Affrontando la complessità del tema della salute mentale, Luca Negrogno e Benedetto Saraceno prendono le mosse nella loro riflessione dal confronto con la vasta letteratura che si riconosce nell’opera e nel pensiero di Franco Basaglia. I due autori sostengono che, nella psichiatria antistituzionale e critica, il discorso sulla salute mentale è centrale ed estremamente articolato, mentre sono meno presenti le considerazioni e le analisi sui singoli disturbi, alle loro cause e ai loro trattamenti. A partire da qui, il testo ripercorre genealogicamente il rapporto tra sapere e potere lungo i decenni successivi agli anni Settanta. Pubblichiamo oggi la terza e ultima parte del saggio.
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L’accantonamento del radicalismo antipsichiatrico
Ma forse abbiamo liquidato Laing troppo in fretta.
Il saggio «L’io diviso» (Laing, 1969) non è solo una critica alla nozione psichiatrica di incomprensibilità della follia ma soprattutto alla assunzione della esperienza psicotica come malattia. Il comportamento schizofrenico è una espressione della esistenza anziché una malattia: non i segni di una malattia ma la comprensione della esperienza di essere nel mondo propria e dell’altro costituisce il fondamento di ogni possibile comprensione dello schizofrenico. La differenza fra Laing e i movimenti della psichiatria antistituzionale consiste nel fatto che l’antipsichiatra inglese si concentra sulla possibilità per il soggetto di sperimentare il proprio diritto al viaggio a ritroso ossia a una regressione liberatoria mentre per gli psichiatri antistituzionali la questione non è quella di autorizzare la follia bensì di mostrare la intima connessione fra necessità della follia e mancata risposta ai bisogni di cui il folle è portatore. «La conseguenza di tale diversità è essenziale in quanto se per Laing l’obiettivo sarà di creare luoghi per la autorizzazione della follia, per Basaglia la questione sarà quella di smontare i luoghi deputati alla follia perché dietro di essa non sta la strada della conoscenza ma il vicolo cieco della sopraffazione»12.
E qui sta la divaricazione fra una psichiatria che decostruisce la propria violenza (Basaglia) e una che costruisce il proprio annullamento (Laing).
La legittimazione che preoccupa Basaglia è quella del corpo e dei bisogni mentre quella che preoccupa Laing è quella della mente e della sua esperienza.
Da un lato si generano «tecniche» della deistituzionalizzazione e dall’altro «tecniche» della liberazione.
Credo che la preoccupazione concreta e politica di Basaglia di trasformare la realtà abbia consentito quella grande rivoluzione di cui Laing è stato incapace: fra l’invocazione radicale alla libertà della esperienza della follia e la praxis della storicizzazione del folle che torna a essere cittadino la seconda ha saputo liberare i matti dalla istituzione rinunciando alla radicalità di liberarli dalla ragione dominante (Saraceno, 1988).
Ritengo che in Basaglia, così come in Rotelli, ci sia un nucleo profondamente antipsichiatrico forse e consapevolmente occultato dalla loro preoccupazione «civile» di operare per il diritto di cittadinanza. Non si tratta di una antipsichiatria che si preoccupa di negare l’esistenza della malattia ma piuttosto di negare l’esistenza della psichiatria. Per Basaglia come per Rotelli, entrambi consapevolmente non innamorati della problematica intellettuale della «antipsichiatria», la questione centrale è la negazione della legittimità epistemologica e morale della psichiatria e in tal senso si potrebbe parlare di una «antipsichiatria antistituzionale». E a questo proposito si veda il fondamentale Dialogo con Franco Rotelli, a cura di Giovanna Gallio e Benedetto Saraceno (Rotelli, 2023).
