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Maastricht, Losanna e Sarajevo: tra fumo e un rossetto blu post 1989


Anni Novanta

Un testo di Simona La Neve che racconta lo spirito del tempo dei Novanta per la cartografia dei decenni smarriti di Machina.


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Un muro di mattoni. Gli occhi attoniti e poi crash! È il crollo davanti agli occhi di un pubblico costretto a chiedersi se è il Teatro Wuppertal, in Germania, nel dicembre del 1989, il luogo in cui si sono recati. Fumo negli occhi e luci a neon. È la coreografa-regista tedesca Pina Bausch ad aver inscenato il suo spettacolo profetico, già qualche mese prima di quel 9 novembre 1989. È così, con una traccia di rossetto blu a segnare una «X», sul viso della prima ballerina della pièce, dal titolo Palermo Palermo, che iniziano gli anni Novanta. Tra fumo e cere gelificate di bellezza, con una soave musica di Marilyn Monroe. Tanto in uno spettacolo, quanto in un decennio. Ma se già Debord a fine anni Sessanta ci diceva che l’intera vita delle società, gestita dalle moderne condizioni, si annunciava come «un immenso accumulo di spettacoli», sono pochi ma cruciali, gli eventi legati ai primi anni Novanta, tra vite e luci accese, tra morti e luci spente, che paiono avviare la decade. Tre città: Maastricht, Losanna e Sarajevo: sono probabilmente l’anteprima urbana sul destino segnato della nascente Net Generation.

