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Le donne e il loro rapporto con le armi nella lotta armata degli anni ’70






Del testo che segue non siamo riusciti a rintracciare autore, o più probabilmente autrice, e data. Probabilmente si tratta di una traccia per la realizzazione di un’opera di ricerca sul tema dell’uso delle armi soprattutto da parte delle donne nel contesto della lotta armata degli anni Settanta e inizio Ottanta.


* * *



Comincio a guidare la gente e gli impiegati verso i cessi. A debita distanza. Non voglio, non devo far loro del male, in nessun modo, perciò non mi devono venir vicino, che non gli venga in mente di pensare che sono «solo» una donna e di reagire. Gli scazzi erano cominciati subito, io e Renzo avevamo due maniere opposte di intendere la clandestinità. Lui si fidava della sua esperienza, io del mio intuito. Lui si fidava delle sue capacità militari, io delle mie capacità mimetiche. Lui girava armato e io no. Insomma ero convinta che per me fosse più sicuro affidare le mie possibilità di uscire da un controllo casuale a un ottimo documento che alle mie mediocri capacità militari. Le armi per me facevano parte della lotta armata, e quindi del momento in cui scendevi in azione, ma non facevano parte del mio corredo cromosomico.

Teresa Zoni Zanetti, Clandestina, DeriveApprodi.



Fra le quattro donne di Prima linea (Pl) e dei Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp) [1] che ho intervistato, solo Susanna Ronconi partecipò a operazioni il cui obiettivo era la morte di una persona. Altre volte, non vi prese parte, ma contribuì alla loro ideazione e organizzazione. Fiorinda Petrella è stata coinvolta nella morte di un agente di polizia durante un tentativo di evasione dal carcere di Firenze, concluso con una sparatoria. Fiorinda non faceva parte del commando ma aveva contribuito con mansioni di tipo logistico. In quel caso l’uccisione fu «accidentale», non prevista. Pia Sacchi e Grazia Grena, invece, pur avendo rischiato molto nel periodo della loro clandestinità, non vennero mai coinvolte in fatti di sangue e i reati per cui sono state condannate – a parte l’organizzazione di banda armata e di associazione sovversiva – sono principalmente rapine finalizzate all’autofinanziamento. È molto raro leggere, nelle testimonianze di ex appartenenti alle organizzazioni clandestine, il racconto di un’azione, tanto più quando ha provocato delle vittime. Quella di Susanna Ronconi, direttamente coinvolta nell’uccisione di alcune persone, è una delle poche, fra quelle che ho potuto conoscere, che si soffermano a lungo sul problema della morte.


Questa è proprio l’aberrazione, la cosa allucinante dell’ideologia. Da una parte ci sonogli amici e dall’altra ci sono i nemici, e i nemici sono una categoria, cioè sono delle funzioni, sono dei simboli, non degli uomini. E quindi il trattare queste persone come la simbologia della nemicità fa sì che tu hai un rapporto di assoluta astrazione con la morte. Per cui se io probabilmente fossi andata a fare l’impiegata al catasto, invece di andare a fare l’omicida, per me sarebbe stata la stessa cosa, per cui una scissione allucinane tra questa cosa qui, nel senso che io uscivo la mattina di casa, andavo a controllare le persone, a preparare operazioni, poi me ne tornavo tranquillamente a casa, mi facevo la mia vita che era quella di una normale donna di casa. Preparare il pranzo, curare le mie cose, vivere con mio marito, avere i miei momenti di gioia e di amore [2].