Neurodivergenza, disabilità, nuove forme di emancipazione
È innegabile il fascino che questa prospettiva continua a esercitare su chi voglia mettere in questione i legami tra le discipline psy e le relazioni di potere nella società se un testo che ha avuto grande successo nell’ultimo decennio, Realismo Capitalista di Mark Fisher (Fisher, 2018) riprende e riattualizza le teorie di Laing e Cooper per mostrare come la psichiatria riduzionista sia uno strumento dell’ingiunzione capitalistica ad agire su di sé in vista del miglioramento della propria performance produttiva, nella generale accettazione dei valori eletti a caposaldi del sistema economico. La teoria di Fisher, molto in voga presso le giovani generazioni, ha contribuito a riattivare una consapevolezza critica sui legami tra capitalismo e salute mentale che noi, con la nostra tradizione antistituzionale, non siamo stati in grado di tramandare. Un buon esempio dell’interiorizzazione di queste riflessioni l’abbiamo visto nella recente ondata di occupazioni che ha interessato le scuole superiori bolognesi, dove gruppi di studenti hanno messo in atto forme pacifiche di protesta nelle scuole tematizzando la questione della salute mentale senza ridurla a una generica richiesta di «supporto psicologico», come invece larga parte delle forze politiche hanno fatto negli anni successivi alla pandemia, ma declinando la critica nei confronti della insostenibilità delle condizioni di competizione, produttività, richiesta costante di performance a cui sottopone l’attuale sistema scolastico.
Purtroppo, pur nella sua ricchezza, la teoria di Fisher è segnata dagli stessi limiti dell’opera dei suoi predecessori britannici, anzi forse arriva a estremizzarli: il disagio psichico, in particolare la depressione, è immediatamente risolta nelle contraddizioni sociali del capitalismo; poco spazio è lasciato alla dimensione del soggetto e delle possibili pratiche di cura; alla dimensione forte della denuncia e della critica culturale non segue una conseguente ricerca sulle possibilità di ricostruire su altri presupposti il legame sociale, condividere la conservazione e la riproduzione del mondo, pensare il nostro benessere anche in un’ottica ecologica. Forse non avrebbe senso oggi recuperare il concetto, già troppo controverso e a dialettico, di antipsichiatria lasciandolo com’è; è necessario vedere quali di quei contenuti sono riattivabili oggi, in una forma che possa aiutarci a riprendere in mano la storia del movimento antistituzionale senza monumentalizzarlo. questo proveremo a fare in queste ultime pagine.
Mentre la retorica neoliberale si riappropriava dei sistemi sanitari e in generale metteva in discussione il valore della protezione sociale universalistica, si andava affermando prima in Gran Bretagna e poi nel resto del mondo anglosassone, sulla base di solide riflessioni gramsciane, il movimento delle persone disabili o, come preferiscono dire in contrapposizione alla centralità dello sguardo medico i rappresentanti del modello sociale della disabilità, delle persone «disabilitate», ponendo l’accento sul fatto che le caratteristiche – prima fisiche poi anche mentali – delle persone con una «menomazione» non sono in sé la causa della disabilità. La causa va piuttosto cercata nell’incontro tra tale caratteristica individuale e una società abilista, tale cioè da marginalizzare o escludere, da trattare solo come soggetto passivo e non dotato di agency, il soggetto che non si conforma ai dettati della norma del corpo e della mente abili e in salute. Tale movimento, incontrando poi i movimenti per i diritti civili diffusi nei contesti anglosassoni, ha sviluppato una grande attenzione alla dimensione della autonomia, della capacità di voice, della autodeterminazione e del diritto a ogni forma di accessibilità.
Dopo aver percorso tutto il mondo occidentale con la potenza politica delle sue rivendicazioni, che hanno scosso la popolazione sul piano etico e messo in discussione i paradigmi inveterati dell’assistenza disabilitante, il movimento ha ottenuto la sua più grande vittoria formale con la ratifica della Convenzione Onu dei Diritti delle Persone con Disabilità (United Nations, 2006), la quale, oltre a stabilire un diritto universale all’inclusione e all’accessibilità, ha definitivamente messo in crisi gli aspetti più invalidanti del rapporto di cura e assistenza in tutti i contesti socioassistenziali, minando la legittimità di tutti i trattamenti coercitivi e istituzionalizzanti. Oggi il movimento si è arricchito di nuove elaborazioni teoriche e si presenta nei contesti occidentali spesso sotto la forma del «pride», rivendicando quindi l’orgoglio soggettivo e la libera produzione di contenuti da parte delle persone disabili.
