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Lettere di Alberto Magnaghi



Pubblichiamo degli inediti di Alberto Magnaghi. Si tratta di alcune lettere dal carcere indirizzate a Sergio Bianchi, il quale ha avuto modo di ricostruire il contesto di quel rapporto in occasione di un omaggio a Magnaghi il giorno successivo alla sua scomparsa. Tale omaggio, reso in compagnia di Aldo Bonomi, è stato pubblicato su «Machina» lo scorso 2 ottobre. Se ne riproduce qui uno stralcio. Alla trascrizione delle lettere, che compaiono anche negli originali manoscritti, sono state apportate delle note per rendere più comprensibili alcuni riferimenti.

«[…] Io ho avuto modo di conoscere Alberto nel ’77 perché è stato uno dei miei professori al Politecnico di Milano. Una parte rilevante di studenti militanti dell’area varesina, e nello specifico tradatese, nella seconda metà degli anni ’70 si era iscritta appunto al Politecnico di Milano scegliendo i piani di studio del dipartimento di Scienze del territorio che era stato creato da Alberto. Attorno a sé aveva organizzato un’area di bravi docenti e ricercatori e a supporto di quel dipartimento ha fondato una rivista straordinaria e importantissima per quegli anni: "Quaderni del territorio". I numeri di quella rivista sono consultabili nella loro interezza sulla rivista "Machina". Quel che si studiava con una certa sistematicità, e mettendo a frutto gli insegnamenti della conricerca di Romano Alquati, era il fenomeno indotto dalla ristrutturazione produttiva in corso negli apparati industriali dei territori: il decentramento produttivo e la cosiddetta fabbrica diffusa. Mi ricordo un convegno straordinario sull’ "occupazione giovanile" organizzato proprio da "Quaderni del territorio" con altre riviste tra le quali "Primo maggio", "aut aut» e "Marxiana" proprio al Politecnico. Quella è stata la genesi, diciamo, del mio rapporto con Alberto che è stato quindi un rapporto di studio, di analisi di conoscenza di quello che stava accadendo di rilevante, soprattutto nei territori che abitavamo. È ovvio che l’area militante trovava in quegli strumenti un sapere prezioso che poi utilizzava nella progettualità e nella pratica politica. Tutte quelle vicende si sono poi risolte nella repressione di fine anni Settanta. Infatti una parte di quegli studenti, e lui, il massimo esponente del dipartimento di Scienze del territorio, sono finiti in galera, tant’è che ho avuto modo di rivedere Alberto nei cortili del carcere di San Vittore a Milano. Però sembrava che alcune delle sue passioni non fossero cambiate molto. Oltre all’armonica aveva iniziato a suonare il flauto, e poi accroccava degli aereoplanini con della balsa che durante le "ore d’aria" lanciava nei cortili. Il più delle volte andavano dall’altra parte del muro, allora ne costruiva altri. Però, oltre a quelle occupazioni, non aveva smesso di lavorare, di studiare. In quel periodo, all’interno di quel carcere si conducevano dei seminari su temi vari, anche i suoi, ai quali partecipavano alcuni prigionieri politici, ma anche "comuni". Inoltre Alberto rimarcava fortemente l’importanza dei rapporti che aveva costruito, prima della carcerazione, nella sua comunità nelle Langhe. Da quei racconti emergeva la sua personalità ironica, gentile, attentissima agli aspetti relazionali, affettivi, alle cose ultime, e penultime. Poi siamo stati tutti sballati in altre carceri. Io nello speciale di Trani, lui a Rebibbia, a Roma dove erano stati concentrati la maggior parte degli imputati del suo processo, che era quello del cosiddetto "7 aprile". In seguito a quella separazione il nostro rapporto è proseguito attraverso la corrispondenza che abbiamo tenuto per parecchio tempo. Io ero molto giovane, l’ho conosciuto come mio professore ed è poi diventato non solo un mio compagno ma anche un amico, un fratello. […]»


* * *


[Rebibbia] 19/11/80


Carissimo Sergio,

la tua lettera, anziché a pranzo, è arrivata all’aria, e così, poiché prendiamo ormai tutto sul ridere, anche noi abbiamo riso sopra alla tua vicenda con Piscopo [1]. In fondo basta cogliere gli aspetti divertenti di ogni cosa. Ho ricevuto una lettera dal mio paese dove un mio amico mi racconta di un comune amico che si è tagliato un dito con la motosega: bene, cosa hanno concluso? che dal momento che non si era mozzato l’intera mano era il caso di festeggiare l’avvenimento, e così hanno fatto un pranzo durato, con venti commensali (all’inizio, cinquanta alla fine), un giorno e una notte con musica e canti fino all’alba…

Quanto alle ipotesi del superprof [2] (con cui non corrispondo più per scaramanzia poiché quando ci ho provato, anni fa, la cosa mi ha lasciato un «residuo» di mostruose analisi filosofiche nel testo cui sono tuttora sottoposto, e non mi è ancora passata l’incazzatura, con me stesso, naturalmente), mi pare un po’ semplicistica l’ipotesi del «triplo passaggio» [3]. Ma quale banda? Ma quale associazione?

