Ripubblicando uno dei contributi a suo tempo contenuti nel volume collettivo curato da Federico Chicchi ed Emanuele Leonardi Lavoro in frantumi. Condizione precaria, nuovi conflitti e regime neoliberista (ombre corte, 2011), intendiamo rendere omaggio al decennale di questa forse «minore» ma preziosa, e del resto invecchiata bene, pubblicazione. Il libro raccoglieva materiali eterogenei, in larga parte di autori collegabili al filone del marxismo operaista che tentò, nella stagione compresa tra il declino della produzione di massa e le grandi crisi che hanno segnato i primi decenni del nuovo secolo, di ricostruire una teoria critica del lavoro e della soggettività all’altezza della «nuova economia».
Il titolo riprendeva un classico della sociologia del lavoro di Georges Friedmann, il testo del 1960 in cui il sociologo francese poneva in relazione (tra i primi a farlo) i nessi tra tecniche di produzione, organizzazione del lavoro, mentalità e soggettività dei lavoranti. Il lavoro frantumato di Friedmann era quello parcellizzato proprio della divisione del lavoro taylor-fordista; la storia di quegli anni ci insegnò tuttavia che a quel lavoro «senza qualità» era associata una potente capacità di ricomposizione della classe operaia industriale, una «centralità» in grado di plasmare l’universo sociale e politico e innescare l’ultimo assalto al cielo del Novecento.
I frantumi evocati da Chicchi e Leonardi, cinquant’anni dopo, non sono quelli dell’organizzazione produttiva (e della composizione tecnica della classe operaia), ma quelli consegnati dallo sgretolamento dell’architettura della «cosiddetta società del lavoro», dunque la disarticolazione (ferocemente perseguita dalla parte capitalistica) del lavoro come soggetto collettivo, nel venire meno della sua capacità d’integrazione tra individuo e società. I due curatori, nella premessa, esplicitavano chiaramente come la frantumazione del lavoro implicasse, sul piano della riflessione, «portare in primo piano la forma dell’odierno comando capitalistico». E su questo livello prevalentemente analitico si attestava la maggioranza dei 15 contributi raccolti nel libro. Al tempo stesso, in questi stessi frantumi si ricercavano tracce di soggettività politica, spazi di conflitto potenziale, luoghi che nelle mutate condizioni potessero dislocare su nuove basi le traiettorie di liberazione, sottrazione, antagonismo a quel medesimo comando.
In questo senso il volume, che era stato preceduto da un convegno presso l’Università di Bologna organizzato dagli stessi curatori (caso sempre più raro di «contro-uso» dello spazio accademico), raccoglieva e poneva a confronto analisi che, viste nell’insieme, si potevano considerare come provvisorio e quasi esaustivo riepilogo della riflessione critica sui modelli di produzione e forme di lavoro che ancora si definivano postfordisti, di cui però si iniziavano a intravedere alcune crepe. Diverse delle ipotesi proposte ai lettori hanno forse acquisito solidità con gli anni, altre erano probabilmente debitrici verso analisi pregresse (si pensi al dibattito sull’ambivalenza del lavoro cognitivo e della condizione precaria) rivelatesi politicamente, almeno nel breve, poco produttive. E tuttavia i contributi sono disseminati di analisi, letture, concetti che non hanno perso forza esplicativa e che talora, a dieci anni di distanza, appaiono del tutto attuali, a partire dai contributi di apertura dedicati alle contraddizioni tra sviluppo capitalistico e giustizia climatica. Quanto basta sia per consigliarne la rilettura, sia per auspicare nuovi momenti collettivi di analisi situati in un presente in cui la frantumazione è proseguita, non senza attriti e resistenze, e ci appare sempre più per quello che effettivamente è, il rovescio della ricomposizione politica dei dominanti.