Se da una parte la Convenzione risulta a oggi in molti paesi e in molti contesti assistenziali disapplicata quando non sconosciuta, è innegabile che essa abbia riconfigurato il quadro giuridico entro cui collocare il rapporto tra cura e tutela, assistenza e diritto, con possibili ampie conseguenze anche sul piano delle politiche di salute mentale. Vediamo che in questi anni non mancano anche gli esiti contraddittori di questa innovazione politica, soprattutto guardando alle esperienze di legiferazione che i Paesi Europei hanno messo in atto per adeguare alla CDPD la propria legislazione sociosanitaria: la possibile distorsione dei concetti di autonomia, libertà di scelta, deistituzionalizzazione, una volta incardinati nelle legislazioni sociosanitarie dei paesi occidentali, è che queste parole d’ordine vengano declinate in modelli che privilegiano la visione ancora «individualistica» della disabilità (Schianchi, 2019) traducendo immediatamente questi valori emancipatori nella libertà di scelta sul mercato dei sostegni e delle prestazioni, con il rischio di rappresentare un ulteriore vettore di destrutturazione dei servizi pubblici sociosanitari e dei sistemi di protezione universalistici. Tuttavia, questi rischi sono ben noti nell’ambito dei Critical Disability Studies, che in un’ottica fortemente intersezionale, hanno messo in luce il legame tra le condizioni di disabilitazione e le altre linee di esclusione e marginalizzazione relative alla classe, e al genere. Un importante contributo venuto dai movimenti di persone disabili riguarda un tema che nel campo della salute mentale è ancora battuto con prudenza, quello della ricerca partecipativa emancipatoria (Oliver, 1996), vale a dire della possibilità di produrre saperi sulle pratiche dei servizi e sulle condizioni di disabilitazione a partire dalla ricerca delle persone disabili stesse. Il movimento ha fortemente rivendicato questa pratica e ha sviluppato un’attenzione alle sue possibili distorsioni manipolatorie – attenzione che invece nel mondo della salute mentale si fatica ancora molto a vedere chiaramente espressa.
Un altro importante contenuto emerso dal dialogo tra i Disability Studies e le riflessioni sull’Etica della Cura ha permesso di tematizzare il complesso di contraddizioni insite nella relazione tra autodeterminazione e costitutiva asimmetricità delle relazioni di cura (Casalini, 2020); in questo proficuo incontro riteniamo esserci una possibilità di tornare a tematizzare produttivamente la spinosa questione del «rapporto tutorio», formulata e poi lasciata cadere nelle elaborazioni provenienti dagli ambiti a noi più prossimi: la polarizzazione tra queste due tensioni inconciliabili non viene risolta attraverso una chiusura ma allude alla possibilità di riaprire una interrogazione più generale sul rapporto tra vulnerabilità e legame sociale nel suo complesso, attivando una rimessa in discussione sulla ineguale redistribuzione del lavoro di cura e sulla suo urgente risocializzazione, sull’accettabilità sociale della vulnerabilità e sulla possibilità di superare i concetti astrattamente negativi di autonomia e tutela verso una riconsiderazione anche ecologica dell’interdipendenza del vivente.
Un altro movimento a cui è utile guardare per favorire un rinnovamento dei nostri quadri teorici viene dalle esperienze degli users/survivors/refusers della psichiatria, attivi anch’essi in ambito anglosassone e legati alla tradizione dei movimenti per i diritti civili e contro la psichiatrizzazione forzata delle minoranze razializzate e delle persone in condizione di marginalità socioeconomica. Se questo movimento ha espresso un corpus minore di produzione teorica, è innegabile che le sue elaborazioni siano, a partire dagli anni Novanta, intervenute in maniera preponderante anche nel dibattito ufficiale sulla salute mentale, introducendo temi fino ad allora sconosciuti come quello di recovery – intesa come percorso di riappropriazione della propria soggettività al di là della definizione medica di sintomi e trattamenti – e pratiche su larga scala come l’auto-mutuo-aiuto. In questo passaggio al mainstream non sono mancate annotazioni critiche che hanno messo in luce come i concetti più rivendicativi formulati dai movimenti, che ponevano l’accento sulla prassi collettiva e sui diritti, abbiano subito – laddove hanno iniziato a orientare le politiche pubbliche del Community Care fin dall’inizio degli anni Novanta – varie torsioni che ne hanno individualizzato i contenuti e ammorbidito il portato rivendicativo per renderli compatibili con una politica sostanzialmente neoliberista (McWade 2016); tali annotazioni critiche hanno aperto una serie di discorsi vicini agli studi subalterni da cui è emersa la già significativa tradizione (pressoché sconosciuta in Italia) dei Mad Studies. Altri contributi provenienti da questo ambito hanno messo in luce come la possibilità di users/survivors/refusers di produrre saperi sulle pratiche di salute mentale tende a ridurre l’importanza relativa di teorie e trattamenti psi per tornare a spostare l’attenzione della ricerca sulle questioni relative ai determinanti sociali, alle dimensioni relazionali e alla costruzione di significato che incontrano le persone toccate da esperienze psichiatriche (Rose &Rose, 2023).