Fiorinda Petrella dice: «sembrerà una cosa paradossale, ma io violenta… boh credo che non lo son stata mai» Ricorda di essersi «presa anche a manate» con alcuni militanti del Pci e di aver partecipato agli scontri con la polizia nel corso di alcune manifestazioni: «ho un impermeabile ancora! L’ho sempre conservato, bucato da un candelotto. [Ma] non ho mai pensato all’uomo [...] che poteva morirci dall’altra parte, né io che potevo morire, cioè era una cosa che non sarebbe mai accaduta e non doveva accadere» [3]. Pia Sacchi racconta che «per fortuna» non le è mai accaduto di dover sparare. Ricorda anche che a seguito di uno scontro a fuoco fra forze dell’ordine e alcuni militanti dei Colp, ha dovuto provvedere alle prime cure di una sua compagna ferita gravemente.


A parte questo impatto con il colpo d’arma da fuoco sul corpo che non avevo mai visto, forse inizi a pensare che la vita e la morte hanno un senso. Quando hai proprio questo contatto fisico, quando poteva capitare a te davvero, allora è già diverso nel senso che ti immedesimi e probabilmente inizi anche ad aver paura. In effetti io l’ultimo periodo di latitanza avevo paura.

Non andavo in giro armata per esempio [4].


Barbara Graglia ricorda che al suo ingresso in Prima linea non si era posta il problema dell’omicidio politico. «Non rientrava nel mio ordine di problemi mentali e politici», dice, «nel senso che davo per scontato che non era necessario, non ci si sarebbe arrivati», e sottolinea come invece ritenesse giustificata la pratica del ferimento inteso come «segnale di avvertimento» [5].

Secondo Enrico Galmozzi, anche lui appartenente a Pl, accettare l’arma come strumento di lotta politica, significava sospendere ogni ragionamento «sul fatto che prima o poi» la si sarebbe potuta usare contro una persona. Questa eventualità veniva inoltre considerata una «tragica necessità», di cui tutti hanno portato e portano il peso [6].

La scelta iniziale non evitava continui e complessi confronti con l’etica, anche con quella particolare elaborazione che è l’etica del combattente», il problema di non coinvolgere innocenti, donne, bambini, persone che si trovano a passare per caso nel luogo di un’azione, è testimoniato dai racconti di molti e molte militanti. Susanna Ronconi ricorda i rinvii dell’azione contro il giudice Emilio Alessandrini, perché lo incrociavano mentre portava il figlio piccolo a scuola, e «nessun cane avrebbe mai ammazzato uno di fronte a suo figlio». La Ronconi mi ha spiegato come la separazione dell’aspetto politico-militare da qualsiasi considerazione sul valore della vita umana fosse stato possibile attraverso una potente autocensura:


il meccanismo di censura è fortissimo quando tu ti metti su quel terreno lì, che sono poi [...] meccanismi di difesa, in cui fai una contrazione strettissima fra etica e politica per cui se tu politicamente ti senti legittimata o credi di essere legittimata a fare una serie di cose, fai un cortocircuito con l’etica. Allora tutti quelli che hanno fatto le guerre e le guerre di liberazione, tu, se leggi le cose che hanno scritto o raccontato i partigiani, tu trovi quelli che per loro andare a uccidere era una barzelletta, ci sono anche quelli che la metton giù così. Ti trovi quelli, e sono la maggior parte, che ti parlano della fatica di questa cosa e però comunque del fatto che questa cosa era indiscutibile. Ed è un meccanismo che ti dura anche dopo, perché comunque tu poi per convivere con questa eredità continui a ricontestualizzarla in quel contesto lì cioè se io oggi, nella vita che faccio oggi dovessi pensare mai di fare qualcosa a una persona, mi sembrerebbe una follia e quindi tutto quello che ho fatto lo ricontestualizzo per forza continuamente. Ma è vero sulle persone ma è vero anche su altre cose. Io oggi non mi sognerei mai di fare una rapina ma non perché ho paura ma perché adesso non mi sognerei mai di giocarmi la vita per dei soldi. Nel contesto di allora, [...] ne ho fatte venti venticinque nella vita o anche di più, quindi rischiando tutte le volte ma di brutto, però per me era normale, ma era normale non per i soldi ma perché era costruire una cosa che mi interessava. Quindi il contesto ti crea degli spostamenti amplissimi. È anche difficile tenersi insieme su queste cose [7].


