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Marx: un’introduzione alla critica dell’economia politica



Riprendendola da Genealogie del futuro (ombre corte, 2013) pubblichiamo un’altra fondamentale lezione per comprendere le basi marxiane della critica dell’economia politica. In questo testo Adelino Zanini, utilizzando in particolare il Libro primo de Il capitale, ripercorre i concetti, il metodo e gli obiettivi principali dell’analisi di Marx, a partire dalla critica degli economisti classici (Smith, Ricardo, Malthus). Per mostrare come il progetto del Moro di Treviri non fosse quello di scrivere un peraltro impossibile «libro corretto» di economia politica, ma di forgiare uno strumento teorico di parte, utile a interpretare-per-sovvertire la realtà sociale.


Immagine: Gronk


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1. Non ho di certo la presunzione di affrontare i molti aspetti inerenti alla critica dell’economia politica in Marx – questione assai articolata, da un punto di vista tematico e storiografico, poiché numerosi sono i problemi connessi ai testi, differenti per maturazione, difficoltà e sistematicità, e (superfluo il ricordarlo) innumerevoli le interpretazioni, alcune davvero «epocali». Vorrei semplicemente ragionare su Marx e la critica dell’economia politica, sviluppando un’argomentazione del tutto basilare, forse utile per coloro che, per ragioni, diciamo così, generazionali, meno abbiano frequentato quei testi che, per le generazioni precedenti, erano stati «formativi».

A tal proposito sarà necessario partire dalla definizione stessa, se è lecito utilizzare questo termine. Critica dell’economia politica è locuzione che ha in effetti un valore fondativo: non solo il titolo dato da Marx al testo del 1859 (Zur Kritik der Politischen Ökonomie) e il sottotitolo de Il capitale. Rappresenta anche, e soprattutto, l’espressione di un progetto. In primo luogo, è perciò necessario definire il perimetro problematico dell’economia politica, che per Marx si distingue in economia politica classica, o scientifica, e nella cosiddetta economia volgare. Bene, per comprendere esattamente la critica dell’economia politica occorre avere chiara questa distinzione: gli economisti classici, scientifici (Smith, Ricardo, Malthus), non sono in alcun modo assimilabili ai cosiddetti economisti volgari o a quelli che Marx definisce «pugilatori a pagamento», semplicemente interessati a difendere lo status quo. La critica dell’economia politica marxiana ha a che fare esplicitamente con l’economia politica classica, scientifica, e incidentalmente – in forma più o meno estesa, a seconda dei testi – con l’economia volgare.

Per quanto riguarda il termine critica, esso ha per Marx un significato abbastanza ampio e al tempo stesso definito. Se è infatti vero che l’oggetto della critica dell’economia politica ha una sua indiscutibile scientificità, è pure vero che la critica marxiana non si rivolge esclusivamente all’aspetto scientifico delle categorie interpretative della political economy classica. È in questione anche il valore ideologico che assume una tale scientificità, rispetto alla quale è perciò pertinente una critica politica intesa a demistificare, all’interno dello stesso progetto scientifico, ciò che è funzionale al mantenimento dello status quo. Questa tridimensionalità della critica (che non si esaurisce nel campo dell’economia politica) è molto rilevante e l’equilibrio tra le questioni affrontate deve essere sempre attentamente ponderato e mantenuto.

Una volta che questo sia chiaro, si tratta di indicare, inoltre, qual è il Marx che vogliamo «introdurre». A tal proposito, dopo alcuni decenni di dibattiti accesi – ad esempio, circa il primato da attribuirsi, in termini di analisi attuale e di utilizzabilità politica, ai Grundrisse –, mi sembra possibile e utile riprendere in mano anche il Libro primo de Il capitale, senza per questo rinunciare a impliciti riferimenti ad altri testi. Certo, dato l’approccio introduttivo di questo colloquio, è scelta obbligata, che non porta con sé, peraltro, alcuna ricerca di un Marx «autentico»; porta con sé, piuttosto, la rinuncia a molte questioni cruciali, prima fra tutte l’analisi della teoria delle crisi, vincolata alla cosiddetta caduta tendenziale del saggio del profitto – ma non solo e non principalmente: il divario progressivo nei livelli di distribuzione mondiale della ricchezza e gli effetti che ne conseguono per la tenuta dello stesso processo di accumulazione capitalistica dicono, oggi, molto più di quanto non dica un’algebra su cui molto si è disputato. Del resto, una scelta diversa richiederebbe di percorrere un tragitto eccessivamente lungo e articolato, da cui emergerebbe una massa ingente di questioni mai chiuse e su cui verte – lo ripeto – un’ampia storiografia, che sarebbe impossibile trascurare. Accontentiamoci dunque di ragionare sulle prime tre sezioni del Libro primo de Il capitale.


