Per indagare e pensare la tecnica, nel suo vicendevole presupporsi con l’industria e la scienza, bisogna necessariamente ripartire dall’analisi filosofica, antropologica e sociologica di Arnold Gehlen. È quello che fa Ubaldo Fadini in questo articolo. Si sa che la tesi principale di Gehlen è che la tecnica sia antica quanto l’essere umano e che essa serva proprio «a vivere e a far morire». L’essere umano è in definitiva un essere naturalmente artificiale, determinato ad agire, a modificare intelligentemente il dato «naturale» e, insieme, quello già realizzato. Per pensare questa artificialità, è essenziale rivolgersi al corpo come dimensione «ultima» di relazione del complesso variegato delle tecniche che si delineano nella vicenda evolutiva umana.
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Ricordo ancora l’impressione acuta che mi fecero le osservazioni critiche di Enrico Livraghi a proposito delle pagine di Pierre Lévy, l’autore di un «classico» come L’intelligenza collettiva, rivolte a delineare una antropologia del virtuale che intende quest’ultimo come un complesso di forze e di tendenze che accompagna qualsiasi situazione e ciò al fine di rimarcare le potenzialità di un futuro che non smette di divenire, nel momento in cui la dinamica dell’attualizzazione dei potenziali viene considerata appunto come quel divenire che è in grado di alimentare lo stesso virtuale. Livraghi osserva come tale virtualizzazione si manifesti sotto veste di una vera e propria «eterogenesi», come un processo che accoglie in sé le alterità fluidificando di fatto tutte le «differenze istituite». E allora non può che porsi la questione di ciò che istituisce le differenze, dell’inizio di tale svolgimento, del «sostrato», dell’«entità originaria» che muove la problematica e apre alla risposta nel modo della attualizzazione. Si sa che per Lévy l’«entità originaria», «superiore», è la sorgente dei tempi, delle storie, delle vicende, in un senso che va apprezzato per quel suo costitutivo fuori-uscire dal tempo medesimo che vale come «arricchimento dell’eternità». È nei riguardi di tale quadro tematico che Livraghi avanza le sue critiche: «Se il linguaggio ha ancora un senso, questa entità superiore – per la quale la virtualizzazione “esce dal tempo”, cioè dal divenire – si colloca, appunto, nell’eterno. È un oltre-mondo. Siamo cioè dalle parti dell’Ente incondizionato che reca in sé le differenze. O forse dell’ipercorteccia che governa i «circuiti» (precablati, ovviamente), che è in ogni dove e in nessun luogo, come l’Uno di Plotino. O magari dalle parti di una ragione Epistemica digital-elettronica, o di un “pensiero di pensiero” interfacciato con il mondo “attualizzato” e negato in quanto negativo, cioè in quanto “differenza fuori di sé”»[1].
Il richiamo di Livraghi è a pensare più concretamente quella che mi piace indicare come ricaduta deterritorializzante della virtualizzazione che segna sempre di più i nostri modi di vivere/lavorare laddove la nostra presenza fisica viene almeno in parte tradotta nel partecipare a una rete comunicativa di carattere digitale in grado di favorire dinamiche di collaborazione sulla base dell’impiego di risorse informatiche incessantemente rigenerate. È a partire da tale invito che mi sembra utile un confronto con le diverse caratterizzazioni di ordine meta-fisico dell’antropologia della tecnica che si riferiscono alle attualizzazioni effettive di quei potenziali tecno-umani che restituiscono il rapporto sempre più stretto tra il soggetto (di lavoro) e determinate progressioni tecnologiche, soprattutto a livello informazionale e comunicativo.
Ripartire da Gehlen
Utile mi sembra ripartire, in tal senso, dalle indagini di Arnold Gehlen sulla tecnica, il suo sviluppo, considerato appunto antropologicamente. Si sa che la sua tesi principale è che la tecnica sia antica quanto l’essere umano e che essa serva proprio «a vivere e a far morire». L’essere umano è in definitiva un essere naturalmente artificiale, determinato ad agire, a modificare intelligentemente il dato «naturale» e, insieme, quello già realizzato. Per pensare questa artificialità, è essenziale rivolgersi al corpo come dimensione «ultima» di relazione del complesso variegato delle tecniche che si delineano nella vicenda evolutiva umana.