Prima bisogna fare a pezzettini il mostruoso «bandone» che come un serpente si aggira per gli anni ’70 a partire dal «peccato originale» [4] e che consente la sovradeterminazione politica di cui tutti siamo vittime. Dunque non «triplo» ma sestuplo, decuplo passaggio, e chi più ne ha più ne metta. Quanto alla scadenza termini [5] mi sembra un po’ lontanuccia, e dal Palazzo continuano ad arrivare notizie di accelerazioni della chiusura [6] da prendere con le molle, ma comunque come intenzione, dato che il materiale istruttorio è già quasi tutto al Pm. L’idea della rivista [7] è affascinante quanto perversa. Ma quando la pianterete di fare progetti «senza progetti»? C’è sempre bisogno di una calda, materna, culla «associativa» per esprimersi? Mai nella vita, un po’ di solitudine, da cui ognuno riprenda a misurarsi con il mondo? Comunque aspettiamo il rituale menabò dei primi tre numeri e le altrettante rituali ipotesi di scadenze per il passaggio a quotidiano.

Per quanto riguarda il lavoro sulla metropoli postindustriale procede un po’ a rilento, ma procede. Ma poiché l’argomento è faraonico, ho deciso di spezzettarlo a puntate-saggi, che andranno a costituire poi, ricalibrati, i capitoli del volume. Ora sto lavorando alla prima puntata sulla pianificazione (che dovrebbe essere l’ultima, ma per ragioni di documentazione, studio per prima) in cui sviluppo l’analisi delle ultime esperienze di pianificazione «globale» (socioeconomica e […]) come passaggio all’uso «appropriato» delle risorse (umane, ambientali, culturali) nuovo modello della gestione del piano come elemento della «produttività» sociale. (Da «afferrate Proteo» alle agenzie e osservatori del lavoro, ai piani comprensoriali ecc.). Appena steso il capitolo te ne farò avere copia. Nel frattempo aspetto documentazione dagli USA per il capitolo sulle metropoli mondiali, e sto lavorando sul capitolo più difficile, «forma e cultura materiale della metropoli postindustriale».

Ma intanto c’è un bel sole e sovente «marino» il lavoro, la mattina, per scendere in spiaggia . Penso un numero della rivista andrebbe dedicato alla palla a volo. Ora, poiché le mie schiacciate sono diventate imprendibili, hanno elaborato la teoria che io meno tutti mentre schiaccio. Falso, poiché sono continuamente assalito alle caviglie, alle ginocchia, ai fianchi – ma a partire da un atteggiamento vittimistico di Arrigo [8] (una volta è caduto, si è slogato una caviglia e il «perfido» Francone ha messo in giro la voce che ero stato io), vi vedono scenette in cui Tranchida [9], Cecco [10] ed altri si accasciano doloranti come si vede nelle partite di calcio. Solo il dottore [11], che mi rifila delle sberle terribili, dignitosamente lo rivendica. Ormai, uscire interi da queste partite è sempre più difficile.

Sono contento che tu abbia risolto la tua situazione di cella [11]. Non capisco le proteste di Luciano [12], che differenza c’è tra un freak e uno «perdutamente pigro» come si definisce? I freak non sono quelli che hanno capito male il nostro discorso sul rifiuto del lavoro intendendolo come elogio dell’ozio? Il comunismo «occidentale», se mai ci sarà, sarà una roba stanchevolissima, eliminato il lavoro la giornata sarà pienissima: seduzione, musica, arte, scienza, e poi un sacco di gente che giocherà instancabilmente a organizzare gli altri. Nell’attesa, conviene riposarci un po’.

Ti abbraccio forte caro Sergio, conserva il tuo dolce e limpido sorriso in questo buco grigio della ragione. Un abbraccio a tutti i compagni.


P.s. per Luciano: vecchio sarai tu, io mi […] giovanissimo, denso di progetti primaverili. Su questo processo [13], per ora, non so più cosa dire, mi manca la fantasia per prevedere quando si toccherà il fondo. Non ti occupi più di questioni «imperiali»? Ti manderò, appena pronto, un mio schemino sullo sviluppo delle metropoli mondiali, su cui gradirei un tuo parere. Ma se per caso passerò di lì, sicuramente ci dedicheremo alla musica, ho gran nostalgia del mio clarinetto, o, come si dice, «in subordine» [14], di un’armonica a bocca, che qui è vietata.