2. Secondo Marx occorre muovere dalla circolazione semplice, ossia, dal ciclo M-D-M (Merce-Denaro-Merce). Dopo aver ampiamente trattato la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio, con i dovuti riferimenti ad Aristotele, e una volta assodata la differenza che intercorre tra di essi – in quanto il valore d’uso ha a che fare con il diretto soddisfacimento di un determinato bisogno, mentre il valore di scambio rappresenta una forma astratta di ricchezza –, Marx sostiene che la ricchezza delle società in cui prevale il modo di produzione capitalistico si presenta come un’immane raccolta di merci. Come noto, la forma-merce è un concetto basilare, la cui rilevanza può essere intesa pur evitando di soffermarci su paragrafi e capitoli in cui Marx tratta dei possibili rapporti relativi di valore e di equivalenza tra merci differenti. Mi sia inoltre concesso di trascurare anche l’importante questione del feticismo; ovvero, il carattere «mistico» della merce, che fa dei rapporti sociali tra individui meri rapporti oggettivati nei prodotti del loro lavoro astratto. Non perché sia questione da poco, com’è chiaro, ma per la ragione opposta.

La circolazione semplice, dicevamo. Ebbene, a essa segue quella che Marx definisce la trasformazione del denaro in capitale, cioè il ciclo D-M-D: denaro-merce-denaro. Nel primo caso (M-D-M), un possessore di merci traduce una determinata merce in una somma di denaro per poter disporre di un bene del cui valore d’uso egli abbisogna. L’operazione si conclude perciò nel consumo, che compie il processo di scambio. Cedendo una merce del cui valore d’uso non abbisogno, ottengo il denaro necessario per l’acquisto di una merce del cui valore d’uso invece abbisogno. Come scrive Marx, il ciclo M-D-M comincia da un estremo, che è una merce, e si conclude con un estremo, che è un’altra merce, la quale esce dalla circolazione per finire nel consumo. Quindi il suo scopo è la soddisfazione di un bisogno determinato, in una parola, un valore d’uso.

Se consideriamo invece il ciclo D-M-D, è evidente come l’argomentazione sopraccitata non possa essere qui sostenuta. In questo secondo caso, si muove da una somma di denaro che si converte in una merce, la quale a sua volta si ritraduce in una somma di denaro. Nessun valore d’uso è qui apparentemente chiamato in causa. Ma è altrettanto evidente, argomenta Marx in un celebre passaggio, che nessuno è così sciocco da perdere il suo tempo scambiando una quantità di denaro data, per tornare ad avere la stessa quantità di denaro. O meglio, il processo di circolazione D-M-D sarebbe privo di senso qualora si volesse servirsene come d’una via indiretta per scambiare l’identico valore in denaro. Evidentemente, l’operazione è sensata solo in quanto generi un surplus, trasformando il denaro in «più-denaro», ovvero in capitale: D-M-D’ – dove D’ sarà uguale al denaro anticipato più un incremento di valore.

Nel ciclo M-D-M, la distinzione qualitativa era fondamentale, perché si trattava di un processo che si concludeva in un atto di consumo. L’acquisizione di una merce avente un diverso valore

d’uso faceva sì che lo scambio tramite denaro avesse a che fare con una distinzione qualitativa. Viceversa, il ciclo D-M-D non è un processo teleologico, caratterizzato da una distinzione qualitativa avente come fine il soddisfacimento di un bisogno. Al contrario, abbiamo qui a che fare semplicemente con una differenza quantitativa: al termine del processo si verifica un incremento puramente quantitativo, poiché il denaro non ha nessuna qualità. Esso è, come dice Marx, un equivalente generale. Siamo, in altre parole, a fronte di quello che egli definisce una valorizzazione del valore, cioè alla trasformazione del denaro in capitale.


