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Luca Rastello



Luca Rastello aveva l’istinto del grande giornalista, quello che spinge a buttare il corpo e il pensiero negli spazi e nei tempi di ciò che si vuole comprendere e che ritiene fondamentale intrecciare le carte, la letteratura e i documenti con la materialità della vita (e della morte) degli uomini e delle cose, per sentirne le voci, i rumori, gli odori. Sempre osservando le esistenze che si svolgono on the border, perché è sui confini che esse rivelano paradossalmente il loro «centro» e la loro complicata e contradditoria verità. Queste passeggiate sui «limiti» di ogni genere Luca Rastello (nato a Torino il 9 luglio 1961 e portato via da un tumore il 6 luglio 2015) le ha poi elaborate ed espresse in molti articoli di giornale, in riviste e in alcuni libri che non si limitavano a raccogliere gli scritti giornalistici ma li rielaboravano e li arricchivano di nuove inchieste e li immettevano in un diverso ordine argomentativo. Ha scritto anche due romanzi, subito tracimanti, in ragione di un preciso posizionamento sociale e politico, sul terreno del confronto e della polemica.


Luogo di elezione di Rastello, le situazioni-limite trovano nella guerra il loro momento apicale.

È nei conflitti che tutti i confini – tanto quelli che tracciano le identità geopolitiche, quanto i contorni delle soggettività e delle appartenenze – sono portati al punto di massima tensione, rimessi in discussione, ritracciati.

La guerra ha bussato alle porte della casa-Europa negli anni 1991-1999, nell’ex Jugoslavia. Saltarono innanzi tutto le barriere tra gli Stati, poi se ne innalzarono di nuove, entro cui si rinserrarono le identità nazionali ed etniche. Quella guerra si svolgeva a pochi chilometri dalle coste italiane ed entrò a «casa nostra» con i profughi, le loro vite e le loro storie. Luca le raccolse, ne scrisse dalle due sponde, svelando la difficoltà estrema ma anche il dovere professionale, umano e politico di «dare un senso» a quanto stava accadendo. «Il mio nome è Izmet A… sono nato…nell’aprile del ’92 il nostro paese fu travolto dalla guerra…venni fermato da due poliziotti civili… fui caricato legato su un cellulare…i soldati incominciarono a picchiarci con tutto quel che avevano…». Il racconto si svolge come una passeggiata all’inferno di 14 pagine (La guerra in casa, Einaudi 1998). Rastello costruisce questo libro – come sarà per quelli successivi – con un montaggio incalzante, alternando racconti in prima persona, oggettivi nell’atto di squadernare la «pura vita» degli individui, a tabelle e dati, riflessioni, considerazioni storiche, rimandi letterari. L’intero libro è un passaggio continuo del confine tra l’abisso di insensatezza (e di orrore) che la guerra ha spalancato e la vita che in ogni caso cerca di ritrovare una sua direzione, un senso. Sconfinamento per Luca voleva anche dire un netto «andar oltre» il giornalismo ed entrare sul terreno della solidarietà attiva con donne e uomini che dalla guerra volevano scappare. Fonda con alcuni amici il «Comitato accoglienza profughi ex Jugoslavia di Torino», porta nei territori devastati aiuti materiali e idee per avviare difficili, faticose nuove costruzioni dell’umano.

Intanto lavora, studia il mondo, pubblica. Diventa direttore di riviste importanti e di diversa taratura come «l’Indice», «Narcomafie», la testata on line «Osservatorio Balcani». Collabora a «Diario», a «Linea d’ombra». È a «Repubblica» che ne fa uno degli inviati di punta proprio in una fase in cui il globo si restringe nel tempo digitale e si uniforma nello spazio globale secondo il comando capitalistico.

Rastello corre di nuovo lungo il confine, questa volta su quello sottile e da sempre poroso e confuso tra crimine e valorizzazione. Cosa più della droga ne esprime l’assoluta permeabilità? Io sono il mercato (Chiarelettere, 2009), titolo fulminante, mostra come il ciclo capitalistico cadenzato da produzione, circolazione e consumo trovi – anche nominalmente – nel mercato della droga una rappresentazione quasi perfetta, fino a sostanziare le basi materiali del neoliberismo: sfruttamento nella fase produttiva, flussi di merci che attraversano gli Stati nazionali, spesso ciechi o complici, apertura indefinita della forbice tra arricchimento privatistico di pochi e impoverimento del sociale. Rastello è di nuovo in giro per il mondo per raccogliere testimonianze e dati. Il compito del cronista è capire ma per Luca anche prendere posizione cioè stare «da una parte» sapendo che non si gioca, neppure in questo caso come nell’ex Jugoslavia, una partita tra buoni e cattivi: il capitalismo molecolare della droga confonde e intorbidisce le storie e capita che riduca le distanze tra vittima e carnefice. Di nuovo, le sfumature dei contorni, la contraddittorietà che penetra nelle forme di vita e nelle relazioni tra umani.