Un abbraccio

Alberto



Note

[1] Il riferimento è ad alcune controversie da me avute con il mio avvocato difensore dell’epoca.

[2] Toni Negri.

[3] Il riferimento credo sia a una ipotesi di difesa giuridica nel processo «7 aprile» basata sulla derubricazione dei reati.

[4] L’appartenenza a Potere operaio.

[5] Scadenza dei termini della carcerazione preventiva.

[6] Chiusura del processo istruttorio «7 aprile».

[7] Il riferimento è a una proposta avanzata da Emilio Vesce, detenuto in quel momento nel carcere speciale di Trani, di elaborare un progetto di rivista interna alle carceri.

[8] Arrigo Cavallina.

[9] Giovanni Tranchida

[10] Cecco Bellosi

[11] Giorgio Raiteri

[12] Luciano Ferrari Bravo

[13] Il riferimento è anche qui al processo «7 aprile» nel quale erano entrambi imputati.





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Rebibbia, 20/1/81


Carissimo Sergio,

non so quando riceverai questa lettera, da un po’ le comunicazioni sono interrotte. Inutile che ti racconti come abbiamo vissuto il vostro dramma [1], non abbiamo bisogno di frasi di circostanza, nei confronti dei giornali siamo stati resi muti come anatre da ingrasso, nonostante le nostre reiterate prese di posizione. Dunque caro Sergino, non parliamo delle tue vostre ossa peste. Luciano [2] è da molto giorni qui, ma non riusciamo ancora a farlo sorridere. Prima di ritrovarci tutti lugubri, incazzati e angosciati avevamo iniziato un divertente seminarietto sul tema «elementi fondativi per una comunità proletaria». Il gruppetto interdisciplinare così composto: Chicco [3] (storie delle religioni e delle comunità utopiche); il dottore [4] (da chirurgo squacia-pance a studioso della magia, trance, ecc.); Finzi [5] (ecologo, erborista alternativo, stregone) e il sottoscritto (ideologo antiurbano, detto «Langa libera»). Arrigo [6] dopo la prima riunione si è dichiarato urbano (non vuole rinunciare al termosifone) e così è stato consensualmente radiato. Jaro [7] non ha tempo per distrarsi dalla macchina da scrivere a cui è incorporato; Francone [8] si è dichiarato per una comunità «di nomadi», che girerà a visitare le comunità stanziali. I primi punti discussi sono: le comunità a sfondo religioso (vedi ad esempio esperienze Usa XIX sec.) hanno avuto vita più solida e maggiore propagazione di quelle a sfondo laico (socialisti utopisti). Problema comunità chiusa o aperta. Problema dei luoghi sociali più favorevoli: laddove la permanenza della tradizione esemplifica un ritardo della penetrazione del codice informatico e della simulazione. (Non da assumere come tradizione in quanto valore, ma in quanto atteggiamento di rifiuto esemplificato, di omologazione al codice); fine dell’alternativa tra umano e antiumano (partire dal concetto che la metropoli postindustriale ha già distrutto il concetto di città, dunque il problema non si pone; la contraddizione semmai è fra comunità astratta e comunità concreta). Su questi nodi problematici erano in programma relazioni e approfondimenti; poi gli eventi hanno travolto il nostro «college». Così come sono piuttosto indietro sulla stesura del mio saggio «progettare la comunità proletaria». Per molti motivi, l’incazzatura per parte del materiale requisito, letture da terminare, clima non proprio adatto per il mio centro sudi. Dunque abbi pazienza, appena terminato te ne farò avere copia. A rileggere le tue lettere sul «clima freak» del luogo [9] mi va un po’ in fumo la ragione e mi vengono in mente scambi di opinioni sul «carcere nel carcere». Basta! Bisogna urlare la propria identità.


27/1 Riprendo a scrivere. Nel frattempo sono arrivati gli atti e requisitoria [10] ed è arrivato anche Toni [11]. Più sconvolto di così non l’ho mai visto. Non riusciamo a fargli dimenticare gli orrori. Ora stiamo lavorando per le difese e le iniziative pubbliche da prendere. Sarà un mese noiosissimo a suon di «de quo», «de quibus», «in subordine», ecc. Hai visto in nostro articolo sul Manifesto di domenica 25? Abbiamo mandato anche scritti sul digiuno di Marione [12], ma non sono mai arrivati. Rileggendo le tue ultime lettere mi sembra ancora più drammatica la situazione in cui ti sei trovato tuo malgrado. Fai ogni sforzo per mantenere la tua identità, lo immagino che sarai incazzato come una bestia, ma bisogna resistere, non si può cadere nella provocazione della criminalizzazione carceraria, anzi mai come ora occorre chiarezza, saper dire no con chiarezza e forza a questa guerra assurda. Senza il ritornello, ma è importante che siano in molti oggi ad esprimersi, a porre il problema nella sua reale drammaticità. Mi ha scritto Giuseppe [13] da San Vittore, con Maurizio [14], studiano i ragazzi, studiano nel loro delizioso raggetto 2° [15]. Ma tu crei troppe aspettative sulle quattro cazzate che sto elaborando e mi crei dei sensi di colpa se «non produco» abbastanza. Lasciatemi vivere anche a me i miei piccoli periodi di crisi, ozio e meditazione (o no?), fate lavorare un po’ quel fannullone di Luciano che ne sa una più del diavolo. Ciao caro Sergio, un abbraccio forte forte a te e a tutti i compagni, in particolare costante pensiero ai miei amici di infanzia, Emilio [16] e Luciano.