«La circolazione semplice delle merci – la vendita per la compera – serve di mezzo per un fine ultimo che sta fuori della sfera della circolazione, cioè per l’appropriazione di valori d’uso, per la soddisfazione di bisogni. Invece, la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato» (K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1972, I, 1, p. 168).


Ciò significa che bisogna pensare il processo nei termini D-M-D’...Dn, perché solo in questo caso il consumo non esaurisce lo scambio e genera invece una differenza quantitativa, la quale esiste per essere costantemente incrementata. La valorizzazione del valore, dice Marx, è il fine soggettivo del possessore di capitale e ciò che lo qualifica come capitalista. «Quindi il valore d’uso non deve essere mai considerato fine immediato del capitalista. E neppure il singolo guadagno: ma soltanto il moto incessante del guadagnare» (ivi, p. 169).

Va da sé che il Δ generato altro non è che un plusvalore. Si potrebbe però sollevare un’obiezione. Supponiamo che qualcuno che dispone di una somma di denaro comperi merci per rivenderle a un prezzo maggiore: non potremmo ugualmente trovarci di fronte a un incremento di valore, senza per questo dover supporre chissà quale artificio? In fondo, il capitale commerciale ebbe un ruolo dominante nel corso di importanti epoche storiche. Vero. Dietro a esso – osserva Marx – vi era però qualcosa di invisibile. Dovrebbe infatti risultare evidente che se un individuo compra una merce per rivenderla più cara, nel momento in cui egli diverrà acquirente, si troverà a fronte di una situazione rovesciata, nella quale perderà il vantaggio di cui aveva precedentemente goduto. In breve, non può essere sostenuta l’idea che il plusvalore emerga semplicemente da un comprare per rivendere a prezzi aumentati. O meglio, «è impossibile che dalla circolazione scaturisca capitale; ed è altrettanto impossibile che esso non scaturisca dalla circolazione. Deve necessariamente scaturire in essa e insieme non in essa» (ivi, p. 182). Insomma, «il cambiamento deve verificarsi nella merce che viene comprata nel primo atto, D-M, ma non nel valore di essa, poiché vengono scambiati equivalenti, cioè la merce viene pagata al suo valore. Il cambiamento può derivare dunque soltanto dal valore d’uso della merce come tale, cioè dal suo consumo» (ivi, p. 184).


3. Una tale caratteristica non è però rinvenibile in una merce qualsiasi e ciò pone il problema di individuare quale sia quella merce il cui consumo può produrre un incremento di valore. Com’è chiaro, in questo caso, il consumo non potrà che essere un atto trasformativo e consistere, quindi, in un processo entro il quale si esplica una capacità peculiare. E l’unica merce il cui valore d’uso, il cui consumo, all’interno del processo lavorativo, può generare un processo di valorizzazione, è la forza-lavoro o capacità di lavoro, «l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere» (ibidem).

Quindi, nel ciclo D-M-D’, D rappresenterà una somma di denaro con cui si comprano merci, consistenti in capitale fisso (strumenti di produzione o macchinari), materie prime e forza-lavoro. A questo punto, grazie alla peculiare capacità trasformativa della forza-lavoro, dal rapporto tra le merci acquistate con il denaro anticipato dal capitalista – cioè tra lavoro oggettivato, morto, e lavoro vivo – scaturirà non la riproposizione di M, ma la produzione di una nuova merce, con un nuovo valore d’uso. Da questo processo deriverà altresì l’incremento di valore che in altro modo sarebbe stato ingiustificabile. Solo il lavoro vivo, la forza-lavoro, ha la capacità, consumando se stessa, di valorizzare il resto. In altri termini, la forza-lavoro applicata al lavoro oggettivato è il fulcro del processo lavorativo (di una trasformazione che produce nuovo valore d’uso) a cui è contemporaneo un processo di valorizzazione.


«Tuttavia, affinché il possessore di denaro incontri sul mercato la forza-lavoro come merce debbono essere soddisfatte diverse condizioni. In sé e per sé, lo scambio delle merci non include altri rapporti di dipendenza fuori di quelli derivanti dalla sua propria natura. Se si parte da questo presupposto, la forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza-lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona» (ibidem).