Nel marzo del 1979, durante un’azione contro le forze dell’ordine firmata da Prima linea a Torino, perse accidentalmente la vita uno studente. Susanna Ronconi, che fece parte del gruppo di fuoco, ricorda lo sgomento con cui lei e il suo compagno appresero la notizia della loro responsabilità in quella morte: «Sentiamo la radio e sentiamo di aver ammazzato questo ragazzo che non c’entrava nulla. E lì è stato… B. continuava a dire «Ma ti rendi conto che noi…» [8].

All’inizio della sua attività, Prima linea, come anche altre organizzazioni clandestine, si limitò ad azioni di propaganda armata dirette contro le cose e che al massimo prevedevano il ferimento di persone. Ma a partire dal ’78 l’omicidio politico fu una pratica sempre più utilizzata. La sua diffusione si collocò all’interno di una crescita della violenza, sia da parte dello Stato che delle formazioni armate, che fu percepita da molti come una spirale senza possibile via d’uscita. Per «senso di giustizia» e per desiderio di vendetta l’uccisione di persone fu di fatto legittimata da un numero crescente di militanti.

La scelta di aderire a un gruppo combattente obbligava a prendere confidenza con le armi. Era necessario imparare a caricarle, a smontarle, a pulirle, e soprattutto a usarle. Per i militanti che erano costretti alla clandestinità, poi, non si trattava di saper utilizzare una pistola solo in occasione delle azioni, come avveniva per lo più a coloro che non erano latitanti; era anche indispensabile averla sempre con sé quale strumento di difesa per garantirsi la fuga in caso di tentato arresto. L’addestramento era comunque per tutti necessario.

Susanna Ronconi ricorda di avere iniziato a esercitarsi al poligono di Padova: «divertente perché praticamente non c’erano donne», e quindi gli uomini l’avevano presa sotto tutela e le avevano insegnato i rudimenti. Poi faceva esercizio all’aperto, in montagna: sull’altopiano di Asiago, lungo le trincee scavate nel corso della prima guerra mondiale, oppure nel torinese, in una grotta. A Napoli Pl usava come poligono una delle grotte scavate in piena città. La Ronconi ricorda anche che, dal punto di vista dell’abilità all’uso delle armi, «tranne qualcuno, non eravamo mica un granché».

Ronconi ricorda gli addestramenti – iniziati subito dopo la fondazione di Prima linea – all’interno di alcune grotte delle montagne lombarde e piemontesi; la guidava il suo compagno, che era stato caporale istruttore nell’esercito.

L’esperienza di Pia Sacchi fu molto diversa. Entrata in Pl quando ormai la gran parte dei quadri politici e militari era già in carcere, non ebbe un addestramento, e provò a sparare una sola volta, durante un periodo di latitanza a Roma, guidata da un compagno che la ospitava:


Eravamo in un quartiere periferico e lui, appunto, così mi ha detto «ma hai mai sparato?», «no», «E cazzo come fai?!» Allora siamo andati... A Roma si usa andare nelle fungaie. C’era una zona verso San Giovanni, verso fuori di lì, verso sud dove ci sono le fungaie che vengono usate poi chiuse per fare il terreno poi riaperte eccetera. Quindi, perché è tutto bucato lì. E i compagni di Roma andavano lì a sparare. Andavi giù con le torce, il tuo bersaglio, ti mettevi lì e sparavi. E lì è l’unica volta che ho sparato.


Nelle testimonianze che ho avuto modo di ascoltare e di leggere, l’uso delle armi è uno degli elementi in cui la differenza di genere si coglie con più evidenza.