Alberto


Note

[1] Il riferimento è alla rivolta dei prigionieri del carcere speciale di Trani avvenuta a fine 1980.

[2] Luciano Ferrari Bravo.

[3] Chicco Funaro.

[4] Giorgio Raiteri.

[5] Augusto Finzi.

[6] Arrigo Cavallina.

[7] Jaro Novak.

[8] Franco Tommei.

[9] Il riferimento è al clima nel carcere speciale di Trani prima della rivolta alla quale si è fatto cenno.

[10] Il riferimento è al processo «7 aprile».

[11] Toni Negri.

[12] Il riferimento è allo sciopero della fame intrapreso in quei giorni da Mario Dalmaviva.

[13] Giuseppe Crippa.

[14] Maurizio Rortaris.

[15] Il riferimento è al 2° raggio del carcere di San Vittore a Milano.

[16] Emilio Vesce




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Rebibbia 24/2/81


Caro Sergio, ti scrivo rapidamente, poiché ci stiamo acclimatando in questo raggio «normale» dove con Jaro, Giorgio, Chicco, Francone, Augusto [1] siamo stati trasferiti da qualche giorno.

Una sentenza del giudice di sorveglianza del Lazio ha dichiarato illegittima la nostra detenzione nello speciale in quanto non differenziati [2]. Toni e Luciano [3] sono per ora rimasti al G7 [4], per loro la questione è un po’ più complessa, ma credo si risolverà. Ma quanti si trovano negli speciali senza essere «differenziati»? E quali i motivi? Mistero. Noi lo abbiamo sollevato per puro caso, avendoci comunicato la direzione che non eravamo differenziati. Qui, per la prima volta, al G12, abbiamo toccato terra e erba dopo 14 mesi! Una sensazione incredibile. Siamo in celle singole, ma con molta socialità: pranzo, cena, sala comune dalle 17 alle 20, un’aria molto grande con alberi oltre la rete (niente muri di cemento), il campo da tennis ecc. L’ambiente è tipo «basso napoletano» di S. Vittore [5], televisioni e giradischi a tutto volume tutto il giorno, parlata in romanesco, ma tutto sommato è preferibile questo casino al glaciale silenzio del G7.

Ora dovrò ripensare interamente l’autoanalisi [6], già per altro interrotta dal «sabato nero» dei pestaggi [7] e successivi diuturni litigi coi socialisti [8] che hanno tentato di balzare sul carro [9]. Figurati Toni, e Giorgio, reduci da Trani con Luciano! Ma l’alleanza tra i P.P. [10] e i G.P. (gentiluomini priogionieri – definizione di Chicco) è stata salda e netta, isolando questi rompicoglioni. Trani ha rappresentato veramente una svolta, la diffidenza e la rottura ormai è totale, anche per i più movimentisti «lotta-lotta». Ma quand’è che invece di scrivere letterine agli amici, come quella che mi riporti nella tua ultima lettera, non vi decidete, tu e i mille altri che brontolano e mugugnano, a pubblicizzare le vostre idee? Queste carceri sono piene di pigroni, di sfaccendati, di incistati.

Il lavoro qui langue, per via del trasferimento. Sono in arrivo gli atti e ci metteremo stancamente a leggerli per ripetere le solite cose. Io poi sono alla nausea. Le mie memorie difensive sono da quattordici mesi tutte uguali, Jaro che me le batte a macchina, non ha nemmeno più bisogno che gliele detti, procede da solo. Nella requisitoria del Pm si dice che io ero uno dei responsabili «morali», con i miei discorsi e scritti pubblici (Quali?). Poco più avanti Fioroni [11] invece sostiene che ero abilissimo a occultare il mio pensiero… E come si fa a difendersi da una simile logica? Boh, meglio giocare a tennis, a calcio no. Jaro che era il più aggressivo allo speciale, qui nella partita di oggi sembrava un agnellino. I borgatari non scherzano. Meglio a tennis con i politici, più delicati e sensibili.