Il libro raccoglieva testi di 15 autrici e autori, richiamarli tutti sarebbe ridondante. Riproponiamo il contributo Movimenti per un’alimentazione sostenibile ed economia politica del lavoro di Margaret Gray, ricercatrice e oggi docente all’Adelphi University di New York. Un contributo specifico rispetto ad altri di respiro più ampio presenti nel volume, volto a porre in luce le contraddizioni tra pratiche di consumo e immaginario del cibo «buono, pulito e giusto», che in Italia ha avuto nell’Expo 2015 la sua celebrazione, e le materiali condizioni di sfruttamento del lavoro, in larga parte erogato da migranti, nelle stesse imprese agricole che della qualità certificata e della sostenibilità fanno il driver di affermazione sui mercati. Un tema certamente non invecchiato!
Ringraziamo Margaret Gray, i curatori Federico Chicchi ed Emanuele Leonardi e l’editore Gianfranco Morosato, titolare di ombre corte, per avere autorizzato la pubblicazione di questo testo su Machina.
* * *
Negli ultimi anni, gli attivisti del cibo hanno promosso diete locali come alternative sane e virtuose al sistema alimentare capitalistico-industriale, basato sulle monocolture, e molte piccole aziende agricole hanno tratto profitto da questo nuovo trend di consumo legato ai cosiddetti Km 0. Il movimento Slow Food, nato in Piemonte, ha generato grande interesse e largo consenso attorno alla sovranità dei piccoli produttori e all’attenzione per l’agricoltura su piccola scala. Tuttavia, i lavoratori agricoli vengono ampiamente tralasciati dai discorsi del movimento per un cibo alternativo, dal dibattito sulle politiche alimentari e dal crescente attivismo del cibo. Terra Madre, la conferenza torinese sulla sostenibilità alimentare globale che si tiene ogni due anni, ha preso sul serio le preoccupazioni per il lavoro solo al suo terzo meeting, nel 2008, e Slow Food USA non ha fatto alcun riferimento ai lavoratori agricoli prima del 2009. Nella maggior parte dei casi, la letteratura sull’alimentazione sostenibile si occupa del rapporto tra ecologia ed economia, relegando sullo sfondo le questioni legate alla giustizia sociale. In modo particolare, il lavoro e la sicurezza dei lavoratori agricoli sono stati completamente dimenticati non solo dagli accademici, ma anche da giornalisti e scrittori che tendono all’ipersemplificazione delle implicazioni economiche di un’agricoltura alternativa e alla glorificazione dell’etica legata alla piccola azienda agricola a conduzione famigliare[1]. Tra i più noti autori di studi sul cibo, Eric Schlosser, con il suo costante riferimento alla piaga sociale rappresentata dalle condizioni del lavoro agricolo, è una rara eccezione[2]. Ben più sintomatico è stato il numero speciale del 2009 di The Nation, la più importante rivista di sinistra negli Stati Uniti, dedicato al movimento per un’alimentazione sostenibile: ebbene, non vi si trova alcuna traccia dei trattamenti riservati al lavoro nei campi. Recentemente alcuni analisti hanno studiato le modalità di interazione tra l’espansione del settore biologico e le condizioni di lavoro in agricoltura, specialmente in California[3]. Ad esempio, Brown e Getz sostengono che l’immagine del piccolo produttore che si oppone fieramente al sistema alimentare globale andrebbe parzialmente ridefinita affiancandole quella di imprenditore che si serve di alcuni tra i più marginalizzati lavoratori del paese[4]. Sebbene queste ricerche abbiano svolto un ruolo importante nel processo di inclusione del lavoro nei dibattiti concernenti la giustizia alimentare, essi riguardano quasi esclusivamente il settore biologico californiano e adottano di norma un approccio basato sulla prospettiva degli stessi piccoli produttori. Al contrario, ci sono pochi studi sui piccoli sistemi agricoli regionali in altre zone degli Stati Uniti, e praticamente nessuna analisi del sistema alimentare condotta a partire dal punto di vista dei lavoratori.