Campi di tensione, polarità che trascrive con un diverso registro nel romanzo Piove all’insù pubblicato nel 2006 per Bollati Boringhieri. Qui fa i conti con la propria adolescenza, vissuta nella Torino che si avvia, in uno spasmo potente, a chiudere i conti con la sua storia di fabbrica e antagonismo. È la Torino del ’77, dei «Centri del proletariato giovanile» dove si produce l’ultimo tentativo di socialità alternativa a quella che uniformerà il paese secondo il modello della «Milano da bere»: la società del «produci, smercia, consuma», la filiera del capitale, la stessa «linea» della droga che contribuirà a devastare quella generazione. Il protagonista scrive a un’amica appena licenziata, le racconta – secondo un ritmo narrativi a quadri e «stazioni» figurative – la sua storia e quella della generazione cresciuta verso la fine degli anni Settanta. Ci sono ricordi familiari, il padre militare che qualcosa sapeva, qualcosa taceva e qualcosa aveva denunciato dello stragismo di Stato. Ma soprattutto c’è il ricordo dei luoghi di incontro e aggregazione del «proletariato giovanile» e del «movimento». «Nel giro di pochi mesi, sono centinaia le tane occupate. A Torino: Cangaceiros alla villa di Santa Rita, Montoneros in un basso di San Salvario, Fantasma indovina dove? Nella tomba lontana della Bela Rusin. Pavone a Borgo Vittoria, Malembe, Zapata chissadove» (p. 41). Qui si discute di politica, si svolge la complicata crescita affettiva degli adolescenti, il confronto con un fuori sempre più dominato da merce e interesse individuale e quindi progressivamente altro da ciò che in questi luoghi si pratica e si condivide. La narrazione di Rastello riproduce la sostanza di quel breve passaggio di alba/tramonto: prosa spezzettata, multiforme, plurale nelle voci, aperta a tante «vie di fuga».


Al romanzo Luca torna nel 2014, l’anno prima della morte, con I buoni (Chiarelettere 2014), una specie di decostruzione (condotta dall’interno, poiché vi aveva lavorato per un certo periodo) delle istituzioni predisposte, finalizzate e costruite per «fare il Bene» (tra le più conosciute e qui sottese, in filigrana spessa, il «Gruppo Abele» e «Libera» di don Ciotti). Il libro non è assolutamente riducibile alla denuncia della contraddizione tra l’azione a sostegno degli ultimi e i sottili meccanismi del potere, della gerarchizzazione, del comando che percorrono e segnano nel profondo queste stesse istituzioni. Non è un j’accuse, il dito puntato di una «coscienza coscienziosa» contro il sistema dell’accoglienza, come si disse nelle tante e troppe polemiche che il volume scatenò. Il racconto – anche in questo caso multiforme e plurale – rappresenta il bene e del male nel loro intreccio sociale e antropologico. Rastello racconta di soggetti che fanno effettivamente del «bene» (contro le mafie, le sopraffazioni, per il recupero di esistenze violentate dalla storia), che lo agiscono dentro il reale, lo rendono effettuale e concreto. Raggiungono risultati con un impego di tempo e risorse mentali spesso gravoso. Tutto ciò Rastello, dice, rappresenta, riconosce. Ma in alcuni di queste donne e uomini, spesso in proporzione alla potenza della convinzione morale, il «fare il bene» non è disgiunto da forme ed espressioni minute di un «male» in minuscola. Non quello grande e terribile della Storia, ma le piccole miserie che ci attraversano, che albergano dentro ognuno. In ciò sta l’effetto disturbante del libro: la sua intelligenza critica, il suo inquieto cercare (termini che oggi si sprecano, ma che erano l’abito quotidiano di Rastello) osservano la coesistenza – o se si preferisce, di nuovo, la sottigliezza del confine – tra la dirittura dell’intenzione morale e il «legno storto» dell’umano.

Il protagonista del romanzo è l’umano colto nella condizione specifica della relazione di lavoro, quello subordinato, sotto comando, che si svolge in regime di capitale. Rastello restituisce attraverso tutte le sfumature della narrazione il senso profondo e il dramma del lavoro precario, insicuro, sotto ricatto. È pessima cosa quando ciò accade sotto un padrone vero, i signori «in bele braghe bianche», quelli che stanno su, odiosi e odiati. Ma è forse peggio quando a precarizzare le esistenze del lavoro sono i «buoni», che si impegnano a cercare un luogo per ridare possibilità di vita a un migrante, che cercano di alleviare il dolore. Eppure è possibile…è possibile che, quando si deve fare quadrare i bilanci e soprattutto gli utili, tutti si comportino come un padroncino delle ferriere. È possibile che le richieste «sindacali» vengano sistematicamente messe a tacere confermando la diffusa prassi della forbice tra vizi privati e pubbliche virtù. Il romanzo, le polemiche, presentazioni effettuate e gli inviti mancati che cadenzarono il 2014 stanno lì a dimostrarlo.