In questo ultimo periodo sono stato espropriato di tutti i nostri percorsi soggettivi. L’autoanalisi sul «disvelamento» della barriera, si è rivelata niente più che una fase istabile soffocata da chi sulla barriera, da una parte e dall’altra cerca il proprio riconoscimento politico-esistenziale [12]. Ho interrotto il mio saggio, per la precarietà della documentazione.

Insomma, siamo un po’ svuotati, tranne Francone, che nuota in questo «basso» finalmente felice di «ciacolare» da mattina a sera. Il conte Chicco trova l’ambiente un po’ demodè; Giorgetti [13] e Augusto (lo stregone erborista che non conosci) si contendono i clienti in cura, io ho un po’ perso il filo dei miei ragionamenti. Vedo di ritrovarlo, nei prossimi giorni, poi ti dico.

Arrigo [14] è ancora al centro clinico di Regina Coeli [15]. Luciano e Toni erano così tramortiti che l’unico reale dibattito, acceso, con toni anche minacciosi, era sulla spartizione del vino e di quali trucchi inventare per sottrarlo alle altre celle. In cella i quattro ubriaconi, io, Jaro, Toni, Luciano (qui c’è il rigido limite di ½ litro a testa al giorno!), hanno finalmente capito le teorie dello «spazio vitale» e dell’imperialismo.

Un forte abbraccio, certo le Langhe vinceranno.


Alberto


Note

[1] Jaro Novak, Giorgio Raiteri, Chicco Funaro, Franco Tommei, Augusto Finzi

[2] I detenuti differenziati erano destinati a scontare la pena nei carceri speciali ad alta sicurezza.

[3] Toni Negri, Luciano Ferrari Bravo.

[4] Reparto ad altissima sicurezza situato in un edificio sul retro, separato da quello principale.

[5] Carcere circondariale di Milano.

[6] Alberto Magnaghi aveva coniato questo termine per definire una serie di riflessioni sull’esperienza carceraria che stava vivendo, riflessioni che poi ordinerà nel suo libro Un’idea di libertà. Diario dal carcere.

[7] Il riferimento è a uno dei soventi pestaggi dei detenuti effettuati dalle guardie carcerarie.

[8] Gli appartenenti alle Brigate rosse.

[9] Il riferimento è a al tentativo di strumentalizzazione politica della situazione di tensione venutasi a creare in seguito ai pestaggi suddetti.

[10] «Proletari prigionieri»: definizione coniata dalle Brigate rosse per quei prigionieri detenuti per reati comuni poi «politicizzati» in carcere.

[11] Carlo Fioroni, ex militante di Potere operaio divenuto poi «collaboratore di giustizia» nel processo «7 aprile».

[12] Anche queste riflessioni, piuttosto criptiche, saranno poi meglio chiarite e sistematizzate nel Diario dal carcere al quale si è già fatto cenno.

[13] Giorgio Raiteri.

[14] Arrigo Cavallina.

[15] Carcere circondariale di Roma





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Rebibbia 10/5/81



Cosa vuoi che sia, carissimo Sergio, un ritardo di un mese e mezzo nella risposta alla tua lunga lettera, con tutto il tempo che abbiamo! In effetti il «trauma da delirio a giudizio» [1] è stato notevole da digerire, la «politica della speranza» lascia brutte tracce quando si affloscia, occorre riorganizzarsi psicologicamente ad un altro tempo indefinito dopo aver sperato di rivedere le colline delle Langhe. Raiteri [2] è dal primo aprile a Genova, sta molto male, ora è in ospedale (nel suo ospedale, dove squartava malati) nel reparto detenuti, strano destino finire in manette e catene nella sala dove operava! La sua gamba è peggiorata. Arrigo [3] è tornato fra noi con le ossa rattoppate alla meglio, ma gioca già a tennis. Toni [4] è partito per Forlì, Luciano [5] è qui ma non viene all’aria perché differenziato, così va al cubicolo da solo. Francone [6] è sempre più grasso, Chicco [7] arbitra le partite di tennis come fosse a Wimbledon, Jaro [8] è ben acclimatato nella borgata romana [9] che gli ricorda la gioventù. Hai ragione quando sostieni la «centralità» del nostro processo riguardo tutta la questione. Infatti questo rinvio a giudizio è veramente onnicomprensivo, onnivoro, è il processo sovietico in Italia, o meglio alla banda dei quattro in Cina.