La forza lavoro agricola negli Stati Uniti, come quella dell’Italia meridionale, è composta per lo più da migranti clandestini. Negli Stati Uniti, questi migranti provengono dal Messico o da altri paesi dell’America Latina. L’attenzione che il movimento per l’alimentazione sostenibile normalmente dedica al lavoro si limita ad una descrizione delle scadenti condizioni di impiego nelle grandi aziende agricole e nelle industrie conserviere. Ne risulta che i riflettori vengano puntati esclusivamente sulle grandi aziende agro-industriali, come ad esempio quelle della California e della Florida, mentre si assume come dato che i piccoli e medi produttori riservino migliori trattamenti ai propri lavoratori. Una simile mentalità pare allignare anche nell’Italia meridionale, dove i problemi legati alla struttura del lavoro agricolo sono focalizzati sulle vergognose vessazioni cui l’agribusiness sottopone i migranti africani, come esemplificato nel giugno 2010 dalla violenza razzista subita dai lavoratori agricoli a Rosarno (Calabria) e dalla loro conseguente protesta. Va comunque detto che non esistono indagini approfondite riguardo alle condizioni di lavoro dei migranti africani, asiatici ed europei orientali nelle piccole aziende dell’Italia settentrionale.
Questa disattenzione può in parte essere imputata agli evangelisti dell’alimentazione sana che tendono a tenere assieme gli aggettivi locale, alternativo, sostenibile e giusto o, nelle parole di Petrini, “buono, pulito e giusto”, come in un ricettacolo delle virtù da opporre alla demonizzata fabbrica agricola. Ciò impedisce un’analisi dettagliata delle dinamiche del lavoro nelle piccole aziende agricole[5]. L’equazione automatica tra prossimità geografica e qualità è stata chiamata “trappola locale” da studiosi che hanno avanzato l’ipotesi secondo la quale la nozione di scala – locale o globale che sia – si presenta come socialmente costruita[6]. Nonostante la cosmesi della produzione etica, rimane il fatto che i sistemi di agricoltura locale – al di là della scala e della vicinanza geografica ai consumatori – siano diretti dai diktat del mercato che rendono i loro rapporti di lavoro inseparabili da quelli delle agro-industrie tradizionali.
La trappola locale si nutre di romanticismo agrario, la cui importanza è difficile da sovrastimare, non solo come componente fondativa dell’ideologia nazionale statunitense, ma anche come elemento determinante dell’economia politica del settore alimentare[7]. L’idealismo che attraversa la vita agraria americana è associato, da Jefferson in avanti, a virtù morale, auto-sufficienza e libertà individuale. In breve, l’ideale agrario pone l’agricoltura come la base per una società modello. Il movimento Slow Food ne rappresenta il contrappunto, con la sua evocazione di un’artigianalità agricola radicata nella terra e nella sua storia. L’enfasi sulla produzione locale e l’ideale agrario hanno convinto l’opinione pubblica del fatto che i più meritevoli beneficiari della nostra considerazione e del denaro che spendiamo in cibo siano i piccoli produttori. In entrambi i casi – Stati Uniti e Italia – la cultura mainstream propone una visione semplice della condizione contadina: senza un reddito sufficiente, i piccoli produttori chiuderanno le porte dei granai e, con essi, un vitale (e sano) rapporto con il passato sarà inevitabilmente perso. A conferma di ciò, un’importante rassegna di studi sull’alimentazione ha dedicato un intero volume alla figura dei piccoli produttori come miglior esempio di ricerca capace di connettere le tematiche del cibo e quelle della giustizia sociale[8]. È presumibile che l’opinione pubblica preferisca non sapere se i produttori che animano i mercatini del biologico abbiano o meno intrattenuto rapporti di lavoro simili a quelli dell’agribusiness industriale con i propri lavoratori. Eppure, osservando i dati storici e le pratiche di management contemporanee, risulta chiaro che i processi lavorativi capitalistico-industriali si sono trasferiti da stato a stato e da azienda ad azienda, fino alle più piccole realtà di produttori agricoli.