L’autobiografia di Valerio Morucci è piena di riferimenti alle armi. L’ex brigatista ne elenca i modelli e descrive i diversi tipi di munizioni; ricorda l’addestramento costante e i luoghi in cui si esercitava; le riviste di armi diventano quasi la sua unica lettura, e così impara a fabbricare silenziatori e ordigni; ricorda anche con orgoglio l’abilità che aveva raggiunto in questo genere di operazioni [9]. Più volte durante il racconto, Morucci paragona le pistole in suo possesso a quelle usate in qualche film, e descrive le sparatorie a cui ha assistito o alle quali ha partecipato ricorrendo a immagini cinematografiche [10].

Non tutti gli uomini hanno la stessa passione – verrebbe da dire ossessione – di Morucci, ma anche in altre testimonianze si può cogliere il fascino esercitato da mitra e pistole sul sesso maschile. Per Paolo Lapponi, ex militante delle Unità comuniste combattenti, le armi diventano un additivo alla propria virilità, da sfoggiare talvolta davanti alle donne per tentare di conquistarle[11]. Nelle sue Memorie, «Giorgio» parla dei diversi rapporti dei compagni con le armi: «C’è chi le adora e chi le usa e basta. C’è chi ne parla sempre e chi non ne parla mai. C’è chi è un grande esperto e chi le manovra a malapena, giusto in casi di emergenza» [12]. L’ex brigatista «pentito» Patrizio Peci ha raccontato il suo percorso di formazione attraverso i modelli di armi: prima una calibro 22; poi una 38 special che «pesava nella mano, faceva un boato enorme e spaccava i sassi [...]. Una sensazione di potenza e di sicurezza enorme. Con quella cosa in mano ero più forte di chiunque non ce l’avesse»; infine una Beretta 92S, «l’arma migliore e più potente che ci sia, un’arma da guerra, che hanno solo carabinieri e polizia».


Logico che a questa 92S tenevo moltissimo. La pulivo perfettamente, la trattavo con cura e in qualche modo le volevo bene. Bisogna stare in clandestinità per capire una cosa simile: hai tutto lo Stato – esercito, polizia, carabinieri – contro, e tu hai solo quell’oggetto prezioso e fortissimo dal quale dipenderà la tua vita... Era una buona amica, guai a chi la toccava, ne ero geloso più che di qualsiasi donna. Di notte la tenevo sul comodino, di giorno invece la tenevo qui, davanti, sulla pancia, non dietro come fanno molti, per cui potevo estrarla veramente in un decimo di secondo. Per fortuna non ho mai avuto occasione di sperimentarla in uno scontro a fuoco [13].

Enrico Fenzi racconta dell’esibizione di una pistola e dell’abilità nel maneggiarla dimostrata da Mario Moretti davanti a tre ragazzi che volevano entrare nelle Br, e descrive l’episodio come «il momento più emozionante dell’incontro». Ma Fenzi ricorda anche il peso dell’avere un’arma sempre con sé: è «una catena», «una palla di piombo al piede», inutile per difesa, perché ad estrarla per difendersi sarebbe comunque troppo tardi, e serve solo a sentirsi diversi in mezzo agli altri. È uno strumento che si impone alla propria volontà: «non si può andare dove si vuole, non si può parlare con chi si vuole, e occorre invece seguire vie proprie, percorsi obbligati, incontri prestabiliti. Un mondo parallelo, un’organizzazione del tempo e dello spazio parallela» [14].

Susanna Ronconi ha raccontato a Luisa Passerini e a Bianca Guidetti Serra di aver girato per sette anni con un’arma addosso: «per me avere dietro la pistola era un elemento difensivo e di protezione». Nella vita quotidiana la pistola era uno strumento di difesa, mentre il suo potenziale offensivo rappresentava l’eccezione.