Ho letto la vostra lettera sul Manifesto, bene, a parte lo stile un po’ burlone, anche qui fioriscono prese di posizione a partire dalla dissociazione (su cui l’intero raggio è unanime). Basta con questa storia della «destra»; non esiste una destra del delirio della guerra, esiste una sinistra del movimento operaio, che è altra cosa, forma nuova della politica, della vita, che sta iniziando la propria primavera, in Germania, in Francia, forse in Usa (qui la bella stagione è un po’ ritardata da questo maledetto inquinamento da piombo); ognuno decida se vuol essere destra del delirio, o sinistra di un sociale in profondo movimento. Autocritica (per chi la deve fare, naturalmente) e riconquista degli occhi, dell’odorato, dei sensi, per vedere e sentire la primavera. Percorso lungo e faticoso, come il riadattamento degli handicappati, oppure per chi è stanco, una dignitosa pensione.

È uscito finalmente il mio libro (Il sistema di governo delle regioni metropolitane, F. Angeli), non ne dispongo al momento di copie da mandarti, al momento. È un po’ vecchio ma è da lì che son partito per le mie attuali ricerche sulla metropoli postindustriale, ma sto riprendendo a lavorare, dopo qualche mese di interruzione poiché il mio «centro sudi» è stato spesso disturbato dalla spessa quotidianità del carcerario e delle sue vicende. Conto di farne una prima stesura per la fine dell’estate, e così pure del diario-autoanalisi, sul quale non ho da scrivere nulla di nuovo, poiché oltre all’anno e mezzo si è per così dire «incalliti» e il coattone assume come naturale la sua condizione. (Le mutazioni genetiche si assestano sull’adattamento). Così rivedrò il percorso già fatto e lo risistemerò in forma leggibile (lavoro per le vacanze estive).

Le elaborazioni processuali sono un po’ lente (tempo per la digestione faticosa delle 1000 pagine), ma riprenderemo presto la campagna pubblica. Non è ancora deciso chi finirà nella «pattumiera della storia» [10].

Qui i seminari su «progettare la comunità proletaria», cui ti avevo accennato, sono fermi, proseguo da solo, perché è preferito il tennis, gli scacchi, la bisca, la musica. Inserirò le mie elucubrazioni nel testo di fine estate. Dimmi le tue impressioni appena hai letto qualcosa di postmoderno. Qui era iniziato un seminario, con proposta di lettura collettiva di Prigogine (la nuova alleanza), ma il relatore, un fisico, è uscito e così siamo ripiombati nella nostra ignoranza delle scienze fisiche.

Un forte abbraccio, a presto,


Alberto


Caro Roberto [11], non trattare con sufficienza questo tuo amico «provinciale»; mille provincie accerchieranno la metropoli, nei buchi sperduti della periferia covano mille progetti meno effimeri delle orde vaganti e nomadi dove l’informazione «più veloce della luce» è diventata entropia. Tribù nomadi che circolano, ben accette dalle ospitali tribù stanziali, ma senza gerarchie, chi possiede troppe informazioni e le fa circolare troppo velocemente sarà squalificato. Come nel gioco dell’oca. I movimenti ecologici tedeschi non sono «sulla casa», nella metropoli rivendicano il pied-à terre, ma il loro rapporto con lo Stato è marginale. Passano il tempo a costruire comunità, a edificare nuove società. Ogni tanto rivendicano, si scontrano, per allargare i propri spazi di vita, trattano, vincono elezioni, ma non sono un movimento elettorale. Cosa sono? Tutto da capire. Ciao, ciao, stammi bene, a presto


Alberto


Note

Note


[1] L’allusione è al rinvio a giudizio del processo «7 aprile».

[2] Giorgio Raiteri.

[3] Arrigo Cavallina.

[4] Toni Negri.

[5] Luciano Ferrari Bravo.

[6] Franco Tommei.

[7] Chicco Funaro.

[8] Jaro Novak.

[9] Il riferimento è al reparto G12 del carcere romano di Rebibbia. [

[10] Affermazione che compariva nel testo di rinvio a giudizio del processo «7 aprile» in riferimento alla storia politica degli imputati.

[11] Roberto Carcano.





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Rebibbia 25/7/81


Caro Sergio, sono parecchi giorni che cerco di andare in vacanza, ma non ci sono ancora riuscito. Il programma non era male: bocciofila (abbiamo costruito bocce di carta igienica, colla e tele), tennis, scacchi, musica spiaggia. Ma in questa maledetta galera è impossibile programmare alcunché. Giorni e giorni di pesanti discussioni, tentativi di isolamento del 7 aprile, con i soliti metodi pilateschi, così dovremo sbobbarci chilometrici seminari, dibattiti, insomma un’estate da ritiro spirituale.

D’altra parte la dissociazione dal terrorismo non può esserlo anche dalla lotta di classe, vanno riaffermate le identità, i progetti, le nuove forme della politica, contro l’ottuso «riduzionismo» del politico che aleggia in questo mondo di sballati. Non so se hai letto l’articolo mio e di Jaro [1] sul Manifesto, mi piacerebbe avere commenti, anche se l’abbiamo fatto di mala voglia, un po’ incazzati perché spetterebbe ad altri sviluppare il discorso, soprattutto dopo le «stecche» panomaresche [2].