Esaminando l’assenza di temi legati alla giustizia sul lavoro dai dibattiti del movimento per un’alimentazione sostenibile si può notare come le sfide poste dall’inclusione dei lavoratori nei processi produttivi di stampo agricolo risultino particolarmente stringenti in aree quali la valle del Po in Italia o la Hudson Valley nello stato di New York, quella meravigliosa regione agricola che si distende a nord di New York City. Le identità culturali di entrambe le zone sono fortemente segnate da valori agrari, così come condiviso è il beneficio che i rispettivi settori agro-alimentari hanno ricevuto dalla diffusione dei movimenti per un cibo locale e alternativo. Qualsiasi analisi del loro ruolo a livello regionale si presta a contrapporre queste aree alla linea dominante della ricerca agro-alimentare, quella cioè basata sulla produzione di merci e particolarmente diffusa in California. La mia ricerca si focalizza sulla Hudson Valley, il cui valore di mercato in termini di prodotti agricoli “locali” è superato solo dalla California. Inoltre, questa valle rappresenta un caso unico (a livello nazionale) per l’alta concentrazione di piccoli produttori. Nello stato di New York, il 92% delle aziende agricole è considerato di piccola scala (cioè con utili inferiori a 250,000$ l’anno). Le considerazioni che seguono si rifanno alla mia decennale esperienza di ricerca sul campo – condotta principalmente attraverso interviste in profondità e osservazione partecipante – nella Hudson Valley e, più in generale, nello stato di New York[9].
Dunque, quali sono le condizioni dei lavoratori nelle piccole aziende agricole dello stato di New York? Gli abusi sul lavoro e le violazioni legislative sono tipici in agricoltura: assunzione e sfruttamento di lavoratori clandestini, ricambio etnico (cioè sostituzione di un gruppo etnico, razziale o nazionale di lavoratori con un altro), sottopagamento, condizioni abitative fatiscenti con mancanza di acqua potabile, licenziamenti per rappresaglia, molestie sessuali, traffico di esseri umani e lavoro forzato – tutto questo accade regolarmente sia nell’agribusiness industriale che nelle aziende a conduzione famigliare dello stato di New York. Tuttavia, oltre a questi esempi di violazione palese della legislazione sul lavoro, la questione più significativa nello stato di New York e nella gran parte degli altri stati americani è l’esclusione dei lavoratori agricoli dalle protezioni legali basilari, compreso il diritto al giorno di riposo, al pagamento degli straordinari e alla contrattazione collettiva, che richiederebbe ai produttori il riconoscimento dei sindacati dei lavoratori (notevole, in questo caso, è l’eccezione della California)[10]. Senza dubbio, ci sono altri importanti fattori che contribuiscono alla composizione della categoria “lavoratore agricolo” come costantemente attraversata dalla riproduzione di ineguaglianza (sia negli Stati Uniti che in Italia). Tra questi vanno annoverati gli abusi dei proprietari, le politiche legate all’immigrazione, le pratiche anti-sindacali e la criminalizzazione storica del lavoro contadino. Queste considerazioni non possono essere separate dal processo storico di razzializzazione dei lavoratori agricoli così come dal loro status in termini di cittadinanza.
In che modo l’esclusione dalla legislazione sul lavoro incide sulla vita quotidiana dei lavoratori agricoli? Esempi di sfruttamento estremo sono routine nella Hudson Valley. Questi includono i lavoratori che ho incontrato e che lavorano 90 ore a settimana per alcuni mesi di fila per un salario di 50 centesimi superiore al minimo sindacale: ricevono soltanto il pattuito per le 8 ore giornaliere, nemmeno l’ombra di uno straordinario. Alcuni di noi possono giustificare le pressioni del raccolto e capire il tentativo di riconciliazione tra le necessità stagionali dell’agricoltura e l’intensità del lavoro per alcune settimane di fila, ma come accettare che i lavoratori fatichino in questo modo per diversi mesi alla volta? Particolarmente sotto torchio sono gli allevatori di anatre destinate alla produzione del costoso e delicato foie gras. I lavoratori che badano a questi animali mi hanno spiegato che la loro giornata lavorativa si divide in due turni di 3-4 ore inframezzate da un intervallo di 4 ore. Questa situazione si protrae 24 ore al giorno per diverse settimane alla volta. Ne derivano ripetute settimane da 84 ore lavorative, più del doppio del consentito e senza alcuno straordinario. I produttori di foie gras sostengono di aver bisogno di un lavoratore dedicato alla stessa anatra durante tutto il ciclo di nutrimento per limitare lo stress dell’animale e assicurare così la qualità della consistenza e del gusto del prodotto finito. Allo stesso tempo, però, i lavoratori possono certamente andare avanti per mesi senza pause di più di 4 ore e senza dormire più di 3 ore e mezza per notte!