Ciò significa, in primo luogo, che egli non è schiavo. Si deve cioè presupporre che esista una forza-lavoro formalmente libera, condizione a cui consegue che l’operaio non vende mai se stesso, ma solo le prestazioni del proprio corpo e della propria mente e per un tempo determinato (giornata lavorativa). Inoltre, il venditore di forza-lavoro è tale in quanto non ha alcuna altra possibilità di vendere nessun’altra merce. Possiede solo la propria forza-lavoro: non può vendere null’altro che la propria forza-lavoro e solo pro tempore.

Questa argomentazione è di notevole rilevanza, anche da un punto di vista giuridico, in quanto affermare che il lavoratore è libero proprietario della propria capacità di lavoro significa che lo scambio in cui si stabilisce il salario avviene tra equivalenti. È cioé presupposto che chi vende la propria forza-lavoro lo faccia accettando liberamente le condizioni poste. Non è quindi possibile supporre che il processo di sfruttamento avvenga nella fase D-M; ciò implicherebbe infatti la possibilità di comprare una merce a un valore che non è il suo. E poichè questa circostanza non è ammissibile – in quanto nessun libero proprietario sarà disposto a cedere quanto possiede a un prezzo inferiore a quello di mercato –, l’acquisizione della merce forza-lavoro rispetterà esattamente tutte le regole che caratterizzano l’acquisto di qualsiasi altra merce.

Detto questo, va tuttavia aggiunto che:


«La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall’altra puri e semplici possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazioni più antiche della produzione sociale» (ivi, p. 186).


Marx fa riferimento al cosiddetto processo di accumulazione originaria, ovvero a una serie di eventi storici che alla soglia dell’età moderna avrebbero definito il profilarsi di una nuova classe proprietaria, a fronte di una classe non proprietaria. La prima constava essenzialmente di possessori di terre i quali, riconvertiti i loro capitali, avrebbero avviato il nuovo ciclo del capitale industriale, acquisendo la forza-lavoro «liberata» dai vincoli feudali e/o premoderni. Espropriazione della popolazione rurale e sua espulsione dalle terre, legislazione sanguinaria contro gli espropriati e connessa riduzione dei salari, creazione di un mercato interno per il capitale industriale: in quest’evoluzione storica, caratterizzata dalla violenza generatrice la separazione del lavoratore dalla proprietà delle condizioni oggettive del processo lavorativo, consiste per Marx l’accumulazione originaria, la preistoria del capitale, il cui tratto violento renderebbe ragione dell’esistenza di liberi lavoratori, nel duplice significato di non-schiavi e di privi (perché liberi dai) dei mezzi di produzione (cfr. il capitolo XXIV de Il capitale).


4. Anche in questo caso, si tratta di una questione di grande rilevanza, che non è possibile affrontare nei suoi diversi aspetti, molti dei quali controversi: sia sul piano della ricerca storica, sia su quello più strettamente paradigmatico. Torniamo invece all’analisi del processo lavorativo e del processo di valorizzazione. Entrambi, come già accennato, sono per Marx frutto dell’interazione tra lavoro passato, oggettivato, e forza-lavoro quale capacità trasformatrice, presente. Strumenti di produzione e materie prime, quali oggettivazione di lavoro umano passato, accumulato, costituiscono un lavoro morto. La forza-lavoro, al contrario, è una capacità, una potenzialità, un lavoro vivo in grado di rivitalizzare ciò che è morto, così da generare nuovi valori d’uso tramite un processo interattivo (lavorativo) che è, a un tempo, trasformazione di vecchi valori d’uso e produzione di nuovo valore (valorizzazione). Ma com’è possibile che ciò avvenga, se il punto di partenza è uno scambio di equivalenti tra liberi proprietari? A tal riguardo è necessario affrontare, anche in questo caso in maniera assolutamente schematica, la questione del salario.