Non è infatti possibile pensare la tecnica senza pensare il corpo. Questo vale soprattutto allorquando la naturalità dell’esistere è preponderante ed è in tale direzione che si può appunto riprendere il filo delle tante indagini che possono essere riferite all’antropologia filosofica moderna, un filo che cercherò di riafferrare per poi sottolineare come sia importante pensare la corpomorfosi insieme alla trasformazione della mente, dell’intelligenza, di ciò che si collega con la naturalità umana produttrice basilare di possibilità diverse di vita.
Riprendendo Gehlen, nella veste di «campione» di questi processi di traduzione dell’antropologia filosofica in vera e propria antropologia della tecnica, si può ricordare la sua particolare classificazione delle «tecniche» in relazione necessaria con lo specifico della carenza organica, a livello istintuale. Si hanno in prima battuta delle tecniche d’integrazione che rimpiazzano le capacità non possedute dai nostri organi, poi delle tecniche di intensificazione che potenziano capacità già presenti nel nostro corpo e infine delle tecniche di agevolazione che alleggeriscono i compiti organici. Tutto questo porta alla rilevazione di tre principi che sono decisivi per la realizzazione di manufatti umani: quello del sostituto dell’organo, quello dell’esonero e quello del superamento dell’organo. Quest’ultimo è particolarmente significativo a livello di proiezione di testimonianze «antiche» dell’essere naturalmente tecnico dell’umano su linee di sviluppo della ibridazione odierna del nostro portato psico-fisico con certi aspetti dell’intelligenza artificiale (il che consente di arrivare anche alle questioni toccate da Nick Bostrom con la sua idea della «superintelligenza»).
È la tecnica a consentire in definitiva di afferrare la decisiva «policentricità» dell’essere umano, il suo manifestare potenzialmente molti centri soprattutto nel momento in cui la sua attività non viene semplicemente collegata con i valori della «pura ragione» o della «mera utilità». Trovo molto interessante quest’ultima presa di posizione, da parte dell’autore di Morale e ipermorale, perché attraverso di essa si esprime una diffidenza di fondo, tutt’altro che banalmente «conservatrice», nei confronti del preordinare sempre e comunque gerarchie rigide tra le facoltà umane (intelletto, immaginazione, sensibilità: per semplificare...) e le nostre prestazioni concrete, materiali.
Altro punto di rilievo, oggi ancor più da rimarcare, è il confronto tra le due tecniche che accompagnano in modi differenti la vicenda evolutiva umana, quella «razionale» e la magia, da considerarsi qui come «tecnica sovrannaturale». Quella «razionale» ha progressivamente invaso lo spazio dominato da quest’ultima e la formula magica, intesa come «l’attrezzo per le distanze spaziali e temporali» a disposizione per un agire che si vuole di fatto im/mediato, viene sostituita dagli strumenti sempre più sofisticati della tecnica moderna.
È su tale sfondo, quello dell’analisi delle due tecniche, che spicca un ulteriore elemento di osservazione che le accomuna e risulta decisamente affascinante, vale a dire quell’automatismo, il cui fascino non è appunto basato su una soddisfazione puramente intellettuale o su un istinto ben determinabile. Per cercare di afferrare il perché di tale effetto di fascinazione, Gehlen introduce una categoria di taglio psicologico che coglie tale fascino come inquadrabile nella veste di un vero e proprio fenomeno di risonanza. Il presupposto di tale introduzione è la convinzione gehleniana che nell’essere umano ci sia una sorta di «senso interno», con funzione costitutiva, «che reagisce a ciò che nel mondo esterno è analogo a questa costituzione propria. L’automatismo dotato di un senso, finalizzato, è però qualcosa di specificamente umano, che inizia con il movimento, consapevole del suo scopo, del camminare, per giungere ai movimenti ritmici divenuti abituali del lavoro manuale e che noi – obiettivandoli su di noi – possiamo pensare di fare riprendere da una macchina. Se quindi percepiamo al di fuori di noi un tale automatismo dotato di senso – e se il senso consistesse meramente nell’enigmatica ripetizione precisa come nelle peripezie degli astri – entra in vibrazione qualcosa anche in noi, vi è in noi una risonanza, e noi comprendiamo senza concetto e senza parola qualcosa della nostra propria essenza. Ciò che è interessante in questa ipotesi sta nell’idea di una prima autocomprensione a partire dall’esterno e quindi nella possibilità di ricomprendere nuovamente il simbolo o la metafora. Il “moto” delle stelle, il “moto” delle macchine, non costituirebbero un paragone superficiale e simboli primordiali, come il mare per le passioni, sarebbero, per via della loro risonanza, penetranti autointerpretazioni di caratteristiche specifiche della specie umana»[2].