Non intendo sostenere che i piccoli produttori della Hudson Valley sfruttino i loro lavoratori e ne abusino; preferisco piuttosto segnalare che la quasi inesistenza di protezioni fornite dalla legislazione sul lavoro genera inevitabilmente un pessimo trattamento dei lavoratori. La legge consente di assumere lavoratori impiegandoli 7 giorni a settimana per 15 ore al giorno, senza l’obbligo di pagare gli straordinari o concedere un giorno di riposo. Come se ciò non bastasse, nel caso i lavoratori tentassero di sindacalizzarsi per modificare queste condizioni, potrebbero essere licenziati senza alcuna possibilità di ricorso. Eppure, almeno finora, i consumatori non si sono eccessivamente preoccupati delle condizioni del lavoro nei campi. Al di là dell’ignoranza di queste circostanze, spesso associata alla supposizione che i lavoratori siano trattati degnamente, l’opinione pubblica è spesso portata a ritenere che i piccoli produttori abbiano diritto a lavoratori sottopagati – dopotutto, questi producono il nostro cibo! Da questo punto di vista, la lotta per diritti dei lavoratori agricoli è spesso trasfigurata sullo sfondo di una contrapposizione tra lavoratori e piccoli proprietari laddove questi ultimi, come ci viene costantemente ricordato, non sono che una specie rara e in via d’estinzione che lotta per una briciola di profitto contro i prezzi stracciati del cibo industriale, contro la sfrenata competizione globale e contro gli eccessi della regolazione amministrativa. In più, il fatto che la maggior parte dei lavoratori agricoli sia composta da migranti clandestini giova ben poco alla loro causa.
Questo inizio di XXI secolo negli Stati Uniti vede una grande attenzione destinata alle aziende a conduzione famigliare e alle vendite dirette, in loco o tramite mercati del biologico. Queste attività (come ad esempio i progetti di Community Supported Agricoltural [Agricoltura Supportata dalla Comunità]) stanno crescendo ad un ritmo di tre volte superiore alle tradizionali forme di distribuzione dei prodotti agricoli. I movimenti a favore della filiera corta hanno permesso a molte piccole aziende in difficoltà di trovare nuovi sbocchi commerciali ed esse sono quindi molto ben disposte rispetto alle attenzioni dei consumatori verso la sostenibilità locale. Inoltre i piccoli produttori, nello stato di New York e negli Stati Uniti così come in Italia, giocano un ruolo importante nel raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità alimentare.
Ultimamente abbiamo assistito a numerose proposte di certificazioni legate al “mercato equo e solidale” per le aziende agricole statunitensi, con l’inclusione delle condizioni lavorative come requisito. Uno dei problemi principali a questo proposito è la partecipazione dei produttori al consiglio delle aziende alimentari non-profit ed il loro ruolo non solo nel dare forma concreta al sistema delle certificazioni, ma anche nello stabilire le priorità politiche dell’azione federale e di quella dei singoli stati. A conti fatti, tuttavia, è difficile immaginare che siano proprio i piccoli produttori a prendere una decisa posizione a favore dei loro lavoratori.
Nel momento stesso in cui il movimento per l’alimentazione sostenibile cresce esponenzialmente, le campagne per i diritti dei migranti (di nuovo sia negli Stati Uniti che in Italia) forniscono un altro esempio di movimenti fragorosi ed innovativi. Tuttavia, ad oggi, ci sono stati scarsi momenti di convergenza tra queste mobilitazioni, in parte a causa della predominanza di un modo di fare politica centrato su singoli problemi da affrontare uno alla volta. Inoltre, i piccoli produttori dello stato di New York hanno cercato di indebolire i tentativi da parte dei sindacalisti di migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori agricoli. I produttori sostengono che, se non fossero clandestini, i lavoratori riceverebbero migliori trattamenti da ogni punto di vista. Gli attivisti controbattono che, sebbene ciò possa essere vero, questo non modifica il fatto che i lavoratori agricoli siano lasciati al di fuori dei confini del diritto del lavoro, all’interno dei quali è invece compresa e protetta la maggior parte degli altri lavoratori.