Nell’ipotesi di Marx, così come nell’ipotesi degli economisti classici, il salario è ciò che paga il lavoro erogato garantendo la sussistenza del lavoratore – sussistenza da intendersi non in modo meramente organico, ma sociale. Detto questo, il salario consterà di una somma di denaro stabilita in anticipo sulla base di un libero scambio. Come più sopra detto, tale «anticipazione» spiega perché essa sia formalmente una remunerazione equa. Nella realtà avviene tuttavia qualcosa di ben differente. Supponiamo una giornata lavorativa di otto ore: se è vero che il capitale oggettivato è di per sé incapace di valorizzarsi, qualora l’intera durata servisse solamente a coprire il capitale anticipato in beni salario, non si genererebbe in alcun modo l’incremento rappresentato dal Δ presente in D’. Quindi, una parte delle otto ore servirà a pagare il salario, mentre l’altra parte dovrà dare luogo a un incremento di valore. Ebbene, quest’ultimo è, dal punto di vista della forza-lavoro, ciò che Marx definisce lavoro non pagato; qualcosa, cioè, che si realizza dopo che il costo rappresentato dal salario è stato riprodotto. Osservato dal punto di vista della circolazione, si tratta di un processo perfettamente equo, perché lo scambio è, giuridicamente, scambio di equivalenti tra liberi proprietari. Ma la prospettiva cambia nel momento in cui si indaghi circa il che cosa paga davvero il salario anticipato.

Partendo dall’assunto che alla fine si dovrà verificare un incremento di valore, si potrebbe ipotizzare che sei delle otto ore costituenti la giornata lavorativa servano a pagare il salario, mentre le due ore rimanenti costituiscano lavoro non pagato, quindi, plusvalore. Ovviamente – come Marx dice – l’operaio non fa un lavoro duplice nello stesso periodo di tempo: non lavora prima per sé e poi per il padrone. Il «doppio carattere» del lavoro è all’opera sin dall’inizio e quindi, nello stesso periodo di tempo, chi lavora ripaga il proprio salario e produce plusvalore. Ecco la fondamentale (in)-distinzione tra lavoro necessario e pluslavoro, tra la parte della giornata lavorativa che costituisce il salario e la parte che consiste di lavoro non pagato. Una distinzione possibile però solo a posteriori. Infatti, la natura peculiare di quella merce specifica che è la forza-lavoro «ha per conseguenza che, quando è concluso il contratto fra compratore e venditore, il suo valore d’uso non è ancor passato realmente nelle mani del compratore» (ivi, p. 191). Il salario stabilito paga il valore di scambio al fine di disporre del particolare valore d’uso della merce forza-lavoro, il quale si esplica solo nell’interazione costituita dal processo lavorativo, che deve essere però, a un tempo, anche processo di valorizzazione.

Se è infatti vero che nessuno vende per meno ciò che può vendere per più, il capitalista, secondo Marx, paga l’effettivo valore di scambio della forza-lavoro, acquisendo però un valore d’uso che è molto specifico perché, come si è detto sopra, è l’unico in grado di generare un processo di valorizzazione. Ed è proprio tramite questo valore d’uso che il capitalista acquisisce la specifica capacità di generare nuova ricchezza: «Il valore d’uso che il possessore del denaro riceve, per parte sua, nello scambio, si mostra soltanto nel consumo reale, nel processo di consumo della forza-lavoro» (ivi, p. 193). Per processo di consumo della forza-lavoro si intende quindi la sua capacità, unica, di trasformare ciò che altrimenti rimarrebbe lavoro morto. Pertanto, il processo di valorizzazione non avviene nello scambio, dove sussiste esclusivamente il criterio di equivalenza, ma nel momento in cui il lavoro vivo plasma il lavoro morto.


Il processo lavorativo come l’abbiamo esposto nei suoi movimenti semplici e astratti, è attività finalistica per la produzione di valori d’uso, appropriazione degli elementi naturali pei bisogni umani, condizione generale del ricambio organico tra uomo e natura. [...] Il processo lavorativo è un processo che si svolge fra cose che il capitalista ha comprato, fra cose che gli appartengono. Dunque il prodotto di questo processo gli appartiene come gli appartiene il prodotto del processo di fermentazione della sua cantina (ivi, p. 202).


Ma per il capitalista si tratta di ottenere due risultati in una volta sola:


«in primo luogo egli vuol produrre un valore d’uso che abbia un valore di scambio, [...], una merce; e in secondo luogo vuol produrre una merce il cui valore sia più alto della somma dei valori delle merci necessarie alla sua produzione, i mezzi di produzione e la forza-lavoro, per le quali ha anticipato sul mercato il suo buon denaro. Non vuole produrre soltanto un valore d’uso, ma una merce, non soltanto valore d’uso, ma valore, e non soltanto valore, ma anche plusvalore» (ivi, pp. 204-205).