La situazione di Giorgetti [3] a Genova è disperata, allo stremo fisico e mentale, in questi giorni decidono dell’istanza [4], ma pare marchi male. Se gli bocciano l’istanza, scrivigli; avrà bisogno di conforto per resistere a questa ulteriore troiata (G. Raiteri, ospedale S. Martino, monoblocco 6, Gastro, Carcere Marassi, P.le Marconi 2, 16 134 Genova).

Del nostro processo non se ne ha più traccia, e nemmeno degli atti (ho bisogno di 30 fogli per preparare una memoria «offensiva» sul rinvio a giudizio e non riesco a ottenerli); stiamo ultimando un esposto al CSM [5] sulle irregolarità procedurali, tentando di mendicare le briciole di questo potente neogarantismo che aleggia nelle sale da pranzo del palazzo; abbiamo anche messo in cantiere un’agenzia per la diffusione di tutti i materiali che produciamo e per la gestione processuale (se lo ritieni utile, ti inseriamo nell’indirizzario degli eletti che dovranno sciropparsi le nostre menate, a partire dai primi di settembre), oltre a pensare di farsi sponsorizzare dalla Marlboro!

Sto lavorando, oltre che al mio libro sulla metropoli postindustriale che non finisce mai, alla riorganizzazione di una rivista di architettura (si fa per dire), di cui erano già usciti due numeri: Quaderni del progetto, Marsilio, che dovrebbe affrontare in positivo ciò che Asor Rosa affronta come pianto su Laboratorio politico [6], ovvero: critica della pianificazione (oltre lo stato-piano, oltre i sistemi di programmazione delle socialdemocrazie, oltre il partito-piano del socialismo reale, epicentro del discorso europeo e USA); esperienze comunitarie e di autodeterminazione e forme d’uso (progettazione del territorio, ambiente/architettura, forme di rappresentazione dei nuovi paradigmi del sociale, esperienze artistiche di massa e scena urbana). Se ti interessa, non appena configurato, ti manderò un menabò dettagliato del primo numero.

Condivido molto il tuo «smarrimento» e stanchezza da galera, nel senso che vivo anch’io questa defatigante lotta quotidiana per non ridursi a sopravvivenza vegetale. Il tempo che passa anziché rafforzare la «corazza», tende a liquefare i pensieri, la volontà, la capacità reattiva, e creativa. Ma è privo di senso arrendersi, cerca di darti un programma di studi, non lasciarti scivolare addosso le giornate, come ogni tanto faccio io (qui l’aria è più grande che a S. Vittore [7], così passo intere sere a costruire areoplanini di balsa, con gare a cronometro di durata, tra gli sguardi indignati di riprovazione dei più ortodossi combattenti. Ma, come ho detto a uno di questi seriosi e lugubri ragazzi, meglio un adulto che gioca a fare il bambino che un bambino che gioca a fare l’adulto).

Scrivimi cosa hai già letto sugli argomenti che citi, in modo che possa fornirti bibliografie e iniziare qualche discussione anche a distanza, nel merito. Ti avrei mandato io stesso il mio libro ma sono riuscito ad averne una sola copia, su cui devo fare le correzioni. Sono trattato molto amorevolmente dalla mia comunità scientifica, ma come un «pacco al deposito bagagli».

Un lungo abbraccio, a presto,


Alberto


Note

[1] Jaro Novak.

[2] Il riferimento critico è a una intervista rilasciata da Toni Negri al settimanale Panorama.

[3] Giorgio Raiteri.

[4] Istanza di scarcerazione avanzata dalla difesa di Giorgio Raiteri per gravi motivi di salute.

[5] Consiglio superiore della magistratura.

[6] Rivista fondata nel 1981 nella cui redazione figuravano tra gli altri: Asor Rosa, Massimo Cacciari, Rita di Leo, Aris Accornero, Umberto Coldagelli e Piero Bevilacqua.

[7] Carcere circondariale di Milano.