In questo contesto, come viene condotta la battaglia dei lavoratori nelle piccole aziende agricole? Uno dei principali obiettivi del movimento per un cibo alternativo è la promozione di un’alimentazione etica. Se un numero sufficiente di consumatori informati considerassero le conseguenze delle loro scelte in fatto di cibo, assisteremmo non solo ad un modo più sano di consumare, ma anche ad una ristrutturazione dell’industria alimentare volta all’offerta di prodotti più sani. (Per quanto l’agro-industria possa aver cooptato l’agricoltura biologica, è certo che l’aumento di prodotti biologici in negozi come Whole Foods negli Stati Uniti, per non parlare della quasi totalità delle catene della grande distribuzione, sia da ascriversi alla pressione dei consumatori). Secondo la logica degli attivisti del cibo, la questione morale poggia sulla sussistenza di coloro che lavorano per procurarci il cibo. In altre parole, affinché la politica alimentare promuova veramente la salute pubblica, il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle aziende dovrebbe essere tanto importante quanto proteggere le falde acquifere o risparmiare agli animali inutili dolori e stress.
Con tutta la positiva attenzione che i piccoli produttori ricevono, i loro lavoratori dovrebbero di diritto essere inclusi nell’equazione. Inoltre, la sostenibilità in tutte le aree della vita è sempre più riconosciuta come un valore intrinseco, come un obiettivo che si auto-giustifica. Coloro che instaurano un rapporto etico con il cibo dovrebbero considerare problematico il fatto che la loro salute e sussistenza migliorino a spese di altri. I numerosi rapporti che evidenziano gli alti costi sociali ed ambientali del cibo a basso prezzo prodotto industrialmente prestano un disservizio ai lettori nel momento in cui ignorano completamente la condizione della forza lavoro impiegata nel comparto alimentare. Ed è precisamente attraverso l’economia politica delle piccole aziende agricole che il movimento per un’alimentazione sostenibile promuove un’idea di consumismo etico. Di conseguenza, è proprio in quell’economia politica che una consapevole assunzione della giustizia sociale si profila come urgente e necessaria.
(traduzione dall’inglese di Emanuele Leonardi)
Note [1] Cfr. Patricia Allen, Together at the Table: Sustainability and Sustenance in the American Agrifood System, Pennsylvania State University Press, Univesity Park 2004; ID., Mining for justice in the food system: perceptions, practices, and possibilities, in “Agriculture and Human Values” 25:157-161, 2008; Sandy Brown e Christy Getz, Toward domestic fair trade? Farm labor, food localism, and the 'family scale' farm, in “GeoJournal” 73:11-22, 2008; Matthew Garcia, Labor, Migration, and Social Justice in the Age of the Grape Boycott, in “Gastronomica: The journal of food and culture” 7 (2):68-74, 2007; Julie Guthman, Agrarian dreams: The paradox of organic farming in California, University of California Press, Berkeley 2004. [2] Cfr. Eric Schlosser, Fast Food Nation, Il Saggiatore, Milano 2002; ID., Reefer madness: Sex, drugs, and cheap labor in the American black market, Mariner Books, Boston 2003. [3] Sandy Brown e Christy Getz, Privatizing farm worker justice: Regulating labor through voluntary certification and labeling, in “GeoForum” 39:1184-1196, 2008; Guthman, Agrarian dreams, cit; Aimee Schreck, Christy Getz e Gail Feenstra, Social sustainability, farm labor, and organic agriculture: Findings from an exploratory analysis, in Agriculture and Human Values 23:439-449, 2006. [4] Cfr. Brown e Getz, Toward domestic fair trade?, cit. [5] Cfr. ad esempio la breve discussione proposta da Vera Chang in Swimming Upstream for Farmworker Rights, Giugno 2010, (http://www.triplepundit.com/2010/06/united-farm-workers-union/#ixzz0sH5IqsLv). Nei vari studi sull’industria agro-alimentare, uno