Quindi, «[c]ome la merce stessa è unità di valore d’uso e valore, anche il processo di produzione della merce deve essere unità di processo lavorativo e di processo di formazione di valore» (ivi, p. 205).

Ma ciò non basta. Se confrontiamo il processo di creazione di valore e il processo di valorizzazione notiamo infatti che il primo dura soltanto fino al punto in cui il valore della forza-lavoro pagato dal capitale è sostituito da un nuovo equivalente, mentre il secondo dura al di là di quel punto.


5. Incontriamo qui la fondamentale distinzione tra capitale costante e capitale variabile. Per capitale costante si intende qualcosa che mantiene invariato il suo valore nel tempo, mentre il capitale variabile è tale in quanto ciò che esso acquista (forza-lavoro) produce una valorizzazione. In altri termini, il capitalista dispone di una somma di denaro, con cui compra mezzi di produzione e materie prime (capitale costante) e forza-lavoro (capitale variabile). Dalla loro interazione deriva il processo lavorativo, che è tutt’uno con il processo di valorizzazione.

La distinzione tra capitale costante e capitale variabile altro non fa che riproporre quella tra lavoro morto e lavoro vivo; ma essa assume grande rilevanza quando si tratti di considerare non il profitto – come poi diremo –, ma il calcolo del saggio del profitto, quando si tratti di considerare non il plusvalore, ma il calcolo del saggio del plusvalore; infine, nel momento in cui occorra considerare la differenza, importantissima per Marx, tra saggio del profitto e saggio del plusvalore.

Consideriamo anzitutto quali forme assuma il plusvalore, quel D di cui si è parlato precedentemente. Secondo Marx il plusvalore può essere assoluto o relativo. Il plusvalore assoluto si dà là dove esista quella che viene definita sussunzione formale della forza-lavoro al capitale: il plusvalore relativo si dà invece ove esista la sussunzione reale della forza-lavoro al capitale.

Si immagini un processo di produzione al cui interno lo sfruttamento del lavoro possa essere incrementato solo attraverso l’aumento dell’orario di lavoro a salario invariato; in tal caso, il plusvalore potrà aumentare solo estendendo la giornata lavorativa. Se ipotizziamo che le ore, anziché restare otto, diventino dieci (fermo restando il salario), la giornata lavorativa sarà ora costituita da sei ore di lavoro necessario più quattro ore di pluslavoro. Ecco il plusvalore assoluto, il quale incontra però un vincolo organico, che consiste nell’impossibilità di estendere oltre un determinato limite la giornata lavorativa. Per questa ragione la sussunzione è solo formale.

L’incremento della produttività del lavoro è ovviamente molto maggiore quando si consideri la sussunzione reale. Per sussunzione reale si deve supporre che esista un processo produttivo in cui la produttività, legata all’impiego di macchinari, possa essere aumentata in modo significativo, a parità di orario e di salario. In tal caso, per aumentare lo sfruttamento del lavoro non è cioè necessario aumentare il numero delle ore lavorate e che costituiscono il pluslavoro, serve invece aumentare il grado di sfruttamento della forza-lavoro. Aumentando l’intensità di lavoro sarà possibile, a giornata lavorativa data, aumentare la massa del plusvalore.

In sintesi, nel calcolo del plusvalore assoluto si suppone che la quantità di lavoro contenuta nei mezzi di sussistenza sia data e quindi che sia data la situazione tecnologica dell’intero sistema economico. Ne consegue che l’allungarsi della giornata lavorativa farà crescere automaticamente il plusvalore. Nel calcolo del plusvalore relativo, invece, la situazione tecnologica dell’intero sistema economico è considerata soggetta a mutamento, a un progresso che si risolve in una diminuzione del valore delle merci e, dunque, anche del capitale variabile impiegato. Pertanto, benché la giornata lavorativa rimanga la stessa, il saggio del plusvalore aumenterà.

Il passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale è storicamente riconducibile, per Marx, al momento in cui si realizza il passaggio al capitalismo sviluppato. È tuttavia doveroso sottolineare, e su questo Marx è molto chiaro, come non si debba affatto pensare a una linearità o a una consequenzialità puramente meccanica, secondo cui là dove c’è sussunzione reale non ci sarebbe più sussunzione formale. In realtà, entrambe le forme possono convivere nella stessa organizzazione sociale: ad esempio, aumentando contemporaneamente, per quanto possibile, l’orario di lavoro e l’intensità dello sfruttamento: plusvalore assoluto e relativo. Situazione tipica non solo della transizione verso il capitalismo sviluppato, ma anche del modo in cui, in esso, convivono diversità geografiche, di genere, di tutela ecc. Diversità al cui interno si danno poi altre stratificazioni e diversificazioni – ad esempio, di tipo generazionale. Qualcosa di molto attuale...