Era la ballata dal ritmo accelerato Enjoy the silence, inclusa nell’album dei Depeche Mode del 1990, a darci il monito di goderci il silenzio. La sbornia sociale post riunificazione della Germania, permise ai dodici Paesi allora membri della Comunità Europea, il 7 febbraio 1992, di firmare l’atto conclusivo del Trattato di Maastricht. Oggi siamo a conoscenza che a incidere fu anche il dibattito di qualche mese prima. Luci accese e François Mitterrand, presidente della Repubblica francese ammalato di cancro e sostenitore del «Sì», fu artefice di quella «porta assai opportunamente aperta» atta a influenzare i sostenitori del «No»[1]. Lo strano avvenimento pre-politico volto a mettere in scena morte e politica, come solo un presagio può fare, ci dice molto di quel 1992. Quello che doveva rappresentare la fine dei mali moderni: fine della disoccupazione, l’amicizia tra i popoli e l’armonia generalizzata, fu una vera e propria narrazione. Una scena costruita tra équipe medica e mass media storici, prima ancora di internet e del digitale. Così, come in un solco che disegna il suo opposto, quel motto démodé del «tutto andrà per il meglio», è già musica nei nuovi cd audio per ragazzi. Tessuti laminari in un bikini, sneakers e solitudine musicata nelle orecchie: è il solo abito che indossa il giovane performer, mentre accenna movimenti dinoccolati su un cubo pitturato con lampadine sferiche incastonate e accese, a riportare la condizione conviviale da night club. È la performance dell’artista Felix Gonzalez-Torres in un teatro di qualche centinaio di miglia lontano da Maastricht. Luci accese e la mostra iconica dal titolo Posthuman con 36 artisti, si avvia presso il museo di arte contemporanea di Losanna. Viene così presentata l'espressione dell’arte nascente, in cui, come in poche altre occasioni, si narra in qualche modo un’esattezza della vita pulsante. Il curatore e artista Jeffrey Deitch offre a quegli artisti allora giovani, l’occasione di narrare e canalizzare qualcosa che non aveva ancora un nome[2]. Al vecchio modello messo a punto dalla consuetudine umanistica occidentale (maschio bianco che domina sugli esseri viventi e non viventi), si stava già sostituendo un uomo nuovo di genere fluido, di etnia e identità mutevole, intimamente connesso con il regno della tecnica, di pari passo con la microbiologia, l’ingegneria informatica e i talk show televisivi. E l’arte lo sapeva, tanto quanto la scienza e la letteratura. Basti pensare a quella fantascientifica di Crash di James Graham Ballard, andata in ristampa più volte e divenuta stendardo del cyberpunk, o ancora, al saggio Manifesto cyborg della filosofa statunitense Donna Haraway, pubblicato per la prima volta nel 1985 sulla rivista «Socialist Review». D’altra parte l’artista Cindy Sherman in un Untitled del ’92 su stampa cromogenica a colori, mostrava la decostruzione degli stereotipi e le ossessioni che popolano i mass media, la pubblicità e il cinema. È un’ossessione per il corpo già intuita anni addietro nella body art. Mentre prima però c’era sangue e vene, il corpo che ci mostrano artisti come Matthew Barney, Jeff Koons, Kiki Smith, e Damien Hirst, non è più solo prodotto in termini differenti, ma rappresenta un boicottaggio, una reinvenzione della carne, tramite la scena dell’arte. Il corpo perde i suoi connotati e archetipi: ecco perché la capacità di questa mostra è innanzitutto profetica. Difatti, alcuni dei testi fondanti sul manifesto postumano, vengono pubblicati solo qualche anno dopo la mostra, come The Posthuman Condition (1995) e The Postdigital Membrane (2000) di Robert Pepperell. Ma cosa voleva dirci l’arte nei primi anni Novanta, se non anticipare quei desideri fatti di chip, plastica ed eternità? Le arti visive che raccontano da sempre la morte, lo fanno nel 1992 con modalità e strumenti che non si erano mai usati in questi termini. Nonostante ciò, la morte canonica dei corpi freddi strappati alla vita, invece era caldissima, anche se lontana da Losanna. Luci spente e l’irriverenza, il pericolo e il sapore in bocca di sangue, inducono l’arte a indossare il suo abito di scena migliore, per una Sarajevo assediata. Tra i resti di una città ogni giorno distrutta, tagliata e decorticata, si assiste a una pagina che non è solo quella armata ma quella dell’arte, della cultura, del cinema, con numeri pari a 3100 eventi culturali, praticamente più di due al giorno. A luci spente si ripetevano ogni giorno spettacoli teatrali, concerti, proiezioni di film e attività artistiche, caratterizzate da una partecipazione alla vita culturale che risponde al grido della vita, in cambio di qualche sigaretta come merce di scambio. E mentre le opere di Enes Sivac venivano esposte a sostituire spiritualmente, lungo le rive del fiume Miljacka, la gelida sagoma di cecchini, il Trio Sarajevo reinventava i simboli della cultura pop del 20° secolo, diversificandone i cannotati. Fiumi di persone assistevano alle proiezioni di film clandestinamente; lo spettacolo Aspettando Godot, tra altri, fu replicato dalla scrittrice statunitense Susan Sontag per ben venti volte. Un rito sepolcrale tra le fauci della terra ingrata, tra i corpi di chi resiste e morde la vita. E così che i primi anni Novanta ci mostrano violenza e resistenza, teatro e verità, dolore e talk show, in una narrazione che muove il desiderio di farsi beffa della propria condizione e, soprattutto dei propri nemici. E se dopo il 1989 la scenografia del teatro nomade della vita, si fermava a pronunciare un voto in tre città – Maastricht, Losanna e Sarajevo – i Depeche Mode nell’album colonna sonora del 1990 ci ricordavano che: «I voti vengono pronunciati per essere rotti». Questo tocca fare all’arte. Scrivere con un un rossetto blu. «Goditi il silenzio tra [le braccia dell’arte] senza pronunciare una parola» poiché la sua vicinanza è tutto ciò che desidera questo mondo.




Note [1] M. Onfray, Teoria della dittatura, Ponte delle grazie, Firenze, 2020, p.25. [2] Il termine è stato introdotto dal teorico postmoderno Ihab Hassan. È sempre lui ad esprimere anche una prima definizione nel noto articolo intitolato Prometheus as Performer: Towards a Posthumanist Culture? (1977).


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Simona La Neve (1985), art researcher e docente, dopo studi in architettura si specializza alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano con una tesi conservata oggi all’archivio del Mart di Trento e Rovereto. Ha svolto ricerche e progetti curatoriali anche in ambito istituzionale (Inu, Roma; Politecnico, Milano; Bocsart, Cosenza). Si occupa oggi principalmente di scrittura come pratica artistica di resistenza empirica, endogena ed esogena. È suo tra altri, il saggio per i cinquant’anni di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini («il manifesto», 19 maggio 2021).

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