È anche su questo piano dell’indagine che si può comprendere come la tecnica non sia afferrabile come l’applicazione di un determinato repertorio scientifico-naturale poiché essa è antica quanto l’essere umano. È chiaro che c’è una differenza di ordine qualitativo che si è concretizzata nel passaggio dalla tecnica antica a quella moderna, ma tale distinzione non va presa come quella che c’è tra un determinato arnese semplice e quella che si intende come «macchina», più o meno complessa. Tutto è in fondo «macchina» nell’ottica del filosofo/sociologo tedesco, nel momento in cui attraverso essa, vero e proprio dispositivo complesso, si trasmettono energie in grado di compiere un «lavoro utile». In un certo modo si potrebbe qui parzialmente avvicinare – in prima battuta in modo sorprendente ma poi, seguendo l’analisi, senza neppure troppa meraviglia – questa indagine a quella sviluppata da Gilles Deleuze e Félix Guattari nel momento in cui i due autori di L’anti-Edipo osservano nel loro Bilancio-programma per macchine desideranti (1973) come l’essere umano faccia sempre «macchina», vale a dire si concateni, faccia ingranaggio, con altre macchine o altre cose per realizzare ancora altre “macchine”: in un certo qual modo l’essere umano, nella sua parzialità di fondo, si configura come una macchina di macchina, valorizzando la sua costitutiva artificialità nella dimensione onni-comprensiva del vivente. Ciò che i due studiosi francesi rimarcano è in ogni caso l’importanza del compito di non risolvere tutto il ragionamento articolando un discorso sulla tecnica di segno unicamente antropologico, nel senso di mettere in luce soltanto l’adeguamento umano alla «macchina» o di quest’ultima alle movenze del costrutto/artificio che anche noi siamo. Ciò che viene così rifiutato è uno schema di comprensione dello sviluppo tecnico che si qualifica come «biologico ed evolutivo» nel momento in cui una «macchina» è afferrata come qualcosa di intervenuto in un momento particolare di sviluppo di un processo «meccanico» che ha come suo inizio un oggetto «semplice», quello che abitualmente si considera come utensile. Tale schema è per Deleuze e Guattari di tipo «umanista e astratto» poiché isola le forze produttive dalle condizioni sociali del loro esercizio, presupponendo quindi una dimensione essere umano/natura che risulta comune a tutte le formazioni sociali che si qualificano per il loro carattere evolutivo.
In breve: si tratta di uno schema immaginario, fantasmatico, solipsistico che non può risultare soddisfacente al fine di analizzare al meglio la consistenza e il valore/valere degli stessi utensili e soprattutto delle «macchine» reali. È nota la distinzione che così viene sottolineata tra l’utensile e la «macchina»: «L’uno è un agente di contatto, l’altra un fattore di comunicazione; l’uno è proiettivo, l’altra è ricorrente; l’uno si rapporta al possibile e all’impossibile; l’altra alla probabilità di un meno-probabile; l’uno operando per sintesi funzionale di un tutto, l’altra per distinzione reale in un insieme. Far ingranaggio con qualcosa è completamente diverso dal prolungarsi, dal proiettarsi o dal farsi rimpiazzare»[3].
Il limite dello schema tradizionale è dato dal fatto che esso non permette di cogliere come l’utensile e la macchina siano già o divengano «pezzi distinti di macchina in rapporto a un’istanza effettivamente macchinizzante» e al suo posto pare opportuno insistere, tra l’altro..., sull’invito a non isolare le forze produttive dalle condizioni sociali del loro esercizio, così come andrà a ribadire Theodor Wiesengrund Adorno in uno dei suoi confronti critici con Gehlen, negli anni Sessanta.
Fino a questo punto, le differenze sono nette ma bisogna anche restituire il Gehlen più propriamente sociologo, sia pure sempre su base antropologica, come emerge nel testo sulla condizione dell’«anima» nell’età della tecnica[4]. In tale ottica, a me sembrano importanti proprio alcune pagine del libro del ’57 nelle quali si ragiona su quella «trasformazione qualitativa» che consente di afferrare meglio anche la differenza tra la tecnica antica e quella moderna. Innanzitutto non si deve continuare a insistere su «singole macchine, utensili o scoperte», bensì si deve prestare particolare attenzione ai «mutamenti strutturali di intere aree culturali». Il respiro teorico che alimenta questa presa di posizione è indubbiamente weberiano e mi pare opportuno sintonizzarsi con esso, sia pure con dei distinguo non di poco conto a cui farò riferimento in conclusione di questo mio contributo.