Si è già accennato all’importanza che caratterizza la differenza fra capitale costante e capitale variabile quando si tratti di considerare la distinzione fra saggio del profitto e saggio del plusvalore o di sfruttamento. Eccoci dunque al punto. Profitto e/o plusvalore sono entrambi costituiti dall’incremento prodotto dalla forza-lavoro nel processo di valorizzazione sopra descritto. Si tratta di due diverse «categorie» che descrivono una medesima realtà fenomenica: il surplus, il ΔD presente in D’. Quando si tratti di considerare però il saggio di sfruttamento (il rapporto relativo che effettivamente esprime la differenza che connota il capitale variabile in quanto forza-lavoro e in quanto classe operaia), non solo, quindi, la massa del plusvalore, allora, i «nomi» che esprimono una medesima realtà fenomenica assumono significati molto diversi.

Nel saggio di profitto, il ΔD è posto da Marx al numeratore, mentre al denominatore si trova l’insieme del capitale anticipato: costante e variabile. Se tuttavia si ragiona utilizzando le medesime categorie marxiane, non si vede la ragione per la quale il lavoro morto, entità costante, debba essere posto al denominatore. Qual è il rapporto tra l’incremento generato e ciò che non è di per sé in grado di produrre incremento alcuno? Solo il capitale variabile, la parte che genera valorizzazione, andrà dunque al denominatore: solo a questo modo otterremo un rapporto significativo, espresso nel saggio del plusvalore.

Detto ciò, è evidente che il saggio di profitto sarà sempre inferiore al saggio di plusvalore. Per questa ragione, solo quest’ultimo, secondo Marx, rappresenta l’effettivo saggio di sfruttamento, mentre il modo in cui si calcola il profitto costituisce una forma non solo parziale, ma anche ideologica, che maschera lo sfruttamento, proprio perché, ponendo al denominatore anche la parte costante, si assume ciò che non è ammissibile, ossia, che il lavoro morto sia in grado di produrre una valorizzazione. Come si legge nel Libro III de Il capitale, nel plusvalore è messo a nudo il rapporto fra capitale e lavoro; mentre nel rapporto fra capitale e profitto, il capitale si presenta come rapporto rispetto a se stesso, un rapporto in cui esso capitale si differenzia come somma di valore originaria da un nuovo valore da esso creato.

Sul piano contabile, com’è ampiamente noto, il plusvalore in quanto profitto ha creato una lunga teoria di fondatissime contestazioni, che hanno con dotto sempre e comunque alla famosissima quaestio della «trasformazione» dei valori in prezzi: presunta uniformità del saggio del plusvalore, non omogeneità della composizione organica dei diversi capitali impiegati, disuguaglianza dei saggi di profitto, rapporti di scambio diversi dai valori ecc. In sostanza, il ragionamento marxiano tiene in quanto si assuma – cosa non semplicissima da fare – che si possa ragionare in termini di valori e non di prezzi, che esista un unico (medio) saggio di profitto nell’intero sistema economico (altra questione che ha sollevato molte obiezioni), e qualora si assuma, questione non meno spinosa, che la produttività del capitale fisso sia davvero inesistente.

Questioni fondatissime, rispetto alle quali l’algebra marxiana non dà risposte soddisfacenti, ragion per cui è davvero superfluo cercare un’adeguata tecnica di calcolo in Marx. Del resto, non esiste un’algebra economica «neutra», che soddisfi necessariamente le generazioni successive; e l’algebra di Marx è ovviamente figlia del proprio tempo e porta con sé i molti limiti che sarebbero stati poi affrontati, discussi, non necessariamente risolti, dalle generazioni successive di studiosi; ma anche questa è una questione che dovrà essere tralasciata, senza per questo rimuovere i problemi che di fatto ineriscono allo statuto stesso della critica dell’economia politica. In altri termini, se sarebbe certamente sciocco rivendicare di per sé la correttezza formale di un’algebra di parte, più sensato è il chiedersi quali siano i presupposti che la fondano.


