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Ma come si curano le malattie mentali? (seconda parte)



Affrontando la complessità del tema della salute mentale, Luca Negrogno e Benedetto Saraceno prendono le mosse nella loro riflessione dal confronto con la vasta letteratura che si riconosce nell’opera e nel pensiero di Franco Basaglia. I due autori sostengono che, nella psichiatria antistituzionale e critica, il discorso sulla salute mentale è centrale ed estremamente articolato, mentre sono meno presenti le considerazioni e le analisi sui singoli disturbi, alle loro cause e ai loro trattamenti. A partire da qui, il testo ripercorre genealogicamente il rapporto tra sapere e potere lungo i decenni successivi agli anni Settanta. Pubblichiamo oggi la seconda parte del saggio.


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Anni Novanta e «monumentalizzazione»

Non erano mancati, verso la fine degli anni Novanta, i tentativi di riaprire alcune domande in una fase che per certi versi sembrava riproporre lo spirito di una possibile mobilitazione agganciata a significativi cambiamenti istituzionali (il primo Piano Obiettivo Salute Mentale, la chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici su impulso della Ministra Bindi, il fiorire di una nuova generazione di pratiche sociali cooperativistiche) di cui si possono trovare alcuni segni nel dibattito (si veda Aa.Vv., 1995); tuttavia la rapida chiusura di quella fase ha convinto la maggior parte di noi a richiuderci nella mera trasmissione di una identità limitata alle «buone pratiche di salute mentale», a una serie di scelte organizzative poco riproducibili nella maggior pare dei contesti urbani e comunque incapaci di fronteggiare le potenti dinamiche della medicalizzazione amministrativa del disagio, a scelte politiche che, a fronte di un’identità nebulosa, hanno preferito la timidezza e la subalternità, non curanti dei rischi di dispersione del nostro patrimonio di riflessioni – che sole possono dare trasmissibilità alle pratiche. Rischio che si è andato facendo via via sempre più concreto.

Chiariamo: sono accadute anche molte cose buone in questi anni. In tutta Italia si sono moltiplicate varie forme di quelle «buone pratiche» che costituiscono una promettente base sperimentale per rispondere alla domanda formulata nel titolo. Attività artistiche ed espressive esitanti in forme reali di inserimento sociale, SPDC a porte aperte e senza contenzioni, Servizi orientati alla recovery, Budget di Salute, Utenti Esperti per Esperienza, Coproduzione, Psicoterapia Comunitaria, Dialogo aperto, De-prescrizione, ecc. Tuttavia, queste pratiche sono avvenute nell’assenza di una teoria che aiutasse a mettere in questione la loro estendibilità, a valutare criticamente le popolazioni che ne fossero accolte e quelle che ne fossero escluse, a produrre ricerca sui loro reali esiti e le loro possibili distorsioni; spesso, anzi, queste pratiche hanno preso a prestito da altri contesti sociali teorie e discorsi senza problematizzarne l’applicazione, in una dimensione di estrema opacità.

È significativo che l’unico libro recente che abbia provato a mettere queste buone pratiche in relazione a una riflessione generale sulla clinica, sullo stato di salute del legame sociale e sulle relative dimensioni politiche dei servizi sia stato quello di un non-psi Soffro dunque siamo (Rovelli, 2022) Il disagio psichico degli individui»); il libro segnala la necessità di costruire riflessioni più ampie nonostante i suoi limiti.[1] I due maggiori sono che nella prima parte l’osservazione «epidemiologica» viene svolta solo a partire da prassi psicoterapeutiche puntuali e fortemente localizzate, ben poca cosa rispetto a grandi progetti che vedevano i servizi territoriali come centri di elaborazione di una epidemiologia critica (si pensi al Progetto Nazionale Prevenzione Malattie Mentali del CNR); nella seconda le buone pratiche sono pragmaticamente raccontate dai singoli protagonisti, senza una messa in questione delle relative contraddizioni emergenti o delle riflessioni più complessive che da esse possono nascere, ben poca cosa rispetto a quello che sono state opere come Il giardino dei gelsi (cit.) o Dove va la psichiatria? (Onnis & Lo Russo, 1980). Nonostante questi limiti, che sono più del contesto storico del libro stesso, esso è importante perché segnala l’assenza di una riflessione sistematica da parte di chi opera in questo campo, anche nelle posizioni a noi più vicine.