Per approssimare i «mutamenti strutturali di intere aree culturali» che hanno ancora effetto sul nostro «quadro d’epoca», sulle «immagini del tempo» che consideriamo parzialmente ancora nostre, bisogna guardare alla forma moderna assunta nel XVII e XVIII secolo dalle scienze naturali: la qualifica sperimentale di queste ultime, liberate dal peso importante dell’osservazione casuale e da un eccesso di «pensiero speculativo», la loro espressione pure sotto veste di «dispositivi per gli esperimenti di fisica», di fatto paragonabili a macchine che non hanno come loro fine immediato quello della produzione di «effetti utilitari», bensì la delineazione di «puri fenomeni naturali isolati per astrazione», è ciò che fa sì che il processo naturale venga in un qualche modo «posseduto» e allora si può vedere nell’esperimento «il primo passo verso la sua applicazione tecnica». Gehlen coglie con chiarezza come ambiti della cultura più che rilevanti, quello delle scienze naturali e quello propriamente tecnico, che avevano proceduto seguendo vie realmente autonome salvo che per brevi tratti, trovino un collegamento metodico essenziale che ben raffigura come la tecnica abbia ripreso dalle scienze naturali «il ritmo pulsante del progresso», mentre le stesse scienze naturali, dal canto loro, abbiamo adottato dalla progressione tecnica «un atteggiamento più pratico, costruttivo, non speculativo»[5].
La superstruttura capitalistica
È a questo punto della sua riflessione che Gehlen svolta in una direzione particolarmente interessante, proprio quella di respiro weberiano, per così dire in prima approssimazione, nel momento in cui affianca ai motivi della tecnica e delle nuove scienze naturali quello decisivo, il terzo fattore rappresentato dall’affermazione piena della forma di produzione «capitalista» (le virgolette sono di Gehlen), con quella sua mentalità che affonda le radici, così si sostiene sempre weberianamente, nel XVII secolo: «Già l’invenzione, o meglio il perfezionamento della macchina a vapore da parte di James Watt venne finanziata da un capitalista che aveva interesse al suo sfruttamento industriale. Erano gli imprenditori, oppure gli stessi Stati interessati alla tecnica bellica (ad esempio il primo impiego della radiotelegrafia nella marina militare), coloro che mettevano a disposizione i mezzi finanziari necessari a far progredire le scoperte sperimentali ed a sfruttarle nella pratica»[6].
Fenomenologicamente, su un piano che si vuole appunto descrittivo, questo sforzo di ricostruzione «storica» ha come suo esito di afferrare lo stadio di complicazione in atto nel quale oggi ci troviamo, il «nostro» presente (siamo negli anni Cinquanta...), contraddistinto dall’affermazione di una «superstruttura» composta dal nesso mutevole di scienze naturali, tecnica e sistema industriale (sfruttamento industriale). Una variabilità che restituisce lo svilupparsi della ricerca scientifica (delle scienze naturali) in virtù di una progressione tecnologica inarrestabile, che permette di dischiudere «a forza la natura» e che va accelerata laddove appaia indispensabile, per quella forzatura e per i problemi che s’impongono, la realizzazione di sempre nuovi e più sofisticati apparecchi tecnici. Gli stessi risultati di questi ultimi sono ciò che poi alimenta, nella forma dei calcoli, l’impresa teorica. E tutto questo rinvia, sullo sfondo ma neppure troppo... ovviamente, alle «grandi imprese industriali» sempre più concretamente protagoniste nell’indirizzare direttamente la ricerca scientifica, con il finanziamento di propri istituti o con le opportune sovvenzioni agli istituti universitari o scientifici. La conclusione di Gehlen è a questo punto sinteticamente molto chiara e la riporto integralmente: «La concezione secondo cui la tecnica sarebbe una “scienza naturale applicata” è ormai superata e passata di moda; oggi le tre istanze – industria, tecnica e scienza naturale – si presuppongono a vicenda. Qual è il vero fondamento della chimica farmaceutica, la ricerca bio-chimica, l’azienda industriale che la conduce, oppure la sua organizzazione di produzione e di vendita? Oggi non ha più molto senso porsi tale questione»[7]. Da parte mia, manterrei però relativamente ferma la qualifica di segno capitalista della «superstruttura» delineata da Gehlen: un fondamento ancora c’è ed è infatti quello della legge del plusvalore, il che significa rilanciare il tema delle trasformazioni odierne del soggetto «di lavoro» e della sua metamorfosi antropologica nel tempo – nostro – della affermazione, per dirla con Christian Marazzi, del «modello antropogenetico» di sviluppo, cioè della «produzione dell’uomo attraverso l’uomo», secondo cui i fattori della crescita reale sono da riferire ai caratteri del complesso dell’agire umano, alle capacità comunicative, relazionali inventive[8].