in particolare propone l’integrazione delle questioni riguardanti i diritti dei lavoratori con il potere dei consumatori. Inoltre, questo studio esamina lo sfruttamento dei lavoratori migranti attraverso le loro storie e indaga i mutamenti del mercato del lavoro nel settore dell’industria del pollame, finendo tuttavia per suggerire, in assenza di una reale analisi di questo specifico ambito, che i piccoli produttori legati al territorio offrono migliori condizioni di lavoro. Cfr. veda Steve Striffler, Chicken: the Dangerous Transformation of America’s Favourite Food, Yale University Press, New Haven 2005. [6] Per una notevole rassegna delle supposizioni legate al sistema di produzione alimentare locale si veda Brendan Born e Marc Purcell, Avoiding the local trap: Scale and food systems in planning research, in “Journal of Planning Education & Research” 26 (2):195-207, 2006. Born e Purcell analizzano la letteratura specialistica in termini di sostenibilità ecologica, sociale ed economica, nonché di qualità dei prodotti e salubrità per l’uomo. È tuttavia importante sottolineare come gli studi sulla produzione di cibo siano fortemente influenzati dai geografi, ed in particolare da David Harvey. Cfr. in proposito David Harvey, Justice, Nature and the Geography of Difference, Blackwell, Oxford 1996. [7] Probabilmente l’aspetto più rilevante del rapporto tra industria alimentare e ideale agrario è la diffusa invocazione dell’azienda a conduzione famigliare. L’immaginazione dell’opinione pubblica tende a figurarsi l’“azienda a conduzione famigliare” come una piccola operazione gestita da mamma e papà, al limite con l’ausilio di qualche lavoratore. Da un punto di vista tecnico, però, la definizione del termine è ben più elastica. A detta del Servizio di Ricerca Economica della USDA (United States Department of Agriculture) un’azienda a conduzione famigliare “è tale se la sezione maggioritaria dell’attività economica è di proprietà dell’operatore o di individui legati all’operatore” e quindi include, dal 1996, tra il 97,1% e il 98,3% di tutte le aziende agricole statunitensi (cfr. al proposito Robert A. Hoppe, Penni Korb, Erik J. O’Donoghue e David E. Banker, Structure and Finances of U.S. Farms: Family Farm Report, in “Economic Information Bulletin No. (EIB-24)”, USDA Economic Research Service, Washington DC, 2010). In questo modo, una tale definizione include non solo aziende in cui lavorano i membri di una famiglia, ma anche grandi compagnie multimilionarie legate ad una qualsiasi cerchia famigliare. L’ideale agrario può certamente richiamare finalità lodevoli – quali ad esempio la promozione di attenzione per e difesa dei piccoli produttori – ma la definizione elastica di “azienda a conduzione famigliare” è una tattica consapevole adottata dai governi e dall’agribusiness per confondere i consumatori. [8] Marion Nestle e W. Alex McIntosh, Writing the food studies movement, in “Food, Culture & Society” 13 (2):159-168, 2010, p. 164. [9] I miei dati includono interviste con 160 lavoratori agricoli (o ex lavoratori agricoli), 18 piccoli produttori della Hudson Valley, 4 sindacalisti attivi a livello statale e 30 tra rappresentanti governativi, lobbisti e politici locali. [10] Benché il New Deal degli anni ’30 abbia effettivamente prodotto una radicale legislazione sociale che ha cambiato il panorama del lavoro industriale negli Stati Uniti (composto in prevalenza da bianchi), la forza lavoro agricola – largamente minoritaria – è stata sistematicamente esclusa dalla maggior parte di queste politiche. Per questo il National Labor Relations Act del 1935 esclude i lavoratori agricoli (nonché quelli domestici) dalle più avanzate protezioni sul lavoro.
Immagine: Omaggio a Gianni Sassi (dalla copertina della rivista «La Gola», mensile del cibo e delle tecniche di vita materiale, n. 7, Milano, maggio 1983.
Comments