Nel ciclone che seguì la pubblicazione Rastello – altra sua inestimabile qualità umana e professionale – non ha mai detto «non sono stato capito». Diceva, «forse mi sono spiegato male» e con ciò intendeva sottolineare l’intenzione di volare molto più alto dell’attacco personale cui era oggetto, mettendo a nudo non tanto o non solo un «sistema di potere», ma come le donne e gli uomini che in esso si ingranano non possano (forse) non impastarsi le mani di bene e male. Come, in altri termini, le istituzioni (tutte, non solo quelle totali) siano reti di protezione e sistemi di funzionamento del sociale ma anche strutture che lo stesso sociale tendono a irrigidirlo e sclerotizzarlo. Di nuovo: il confine, l’ambivalenza tra l’istanza solidale e quel «granello nazistoide» (così in La Frontiera addosso, p. 5) che alberga nell’umano e che ci fa compiere il piccolo sopruso o girare la testa di fronte all’orrore. Per stanchezza, per un’indifferenza che alle volte sentiamo legittimata proprio dalla qualità e dalla quantità dell’impegno che normalmente tentiamo di implementare.

Così eccoci di nuovo di fronte a noi stessi e alle situazioni limite che la storia continuamente ci para di fronte. Alla porta di casa bussavano gli esuli dalla guerra nell’ex Jugoslavia, in La Frontiera addosso la guerra è tornata qui, tutti i giorni, come ci ricordano le migliaia di morti annegati nel mare nostrum. Rastello torna a ripercorrere i muri, le frontiere, i confini che costellano il «bastione Europa». Non sono più i flussi di droga che calano sui territori, ma onde di corpi di donne e uomini che tentano un approdo. Rastello, in questo testo, offre al lettore una disamina puntuale delle norme che da decenni, in un oscillare incerto, proteggono e respingono. Leggi e istituti orientati (alle volte) da buone intenzioni ma resi inadeguati dai fatti, sempre esondanti, sempre s/confinanti il diritto e le sue regole. Ma anche norme apertamente o implicitamente liberticide, spesso emanate da governi di centro sinistra. Qui si vede la cogenza del diritto, la sua ricaduta sulla vita e la morte delle persone. Il libro segue i corpi dei migranti. La fuga, le difficoltà, lo stillicidio della violenza, la vita sempre affacciata al pericolo e alla sua stessa precarietà, anche quando si trovano davanti a una commissione che deve decidere se accogliere o respingere la richiesta di accoglienza e protezione.


Rastello ci ha anche insegnato, con la vita e gli scritti, che se il discrimine tra morale e moralismo è sottile è anche vero che è possibile percorrerlo senza mai cadere nella pratica predicatoria, mantenendo un tono etico altissimo, rigore e quasi freddezza dell’indagine, nella documentazione. In questo libro sulla «deportazione dei diritti umani», come recita il sottotitolo, i dati quantitativi parlano, e sono tanti, utilissimi, alle volte sono loro a sovrastare il commento a renderlo quasi inutile, perché da giornalista Rastello sa che i dati «parlano» al lettore, senza fronzoli. Per questo il volume inanella storia anche norme, tabelle su accoglienza e respingimenti in Europa.


Qualche flash, pennellate sul margine di un parzialissimo ritratto da parte di un improvvisato biografo, che tutto ha letto di lui ma poco l’ha frequentato e poco conosciuto.

Rastello che durante una cena, così, senza (apparente?) connessione con quanto si sta dicendo, in un modulato recitar-cantando declama una canzone di Tom Waits. Poi si ferma, sorride, e riprende a mangiare (buon intenditor di vini, tra l’altro).


Non parla di giornalisti, non polemizza con la stampa, non riporta pettegolezzi sul suo ambiente, che pure conosce a fondo, fin nei recessi. Il giornalismo si fa, non se ne parla. Le «cose» si fanno e si dicono, non si perde tempo nel commento al commento al commento.

Rastello che viaggia per qualche settimana nell’Est Europa con amici, tra cui un non vedente, e sono frontiere vere e anche qualche casino con «guardioni» e divise di varia nazionalità. Vedere con gli occhi è un modo, ma ce ne sono molti altri e i ciechi, si sa, li sviluppano in forma finissima. Rastello ne fa tesoro. E poi si è tra amici e lui del legame amicale ha un culto.