Come spiegare questo arretramento? se fossimo degli psicanalisti da salotto televisivo dovremmo dire che la causa principale è da attribuirsi al proliferazione di narcisismi autodifensivi nel nostro ambito disciplinare, a causa dei quali è stato impossibile tenere insieme una rete capace di congiungere movimento, battaglia culturale e pratica di invenzione istituzionale; non siamo psicanalisti da salotto televisivo quindi ci limiteremo a dire che questo problema, in parte presente, non basta da solo a spiegare le cause più profonde e non è certo un fenomeno limitato al campo della salute mentale. Ma se certo il suo potere esplicativo non va esagerato, resta qualcosa su cui riflettere attentamente se, come suggerisce Di VIttorio (Di Vittorio & Cavagnero, 2019), de-monumentalizzare la prassi basagliana significa anche recuperare la sua implicita proposta di ripensamento dei rapporti tra scienza, attività politica e relazioni interpersonali, oltre le segmentazioni a cui siamo ormai abituati.

C’è dunque urgente bisogno di un futuro per la Psichiatria Antistituzionale: futuro e trasmissibilità di pratiche e di teorie corrispondenti. Invece il futuro viene esorcizzato dalla celebrazione (spesso autocelebrazione) del passato mitico.

Come spiega Pierangelo Di Vittorio citando Walter Benjamin «la celebrazione o l’apologia s’ingegna di occultare i momenti rivoluzionari nel corso della storia. A essa sta a cuore la fabbricazione di una continuità. Essa conferisce valore solo a quegli elementi dell’opera che sono già entrati a far parte del suo influsso postumo. Le sfuggono i punti in cui la tradizione si tronca, e quindi le asperità e gli spuntoni che offrono un appiglio a chi voglia spingersi al di là di essa» (Benjamin, Das Passagen-Werk, 1938). Trasposto nel campo della psichiatria anti-istituzionale, si tratta qui di cogliere che dopo la lotta antimanicomiale per vari decenni i contenuti della riforma hanno dovuto confrontarsi con il blocco della trasmissione, l’incapacità di percepirsi in una dimensione storica, la mitologia della continuità favorita dalla «monumentalizzazione» (Di Vittorio & Cavagnero, 2019) in virtù della quale la 180 è stata percepita come una promessa di emancipazione «che attende ancora, che attenderà sempre il suo compimento». I professionisti si sono autorappresentati una dimensione di continuità ideologica che però non ha tenuto conto delle trasformazioni dei servizi secondo «i dogmi di una razionalità sanitario-amministrativa» e dello «sbriciolarsi (..) della cultura del Welfare State, inteso come quel sistema di garanzie che consentiva di affrontare le fragilità e gli incidenti della vita», la cui possibilità l’autore lega all’esistenza di una concezione del «tragico» nella cultura: l’accettazione cioè delle contraddizioni che rendono l’umano non risolvibile in nessuna razionalizzazione e «sempre un po’ estraneo a se stesso» (Di Vittorio & Cavagnero, 2019).

Monumentalizzazione significa prima di tutto occultamento delle contraddizioni che la 180 sollevava agli occhi dei suoi stessi promotori: lo spostamento della pratica psichiatrica dall’istituzione manicomiale al territorio non era affatto vista come un passaggio che avrebbe di per sé portato a una pratica eticamente e scientificamente corretta. Era forte la consapevolezza in Basaglia e collaboratori che l’enfasi sul territorio potesse risolversi in una vuota retorica, per cui, dietro l’idea di una salute mentale decentrata, si sarebbe realizzata una pratica rispondente solo alle necessità storiche della nuova fase assistenziale del «capitalismo avanzato», finalizzata cioè ad applicare forme di controllo diffuso alla «maggioranza deviante», a sostituire l’internamento a vita con pratiche più sottili di rotazione nel circuito tra invalidazione e reinserimento – attraverso un complesso di ambulatori, repartini, residenze post-manicomiali e ghetti territoriali, in cui i trattamenti continuano però a funzionare come strumenti di manipolazione e di de soggettivazione, che tengono lontano il servizio dai veri bisogni della popolazione[2].