Ho avuto parecchie esperienze di operatività diretta: nella stragrande maggioranza di azioni l’arma era un deterrente, un oggetto che si mostrava perché non succedesse nulla. Ho avuto anche esperienze dirette di ferimenti e anche di omicidi – due come partecipazione diretta. Queste sono molto diverse, e una è un’esperienza atroce... Non è molto descrivibile, anche perché ci pensi molto prima e molto poi, durante... sono cose che durano pochi minuti, la mia reazione è sempre stata quella di una sospensione totale di qualsiasi emotività. Prima l’emozione dominante è la paura, non solo la paura che vada male, è una paura più profonda, come se tu ti accorgessi che stai varcando una soglia. Questo è il momento prima; poi c’è una sospensione di qualsiasi cosa, ho una percezione di me come se neanche respirassi... come un’assenza di suoni, di rumori, di colori, una specie di vuoto... Ho letto nei libri molte descrizioni del «coraggio», in genere in versione maschile; non mi ci sono mai riconosciuta, il «coraggio» personalmente non so cos’è, non credo di saperlo: l’unica cosa che ho vissuto è la sospensione di ogni emozione al momento; l’uso dell’arma è più che altro l’immagine del lampo che fa l’arma quando spara, il resto dei pensieri e delle sensazioni viene dopo [15].


Durante uno dei nostri incontri Susanna mi ha raccontato delle critiche degli uomini, perché invece di tenere la pistola addosso, le donne a volte la mettevano nella borsetta. Un altro espediente per nascondere l’arma era quello di indossare abiti non aderenti al corpo, camicette larghe: «si girava il più delle volte vestite da incinte» Portare una pistola su di sé obbligava ad adattare il proprio abbigliamento [16].

L’arma, per gli uomini e per le donne, ha la stessa funzione sia quando è usata nel suo potenziale offensivo durante le operazioni, sia nella quotidianità per tutelare la propria condizione di clandestini. Per le donne, però, la funzione difensiva viene amplificata dai rischi tipici a cui è soggetto il sesso femminile: la pistola, infatti, non dà sicurezza solo nei confronti delle forze dell’ordine ma anche nei confronti dei maschi in generale. In determinati contesti, il rischio di subire delle molestie sessuali o, peggio, uno stupro induce a cercare protezione nell’arma che si possiede. Susanna Ronconi mi ha raccontato una sua avventura durante un viaggio notturno in treno; fu l’unica volta in cui stava per usare la pistola al di fuori di un’azione, perché temeva un’aggressione da parte dei cinque uomini che dividevano con lei lo stesso scompartimento; si trattava però di un equivoco, e non ci furono conseguenze [17]. Barbara Graglia ricorda bene la sensazione di sicurezza – «anche un diverso modo di camminare», dice – che le dava avere una pistola nella borsetta, quando attraversava di notte alcune zone di Torino [18]. Grazia Grena si trova in una situazione simile, in una zona malfamata di Milano, una sera mentre aspetta un compagno che ritarda; quando finalmente l’uomo arriva, lei lo rimprovera per averle fatto correre il rischio di un’aggressione, e quando lui replica «e, ma tanto eri armata», Grazia si rende conto di non aver nemmeno pensato di poter usare la pistola che nascondeva addosso.


Poi invece dopo man mano che poi ero clandestina dicevo, «be’, devo cercare di prendere un po’ di familiarità con questa cosa qui, perché ci ho un rapporto del cavolo», avevo proprio un rapporto abbastanza bruttino [...] poca familiarità [...] avevo razionalizzato molto sul ruolo che l’arma poteva avere quindi proprio anche in termini di difesa più che in termini di attacco, per cui ecco, riuscivo a portarmela abbastanza tranquillamente però non è che mi desse sicurezza, anzi poi figurati che nell’ultimo periodo la lasciavamo a casa addirittura tutti quanti perché sapevamo che ormai non era, non era più neanche quello, cioè poteva essere l’elemento che ti faceva andare giù [19].