Rastello che si porta dentro e in giro per i continenti la sua malattia, piantata addosso per più di un decennio. Ogni tanto sparisce per un po’. Si fa «pulire» in ospedale, trasfusioni complete nel tentativo di rimettere – per quanto possibile – in condizioni di procedere ancora un corpo forte ma sempre più affaticato. È pallido, lo si vede quando presenta i libri. Ma faceva capire di non chiedere troppo perché, insomma, che vuoi dire? «A parte il cancro tutto bene», come titolò un cantautore-giornalista (Corrado Sannucci) un libro incentrato su quella stessa bestia che portò via entrambi.


Visioni di Luca Rastello: un militante politico tosto ma più ancora ironico, un padre appassionato, il compagno quasi perfetto per una donna, un amico che te le fa passare tutte ma ti stuzzica in continuazione, un equilibrista tra etica delle responsabilità e della convinzione.


Poi la lotta persa, alla fine, con la malattia e Fofi che scrive «Addio, Luca, i tuoi pareri e le tue conoscenze, i tuoi consigli ci mancheranno tantissimo. Ti salutiamo abbracciando le tue splendide figlie, che così tanto hai amato».


Attraversato il mondo, alla fine, Luca è sempre tornato in Europa, la «sua» terra, percorsa in lungo e in largo, in tempo di guerra e di pace. In questa Europa Rastello va a scovare un progetto tanto grandioso quanto assurdo. Un treno, un grande treno che dovrebbe collegare Lisbona con Kiev, con Torino-Lione come sua parziale tratta. Detta così, «suona» bene: il treno passa via veloce oltre le frontiere ed è un ponte mobile che collega e mescola. Poi scopri che il treno è ad «alta velocità», che non c’è tracciato condiviso tra gli Stati se non sulla carta, che decine e decine di imprese con il solito codazzo di malaffare stanno mettendo le mani su un affarone che comporta sbancamenti di migliaia di ettari, buchi di montagne, denaro sottratto alle linee ordinarie – quelle utilizzate da chi «pendola» tutti i giorni tra casa e lavoro – con carrozze troppo piene, malandate e sempre in ritardo. No, il trenone ad alta velocità porta merci lungo una direttiva che sarà probabilmente superata da altri percorsi. Il «mondo dell’impresa» sembra più interessato a spartirsi la torta della «grande opera» – basterebbe questo paradosso del gigantismo nell’epoca della crisi ambientale a coprire di ridicolo il Tav – che a utilizzarne i presunti benefici, su cui anche una parte del mondo accademico esprime moltissimi dubbi. La val Susa rispolvera antiche tradizioni antagoniste, diventa un riferimento per donne e uomini di tutta Europa. Rastello va in valle, partecipa alle marce e fa da sponda al movimento fornendo dati e informazioni. Ma soprattutto percorre il fantasma di una ferrovia che non c’è ancora e che (forse, speriamo) non ci sarà mai. Il libro, Binario morto. Lisbona-Kiev. Alla scoperta del Corridoio 5 e dell’alta velocità che non c’è (con Andrea De Benedetti, Chiarelettere, 2013) resta uno dei lavori più straordinari sul TAV perché Rastello compie un viaggio lungo tutta la potenziale linea, dimostrando, chilometro per chilometro, metro per metro, vuoto per vuoto, la demenza di quel «progetto».

Oggi più che mai ci piacerebbe averlo ancora qui, il giornalista d’inchiesta Luca Rastello, a controbattere pacatamente o un po’ incazzato alle bufale dei pro Tav.

Altre testi, Undici buone ragioni per una pausa (Bollati Boringhieri, 2009); Democrazia: cosa può fare uno scrittore? scritto a due mani con Antonio Pascale (Libri di Biennale Democrazia, 2011). Mai autobiografismo compiaciuto, semplicemente, dopo tanto stare per le strade, una riflessione su temi più «esistenziali» o più attenti alla responsabilità di un intellettuale militante che si prede cura ogni giorno del milieu entro cui si svolge il suo lavoro, la democrazia politica e non meno quella che dovrebbe sostanziare l’agire sociale.

Nel 2018, postumo, appare da Chiarelettere Dopodomani non ci sarà. Sull’esperienza delle cose ultime.


Ci manca, Rastello. Ci manca il romanzo che dopo I buoni doveva chiudere una trilogia. Ma non importa. Luca è qui, «lotta insieme a noi» e lo fa davvero con le sue informazioni, i suoi libri, i ricordi che ha lasciato agli amici, l’invito a dare serietà e solidità alle parole. Poi tace e ci offre quel sorriso mite che era tutto suo.



Immagine: Paolo Casablanca

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