A questa possibilità si contrapponeva quella di fare ricerca sulla prevenzione, la possibilità cioè che si potesse «cogliere il malato al di là della malattia» (Manuali, 1978), cioè incontrare le forme che la sofferenza assume nel manifestarsi non solo nel sociale ma anche nel privato: nella famiglia, nelle strutture di genere, nell’ingiunzione alla produttività, nelle formazioni della personalità «integrata». Si trattava di vedere la sofferenza individuale per storicizzarla, non per trattarla come bisogno individuale a cui rispondere con una prestazione. Il lavoro di prevenzione risultava allora una riformulazione dell’incontro tra tecnica e politica, una sperimentazione di pratiche sociali di trasformazione in senso cooperativo delle relazioni, un cambiamento nella concettualizzazione sui fatti della vita, che riscostruisse la capacità di dare senso alle esperienze di disagio al di là dei tecnicismi medici, spingendo invece affinché laddove la popolazione in forme politiche agisce per rimuovere le cause di malessere vi fosse il luogo di produzione di sapere sulla salute e la malattia.

È stata ampiamente messa in luce l’incapacità di riformulare il nodo del «rapporto tutorio» fuori dalle istituzioni totali: dall’occultamento di questo problema emergono molteplici limiti oggi sempre più evidenti. In primo luogo l’incapacità di tematizzare efficacemente lo svuotamento dell’istituto del TSO, passato dall’essere uno strumento – «mediazione transitoria» secondo Franco Basaglia – di garanzia, accettabile nella misura in cui stimola alla ricerca di soluzioni extraospedaliere, alla costruzione di contrattualità che coinvolge i contesti sociali passando dalla richiesta di intervento sulla «malattia» a una lettura relazionale e sociale dei bisogni – a pratica burocratico-amministrativa svolta esclusivamente nell’imbuto dei repartini psichiatrici, che risolve con una indebita semplificazione il tema della relazione, oscura il problema della prevenzione e della capacità dei servizi di essere nel sociale.

Il movimento antistituzionale era anche fatto di riflessioni teoriche alte e raffinate sulle tecniche, pur nella compresenza di un’acuta riflessione politica su di esse. Se abbiamo già fatto i nomi di Minguzzi, Scotti, Pirella, Tranchina e Piro, non dobbiamo dimenticare almeno altre figure come Michele Risso, autore di importanti riflessioni sul trattamento psicologico delle popolazioni subalterne, Ivar Oddone, perno della riflessione sull’incrocio tra saperi esperti e saperi della popolazione lavoratrice, per identificare collettivamente le nocività ambientali, urbane e nei luoghi di lavoro, Raffaello Misiti, collaboratore tanto di Ernesto De Martino quanto di Franco Basaglia e Franca Ongaro e di Giulio Maccacaro, impegnato nello studio delle dimensioni transculturali della psicologia e del rapporto tra pratiche psicologiche e questione ecologica. Di queste storie nulla è rimasto nella trasmissione della «nuova scienza» che il movimento antistituzionale intendeva produrre; dobbiamo oggi riflettere su questa grave lacuna che rende sempre più debole la nostra posizione nel dibattito scientifico e culturale. Vanno anche citati i lavori di Scotti e Brutti sulla psicoterapia infantile e l’autismo e le ricerche sulle manifestazioni psicopatologiche di Vieri Marzi, Graziano Valent, Enzo Sarli. Tali lavori, che oggi vengono poco ricordati quando si parla di deistituzionalizzazione, testimoniano di una fase in cui il movimento si è confrontato teoricamente e praticamente con le questioni poste dalle malattie mentali.

Monumentalizzazione è quindi quell’operazione per cui i tecnici progressisti, invece di tenere aperta la contraddizione tra una «linea forte» e un «pensiero debole» (Pirella) hanno risolto le incertezze identitarie della nuova fase con varie forme di chiusura, politiche e professionali. Questa chiusura, invece di continuare la ricerca sulle contraddizioni aperte dal superamento dei manicomi tenendo accesa l’attenzione sul legame tra discipline, pratiche e politiche, è andata via via sempre più vivendo la fase di movimento come irrimediabilmente «risolta», «finita», «compiuta» con la promulgazione di una legge che si trattava poi di «applicare», come se in essa fossero contenute le risposte e non, come invece lo stesso Basaglia pensava, delle domande aperte da sviluppare.