6. L’intenzione di Marx, in effetti, non può essere colta nel punto più debole dell’argomentazione, ma in quello più fondato, ossia nella differenza specifica della forza-lavoro, che produce valorizzazione e con ciò le condizioni stesse della propria realizzazione negativa. Questo è il nocciolo su cui sin qui si è ragionato. Marx insiste ripetutamente su tale differenza; essa rappresenta la qualità che connota il capitale variabile in quanto forza-lavoro.


Poichè il processo di produzione è insieme processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista, il prodotto del lavoro non solo si converte continuamente in merce, ma anche in capitale: valore che succhia la forza creatrice di valore [...]. Quindi l’operaio stesso produce costantemente la ricchezza oggettiva in forma di capitale, potenza a lui estranea, che lo domina e lo sfrutta, e il capitalista produce con altrettanta costanza la forza-lavoro in forma di fonte soggettiva di ricchezza (ivi, I, 3, p. 14).


Il concetto di riproduzione, fondamentale in Marx, rappresenta, in forma ciclica, il processo economico (una delle acquisizioni cruciali dell’analisi economica moderna), all’interno del quale la differenza esprime una moltiplicazione di sé medesima.


Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato (ivi, p. 22).


La riproduzione può essere semplice o allargata, la differenza sta nel modo in cui si impiega quel ΔD di cui si è discusso. Supponiamo, in prima ipotesi e in forma semplificata, che il ΔD sia interamente accantonato dal possessore di denaro e quindi sottratto alla circolazione: in questo caso, siamo a fronte di un processo che di volta in volta si riproduce in maniera semplice, ovvero il possessore compra merci investendo in capitale costante e capitale variabile, produce una nuova merce, la vende, ricava un incremento di valore, che poi accantona. Questo incremento di valore non potrà perciò riapparire investito nel processo produttivo successivo. In sostanza, la riproduzione semplice prefigura una società statica.

Le cose vanno tuttavia diversamente quando il ΔD venga reimpiegato e quindi si muova da D’ e non da D, perché, una volta che il capitalista non accantoni il ΔD, ma lo reinvesta, questo fa sì che egli possa acquisire una quantità maggiore di mezzi di produzione e forza-lavoro, da cui emergerà una massa crescente di pluslavoro, ossia, di lavoro non pagato. Il ciclo assume in questo caso una forma allargata (D’-D’’...Dn). Di volta in volta, viene reinvestito l’intero surplus o parte d’esso, al fine di moltiplicare gli effetti generati da una differenza specifica: la forza-lavoro. E in ciò consiste il processo di realizzazione negativa della forza-lavoro.

Si parla di realizzazione negativa della forza-lavoro in quanto il ΔD risulta essere frutto di un processo di valorizzazione soggettiva. A questo punto, il dire che la natura non crea possessori di forza-lavoro da una parte e possessori di denaro dall’altra assume un significato pregnante, dato che, grazie al ΔD è possibile acquisire non solo nuovo capitale costante, ma anche nuovo capitale variabile: la forza-lavoro riproduce cioè se stessa come merce e le condizioni del proprio sfruttamento.

Il capitalismo è esattamente questo: riproduzione allargata e realizzazione negativa della forza-lavoro. La forza-lavoro che riproduce le condizioni del proprio sfruttamento, riproduce salario e, con esso, le condizioni di sfruttamento di nuova forza-lavoro, allargamento del mercato del lavoro e quindi maggior sfruttamento. Questo rappresenta l’aspetto basilare, da cui muovere, della critica dell’economia politica. Processo di riproduzione allargata e processo di realizzazione negativa della forza-lavoro divengono il punto di partenza in base al quale assume senso tutto il resto, in primis, la teoria della crisi legata alla trasformazione della forza-lavoro in classe operaia.

E qui non c’è algebra che tenga. Il progetto di Marx non era infatti quello di scrivere un improbabile «libro corretto» di economia politica – ciò che nei fatti mai nessuno poté scrivere, né prima, né dopo –, ma di forgiare uno strumento teorico di parte, utile a interpretare-per-sovvertire una realtà sociale che, nel corso del tempo, si sarebbe certo alquanto modificata, senza per questo poter togliere ciò che della forza-lavoro è tratto specifico.

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