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Rebibbia 20/8/81



Carissimo Sergino, mi ha fatto molto piacere ricevere la tua lunga lettera, anche se la valanga di interrogativi che poni mi hanno un po’ «smontato» la risposta. Poiché mi sembrano francamente troppi. L’uovo e la gallina: lo Stato non media finché non si riesprime un movimento «mediabile», un movimento mediabile non si dà finché il terrorismo non finisce, il terrorismo non finisce finché lo Stato non opera una trasformazione sociale, ma lo Stato non opera una trasformazione sociale finché non si dà un’alternativa politica di governo, la quale non si dà senza una forte spinta di movimento… la filastrocca può continuare pagine e pagine. E intanto va avanti il processo «oggettivamente» irreversibile. Io figurati, sono più nauseato e lontano di te dalla «politica», pensavo da anni ad altre cose, vivevo in un’altra dimensione il mio impegno sociale. Mi hanno ricacciato a forza in un passato remoto, mi sono assunto la responsabilità di dire pubblicamente ciò che penso di questo guazzabuglio, mi sembra di cogliere un generale attendismo, probabilmente sono in molti a porsi i tuoi stessi interrogativi. Ma perché mai il ceto politico dovrebbe uscire dalla sua «latitanza» a fronte di una maggioranza «silenziosa» come interlocutore nelle carceri? O meglio, risponde all’unico interlocutore che ha, le BR. Oppure, estende il discorso del pentimento alla dissociazione, assunta, ovviamente, come variante del primo, unilateralmente, come giuramento di fedeltà, come il giuramento sindacale per i delegati. Come si fa ad accusare il ceto politico di immobilismo, quando si muove eccome, ed è invece la maggioranza del movimento incarcerato a restare immobile e a subire ogni forma di sovradeterminazione? Non parliamo dei dinosauri rimasti fuori: «si ma però», un colpo al cerchio e uno alla botte, ambiguità, silenzi, disinteresse, richiami untuosi all’unità, insomma un bel quadretto. È vero, ciò che blocca la politica (ovvero nuove forme della politica) è oggi, come tu dici, la politica stessa. Ma noi siamo nelle cantine del Palazzo e la società è lontana. Allora? Siamo al fronte, caro Sergio, non si può far finta di essere in prati fioriti, nel ventre caldo e ambiguo del sociale. La libertà che ci è stata tolta è soprattutto quella di esprimere energie nuove, nuove forme di comportamento in mondi lontani dalla politica e dal suo gioco delle parti, lontano dal Palazzo e dalle sue guerre. Altro non so dirti, se non che il discorso della dissociazione dal terrorismo (non dalla lotta di classe!) viene gestito dalle istituzioni giudiziarie e non dai soggetti incatenati. Che sono incatenati due volte, dallo Stato e dalla loro incapacità, in questo preciso momento politico, ad essere protagonisti, a scegliere, ad essere cosa collettiva; al fronte non si può scegliere il terreno più consono alle singole coscienze. È imposto. Purtroppo è così. Ognuno di noi è più ricco, più bello, più importante della monodimensione cui è ridotto. Ma nessuno potrà in futuro dichiararsi, sentirsi avanguardia di alcunché se oggi non sa trovare le forme per esprimere, in queste condizione date, la propria storia, la propria soggettività e preferisce annegarsi nel conformismo dell’attesa, del lasciare la politica ad altri. Se continua così, penso ad un rapido recupero della maggioranza «silenziosa», magari «oggettivo», date le note leggi del carcerario, da parte dei guerrieri ad oltranza, che «stanno vincendo» per riconoscimento governativo.

Qui, dopo la gran sete della vertenza «acqua» stiamo facendo alcuni seminari; uno sul nucleare (usi militari e «civili») e uno sul movimento europeo; non ti racconto delle solite menate delle divisioni con i residuati bellici perché è storia quotidiana del carcere, soprattutto del grande giudiziario. Fatto sta che le mie vacanze se ne sono andate in assemblee, insulti, risse che mi hanno reso sempre più nocivo il carcere. L’autunno, con il processo Moro alle porte, non si preannuncia certo sereno. Stiamo dando gli ultimi ritocchi all’esposto CSM [1], che ti manderemo in stesura definitiva.

Trovo molto bello il tuo amore «letterario», io non ho quasi più la forza di coltivarne, forse sbaglio, ma mi sono costruito una corazza sempre più spessa per non lasciar penetrare i desideri.

Ti scriverò più a lungo quando il caldo soffocante sarà passato, e soprattutto in una giornata meno cupa, come ti sarai accorto dal tono della lettera. Ma non si può essere sempre allegri, poiché costa una fatica terribile e ogni tanto arriva un cerchio alla testa che ti svuota dentro e ti fa sentire assolutamente immobile e assente.

Ciao Sergio, un lungo abbraccio a te, Roberto [2], Luciano [3],


a presto,

Alberto



Note

[1] Consiglio superiore della magistratura.

[2] Roberto Carcano.

[3] Luciano Ferrari Bravo.




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Alberto Magnaghi è stato architetto urbanista, professore emerito dell’Università di Firenze, Presidente della Società dei Territorialisti/e Onlus e autore di progetti, piani e ricerche sullo sviluppo locale autosostenibile. Fra le sue pubblicazioni più importanti, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo (Bollati Boringhieri, 2010); Un’idea di libertà (DeriveApprodi, 2014); Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020).


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