Oggi sempre più si scontrano visioni che monumentalizzano la 180 e visioni che la contestano come «ideologica» e propongono un suo superamento verso le vie diversamente reazionarie del tecnicismo professionale o della riduzione della libertà di scelta dei pazienti. Entrambe le posizioni perdono di vista il punto centrale del gesto di Basaglia: uscire dallo specifico del tecnicismo psichiatrico ma con la volontà di coagulare attorno alla pratica la produzione di una nuova scienza della complessità, che superasse i confini tra medicina e scienze umane, basata su una reale partecipazione popolare nella definizione dei contesti di vita e dei sostegni necessari per una vita degna. Si tratta della ricerca come intrapresa collettiva legata alla risposta ai bisogni reali della popolazione, del riconoscimento del conflitto dialettico come possibilità creativa della società, irrisolvibile nelle interpretazioni della «devianza» e nelle forme amministrative della sua gestione. Questi erano e sono ancora oggi i nostri compiti principali.

Il contributo dei lacaniani e gli sviluppi in altri contesti disciplinari

Va anche analizzato il contributo della lettura di Lacan da parte della psichiatria antistituzionale. Alcuni psichiatri antiistituzionali (latino-americani ma anche italiani, come Mario Colucci) trovano in Lacan una clinica compatibile con la pratica della psichiatria antistituzionale.

Lacan ha saputo valorizzare il fondamentale apporto della psicanalisi al riconoscimento del soggetto come produttore di senso, comunque e sempre, anche quando tale senso si presenti come inafferrabile. In altre parole, nel corso dell’analisi resta dell’inconscio un «irriducibile» che, pur se non ha significato per la interpretazione, esiste come produzione di senso del soggetto: Lacan denomina tale residuo come «sinthome» (Skriabine, 2011; Lacan, 2005). Ciascun soggetto compone in modo individuale e unico i registri del reale, del simbolico e dell’immaginario costruendo una propria singolarità, in qualche modo inafferrabile alla «cura» che non ha né può pretendere una intrusione illimitata e normalizzante. E proprio nel seminario. Le sinthome (Lacan, 2005) Lacan affermerà la singolarità del soggetto psicotico, ben al di là di ogni possibile riduzione nosografica. Questa clinica del soggetto riporta la psicanalisi nel cuore della «psichiatria non biomedica» e permette un incontro con ogni psichiatria che si proponga a sua volta il riconoscimento dell’altro come produttore di senso e dotato del diritto a manifestarlo ed esercitarlo. In tal senso, e non a caso, sono alcuni psicanalisti lacaniani (soprattutto in America Latina) che hanno coniugato il pensiero di Basaglia con quello della psicanalisi» (si pensi a José Carlos Mariátegui in Perú e Alfonso Teja Zabre in Messico, i gruppi operativi di Enrique Pichon-Rivière in Argentina, con i contributi di Marie Langer, Armando Bauleo, Oscar Masotta, Roberto Harari, Carlos Sastre, Néstor Braunstein e ora la sinistra lacaniana di Jorge Alemán; e, infine a gli psicoanalisti militanti David Pavón Cuellar e Vicente Galli).

Spesso formulazioni innovative su questi temi sono nate in contesti lontani dal nostro, soprattutto laddove il dibattito scientifico ha accolto indicazioni provenienti da nuove pratiche e nuove voci che si affacciavano sulla scena pubblica. L’antropologia, sulla scorta degli stimoli postcoloniali, ha mostrato la necessità che il campo delle scienze umane riformulasse la concettualizzazione dei rapporti tra soggetto e oggetto, individuando nella contrazione delle nozioni ontologiche che implicitamente occultano il nostro posizionamento, le forme coloniali di pensiero che predeterminano il nostro modo di osservare. Dalle filosofie amazzoniche, che ci spingono a decentrare il nostro rapporto oggettuale con la conoscenza (Viveros De Castro, 2021) – il che può avere importanti conseguenze sulla tematizzazione delle malattie mentali e delle forme di trattamento (Benedeuce, 2021) – fino ai recenti studi di antropologia medica sul legame tra nozioni di salute e azione pubblica, e su come alla luce di questi legami vadano letti e trasformati i sistemi sanitari (Consoloni & Quaranta, 2021), questi stimoli aiutano a definire un quadro teorico entro cui ricostruire la riflessione anti-istituzionale.