Un ultimo ambito che vogliamo qui citare riguarda il movimento, emerso in ambito anglosassone negli ultimi vent’anni, delle persone neurodivergenti. Anche noi, alla luce dei capovolgimenti di egemonia raccontati nei primi paragrafi, abbiamo fatto fatica sulle prime a identificare tra i movimenti possibilmente emancipatori uno che assumesse il prefisso «neuro-»; tuttavia, proprio dall’azione di attiviste autistiche non verbali come Amanda Baggs[1] sono emerse radicali forme di messa in questione dello sguardo medico, delle pratiche correttive, della pretesa di identificazione tra cura e normalizzazione che noi, nel nostro ambito della salute mentale, non siamo più riusciti a mettere in discussione teoricamente negli ultimi decenni. Le contraddizioni e le criticità non mancano neanche nell’ambito delle affermazioni del diritto alla «neurodiversità» ma, come portatori della tradizione antistituzionali alla ricerca di nuove forme di trasmissibilità dei saperi accumulati durante le pratiche del cambiamento, non possiamo sottrarci dall’individuare nuovi interlocutori, anche imprevisti, nella nostra battaglia culturale.
Furio Di Paola (cit.) parlava dei prevedibili progressi nel campo delle neuroscienze descrivendo che essi sarebbero stati «espropriabili o appropriabili". In forme per noi imprevedibili, questi movimenti propongono inediti processi di riappropriazione che, sulla base di forme di attivismo a noi estranee, stanno rimettendo in questione le fallacie nel framework riduzionista delle neuroscienze e ampliando il possibile campo di incontro tra scienze umane, pratiche di cura e forme di inclusione in direzione di quell’universal design teorizzato come diritto dai movimenti delle persone disabili. I paradigmi scientifici neurobio-, inevitabilmente stirati dall’azione dei movimenti, stanno in parte anche mettendo in discussione la loro subalternità ai conflitti di interesse psicofarmaceutici, riaprendo la formulazione dei loro contenuti a nuove forme di raffinatezza epistemologica (Bennett & Hacker, 2023).
Queste nuove forme di messa in discussione dell’oggettivismo dello sguardo medico, per quanto lontane dalla nostra tradizione, offrono l’opportunità di ripensare la «cura delle malattie mentali» fuori dal circolo vizioso del riduzionismo naturalistico andando a colpire il cuore nascosto della sua ideologia: l’asimmetria di potere che da sempre sta al cuore delle nostre teorizzazioni e che si può tornare ad affrontare con una nuova «politicizzazione della scienza» (Maccacaro 1979) e con un ripensamento del nostro legame sociale.
Note
[1] Nel gennaio 2007, Amanda Baggs ha postato su YouTube un video intitolato In My Language in cui descrive la propria esperienza di persona affetta da autismo.
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Immagine
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Luca Negrogno fa parte dell'Istituzione Gian Franco Minguzzi della città metropolitana di Bologna.
Benedetto Saraceno è psichiatra ed esperto di sanità pubblica. Ha lavorato a Trieste con Franco Basaglia e Franco Rotelli. Dal 1999 al 2010 è stato il direttore del Dipartimento di salute mentale e abuso di sostanze della Organizzazione mondiale della salute (Oms) e dal 2008 ha diretto il Dipartimento di malattie non trasmissibili. Attualmente è professore ordinario di Global Health alla Università di Lisbona. Durante la sua permanenza alla Oms, ha pubblicato lo storico Rapporto mondiale sulla salute mentale e ha sviluppato politiche di salute mentale e promozione dei diritti umani in paesi dell’Africa, delle Americhe, del Medio Oriente, del Sud Est Asiatico e dell’Estremo Oriente. Saraceno ha pubblicato più di duecento articoli su riviste scientifiche internazionali e alcuni libri fra cui, per DeriveApprodi, Sulla povertà della psichiatria (2017), Psicopolitica (2018) e Salute globale e diritti (2022).
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