Su quest’ultimo elemento di analisi non voglio però soffermarmi ulteriormente. Mi interessa invece riprendere, per concludere, un altro punto di attenzione rispetto a quello che ho cercato sopra di riassumere. È, in sintesi estrema, quello che riguarda adornianamente il motivo della «società industriale» e della «razionalità tecnica». Proprio nella discussione con Gehlen del febbraio del ’65, il critico francofortese ribadisce come nel concetto di «società industriale» s’intreccino due motivi che pare opportuno separare: quello dello sviluppo della tecnica (da afferrare parzialmente anche in senso antropologico, ma ciò non è sufficiente per spiegarne la direzione), più in generale: delle forze produttive, e quello dei rapporti sociali di produzione. Se non si riflette opportunamente su tale distinzione, il pericolo a livello d’indagine, quello che ancora oggi frequentemente si corre, è dato da un ragionare unicamente su formule con un alto grado di astrattezza, ad esempio quella della «razionalità tecnica», attribuendo ad essa ciò che in effetti non dipende «tanto dalla ratio stessa quanto dalla particolare costellazione», che altrove Adorno definisce come complesso di elementi «intra-storici», proprio per spiegare l’utilizzo del termine di matrice benjaminiana, e che qui vale nel senso di rinviare la ratio stessa allo logica propria del funzionamento di una particolare «società di scambio»[9].
Note [1] E. Livraghi, Il silicio e l’episteme, in Id., a cura di, La carne e il metallo. Visioni, storie, pensiero del cybermondo, Il Castoro, Milano 1999, p. 92. Di Pierre Lévy si veda Il virtuale, trad. it. di M. Colò – M. Di Sopra, Cortina, Milano 1997, oltre che L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, trad. it. di M. Colò – D. Feroldi, Feltrinelli, Milano 1996. [2] A. Gehlen, La tecnica vista dall’antropologia, in Id., Prospettive antropologiche, trad. it. di S. Cremaschi, presentazione di G. Poggi, il Mulino, Bologna 1987, p. 132. [3] G. Deleuze – F. Guattari, Bilancio-programma per macchine desideranti, trad. it. di M. Guareschi, introduzione e cura di U. Fadini, ombre corte, Verona 2012, p. 80. [4] Il titolo dell’opera gehleniana del ’57 è infatti Die Seele im technischen Zeitalter, tradotto da noi come L’uomo nell’era della tecnica (riprendo qui l’edizione curata da M.T. Pansera, Armando, Roma 2003). [5] Cfr. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., pp.3 6-37. [6] Ivi, p. 37. [7]Ibid. [8] In questa prospettiva, rinvio ai miei Divenire corpo. Soggetti, ecologie, micropolitiche, ombre corte, Verona 2015 e Fogli di via. Ai margini dell’antropologia filosofica, Clinamen, Firenze 2018. [9] Cfr. T.W. Adorno – Arnold Gehlen, La sociologia è una scienza dell’uomo? Una disputa, in T.W. Adorno – E. Canetti – A. Gehlen, Desiderio di vita. Conversazioni sulle metamorfosi dell’umano, trad. it. e cura di U. Fadini, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 84-86.
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Ubaldo Fadini insegna Filosofia morale presso l’Università di Firenze. Fa parte dei comitati di redazione e dei comitati scientifici di numerose riviste, tra cui «Aisthesis», «Iride», «Millepiani», «Officine filosofiche». Tra i suoi lavori più recenti: Il tempo delle istituzioni (2016), Il senso inatteso (2018), Velocità e attesa (2020), Attraverso Deleuze (2021), Eterotopie dell’umano (2022).
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