La filosofia della scienza (Vagelli & Setaro, 2021) ha approfondito le contraddizioni epistemologiche che nell’ambito delle scienze umane caratterizzano il rapporto tra categorizzazioni, soggetti categorizzati e condizioni sociali e politiche della produzione delle categorie stesse. In questo contesto Ian Hacking ha messo in evidenza l’esistenza dei looping effect, dei cicli di ricorsività che pongono tra loro in relazione le popolazioni categorizzate e le etichette diagnostiche – producendo reciproche modificazioni in entrambe – e il legame tra la produzione di categorie diagnostiche e un complesso di tensioni etiche, politiche e sociali all’interno delle società che le producono (Hacking,2008). La filosofia post-strutturalista, spesso in accordo con le varie diramazioni dei subaltern studies, ci ha permesso di valorizzare la «scienza minore delle affezioni», come ci dicono Deleuze e Guattari, con cui Maria Nichterlein e John R. Morss, in «Deleuze e la psicologia» (Nichterlein & Morss, 2017) hanno potuto formulare proposte di profonda revisione epistemologica delle pratiche di salute mentale a partire dall’osservazione dei paradossi dell’attuale stato dell’arte, in cui l’idea di misurabilità produce conseguenze anti ecologiche, la valutazione tecnica della salute riconferma forme paranoiche di controllo, aumentano le forme di rischio iatrogeno, le teorie psy aumentano «la bêtise, la stupidità concreta in pratiche che banalizzano la ricchezza dell’evento» (Barbetta e Valtellina, 2017).

La psicoanalisi stessa, in contesti in cui ha saputo confrontarsi con le pressioni derivanti dai movimenti anti-neocoloniali (in Sud America) e trans femministi (in Europa) ha sviluppato la capacità di tematizzare e sottoporre ad autocritica la propria funzione politica di normalizzazione delle diseguaglianze (David Pavón Cuellar, 2009; Ian Parker & Pavón Cuellar, 2021) riformulando le nozioni chiave di inconscio, ripetizione, pulsione e transfert per sottrarle alla loro impostazione conservatrice e legarle alle dinamiche politiche di un mondo dominato dallo sfruttamento e dal razzismo. Da questa riformulazione emerge una «psicologia critica» che analizza la «funzione soggetto» come prodotto ideologico e riporta la pratica clinica all’interno di una dimensione collettiva rivolta al superamento delle varie forme di oppressione che subiscono i paesi cosiddetti «meno sviluppati», le persone discriminate per la loro razza, le persone sfruttate, le donne. Gli autori fanno esplicito riferimento all’opera di Franco Basaglia e all’opera di Robert Castel come ispiratrici della loro riflessione sulla possibilità di incontro tra una pratica clinica epistemologicamente rimessa in questione e la capacità di azione collettiva per la trasformazione dei contesti politici e sociali.

In Francia, dove il dibattito tra psicoanalisi e femminismo ha una tradizione più forte di quello presente in Italia che pure esiste, e si vedano ad esempio le opere di Lea Melandri (Melandri, 2018), la comunità psicoanalitica è stata scossa dalle posizioni di Paul B. Preciado il quale ha identificato il «complesso pornofarmacologicoindustriale» (Preciado, 2015) come vettore principale della riproduzione a livello individuale delle dimensioni biopolitiche di gestione della produttività e delle performance dei corpi in un regime capitalista e patriarcale. Una delle sue ultime esternazioni, Sono un mostro che vi parla, (Preciado, 2021) ha definitivamente denunciato la collusione della psicoanalisi conservatrice con le dinamiche violente imposte dal genere e dall’ideologia della differenza sessuale, tabù invece ancora intoccabile per la Psicoanalisi italiana, stimolando un folto gruppo di psicoanalisti a rivedere le proprie posizioni sulla transizione sessuale, il non binarismo, il rifiuto della performance di genere come pratiche potenzialmente emancipatorie, accettabili anche in ambito clinico.

Mattieu Bellhasen rappresenta infine e invece uno degli ultimi epigoni della tradizione della «psichiatria istituzionale», gloriosa ma quasi del tutto ininfluente a livello dei servizi pubblici. La sua opera recente, sulla scorta delle elaborazioni di Oury e Tosquelles, ha preso atto della necessità di uscire dal recinto limitato della pratica clinica e accorgersi che una vera dimensione «istituzionale» può coincidere solo con l’acquisizione di un nuovo ruolo politico, di una «prassi istituente» nei servizi pubblici e nella discussione scientifica sui concetti dominanti di «salute mentale» i quali, a oggi, sono riconosciuti criticamente come uno strumento di penetrazione e approfondimento della manipolazione sociale di stampo neoliberale, in connessione con la destrutturazione delle politiche sociali che in Francia proprio in questi mesi sta riattivando notevoli forme di resistenza popolare (Belhasen, 2014).

