nominazione che decisi io col consenso di Mauro, ma che però fece incazzare Bifo che la riteneva, chissà perché, di «sapore cattolico». Riuscimmo a convincere il distributore Joo a mandarne nelle librerie 700 copie. Una roba da matti, a luglio, un prodotto del genere mischiato alle letture da ombrellone. Andarono esaurite in una settimana.




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