In Italia l’ambito più promettente per l’emergere di nuove elaborazioni sulla salute mentale, anche autocritiche, continua a essere quello delle pratiche di impresa sociale che hanno da sempre provato a tenere insieme la cura del legame sociale, la sostenibilità economica e le forme di emancipazione personale. Si tratta di un mondo alla ricerca di una propria identità, spesso stirato tra la subalternità a un settore pubblico in disfacimento e le sirene di una mercatizzazione liberista che ne compromettono sempre di più la potenza emancipatoria. La riflessione avviata da Franco Rotelli negli ultimi mesi della sua vita, sulla necessità di riprendere in mano e ripulire il concetto di «intrapresa sociale» dalle distorsioni e dagli occultamenti degli ultimi anni, potrà forse essere un terreno di rilancio se riuscirà a coniugare la ricchezza delle sue pratiche con una nuova formulazione del senso e delle funzioni di un welfare nuovamente «pubblico». Nel frattempo, solo la letteratura sembra aver continuato ad attraversare questi campi «minori» (Cavazzoni, 2010) raccogliendo e dando dignità a quella frammentazione creativa dei soggetti che, in una impossibile mobilitazione collettiva, continua a essere l’unico progetto culturale conservativo possibile oggi, rispetto alla ricchezza delle riflessioni emancipatorie prodotte fino alla fine degli anni Ottanta (Fofi, 2020). Ma siamo così arrivati a un punto in cui l’interrogazione sulla cura delle malattie mentali ci ha portato ancora una volta fuori, sconfinando, da dove forse possiamo ricominciare a produrre le domande che possono portarci a un sapere.

Infine, e se la chiave di volta della questione qui posta era la radicale affermazione della non-appartenenza della «malattia mentale» alla psichiatria tout-court (vecchia o nuova, tradizionale o critica, istituzionale o antistituzionale). In altre parole, la questione non è se sia o non sia esistente una «cosa» dicibile come malattia mentale bensì che la questione è quella di una presenza, altra ed estranea alla medicina, costituisce il nucleo doloroso della esperienza che chiamiamo psicotica.

C’è da chiedersi se la difficoltà a creare una teoria della «clinica terapeutica antistituzionale» non dipenda dal fatto che non esiste una terapia di qualcosa che non è una malattia. Ossia, che quella presenza della assenza di salute mentale debba essere oggetto di risposte di cura piuttosto che di risposte di terapia.



Note [1] A questo proposito si veda, B. Saraceno, Sulla povertà della psichiatria, DeriveApprodi, Roma 2017. [2] Su questi temi è fondamentale il saggio, mai tradotto in italiano: F. Castel – R. Castel – A. Lovell, La société psychiatrique avancée: le modèle américain, Grasset, Paris 1979.


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A. Bengali, Pasi? Matti?


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Luca Negrogno fa parte dell'Istituzione Gian Franco Minguzzi della città metropolitana di Bologna.


Benedetto Saraceno è psichiatra ed esperto di sanità pubblica. Ha lavorato a Trieste con Franco Basaglia e Franco Rotelli. Dal 1999 al 2010 è stato il direttore del Dipartimento di salute mentale e abuso di sostanze della Organizzazione mondiale della salute (Oms) e dal 2008 ha diretto il Dipartimento di malattie non trasmissibili. Attualmente è professore ordinario di Global Health alla Università di Lisbona. Durante la sua permanenza alla Oms, ha pubblicato lo storico Rapporto mondiale sulla salute mentale e ha sviluppato politiche di salute mentale e promozione dei diritti umani in paesi dell’Africa, delle Americhe, del Medio Oriente, del Sud Est Asiatico e dell’Estremo Oriente. Saraceno ha pubblicato più di duecento articoli su riviste scientifiche internazionali e alcuni libri fra cui, per DeriveApprodi, Sulla povertà della psichiatria (2017), Psicopolitica (2018) e Salute globale e diritti (2022).

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