La testimonianza di M. P., un’altra militante di Pl, è dello stesso tenore: «le armi le ho sempre odiate» racconta, e le ha sempre considerate «uno strumento necessario proprio all’ultima sponda» [20]. Barbara Balzarani descrive così le sue sensazioni durante l’azione di via Fani: «Unico elemento dinamico nell'irrealtà ferma di quei momenti, l’assordante fragore delle armi. Non mi abituerò mai all’estraneità del loro sgradevole timbro meccanico»[21] [22].

Nel marzo del ’77, l’ex brigatista Anna Laura Braghetti partecipa al saccheggio di due armerie a Roma; assieme a una compagna raccoglie da terra un fucile e alcuni caricatori, li infila in una borsa che nasconde su un argine poco distante: «poi dicemmo a qualcuno dov’era perché andasse a recuperarla. A noi non interessava». Fiorinda Petrella mi ha raccontato che per lei non era importante l’arma in sé quanto il fatto di mostrarla. Serviva, durante le azioni, da strumento di dissuasione nei confronti di chi tentasse una reazione. Il suo futuro marito, ex militante delle Unità comuniste combattenti, l’arma invece «se l’è vissuta più come l’arma, come forza» [23]. Secondo Fiorinda, la differenza tra uomini e donne c’era e c’è ancora.


Io credo che non c’è nessuna, almeno di quelle che io ho conosciuto, che avesse «oddio c’ho questa in tasca, mi sento...». No. Per tutte, almeno ripeto quelle con cui c’era poi questo confronto, era sempre un peso, «si va be’ ce l’abbiamo ma è giusto per...» [...]

Negli uomini [...] [l’atteggiamento era diverso]. C’era... la pulivano, cioè era un feticcio tra virgolette, da tenere con cura, da sapere usare [24].


Susanna Ronconi usa parole simili:


Noi [donne] in genere avevamo un tipo di ironia femminile molto forte verso quei compagni che invece avevano un rapporto con l’arma di feticismo – specie fra i compagni giovani questo c’era molto [25].


Anna Laura Braghetti ha scritto:


Tenevo la pistola sul comodino [...] forse la spolveravo persino. Per una qualche follia femminile, inoltre, cercai diverse volte di far sparire dal tavolo da pranzo e dalle seggiole i graffi lasciati dalle pistole. La guerra è una cosa da maschi e, quando le femmine ci si trovano dentro, in un modo o nell’altro sono fuori posto, e non riescono a condividerne davvero le usanze. Non avrei osato dire agli uomini con cui vivevo in via Montalcini: «Ma non potreste slacciarvi le fondine, così non distruggete tutte le sedie?», però lo pensavo. Era una sorta di piccola resistenza della normalità in una situazione che di normale non aveva niente. Era la voce della mia estraneità.


Anche la Braghetti ricorda i compagni che «credevano soprattutto nelle armi», che se ne fidavano e passavano il loro tempo a pulirle, smontarle e rimontarle, e conclude che proprio loro furono i primi a cedere quando hanno visto che la partita militare con lo Stato era chiusa e persa. Sono questi che hanno cercato

una via individuale di salvezza senza voltarsi a guardare chi lasciavano indietro, travolgendo le persone che avevano coinvolto nella lotta armata, i prestanome di appartamenti serviti per piccole azioni, per iniziative marginali, condannati poi a secoli di galera senza lasciar uscire dalla bocca un nome o un indirizzo, in cambio dello sconto di pena [26].

Nel maggio del 1980 un gruppo di Pl si introdusse nello studio romano dell’architetto Sergio Lenci per ucciderlo. L’operazione non andò come previsto e la vittima rimase in vita sebbene ferita molto gravemente. Passati alcuni anni, Lenci si recò nel carcere di Bergamo a visitare Giulia Borelli, l’unica donna che partecipò all’azione. Nei ricordi dell’architetto e nelle lettere che poi scrisse alla Borelli, emerge tutto lo stupore per quella presenza femminile nel commando:


[questa presenza] aveva reso l’aggressione ancora più allucinante. Una donna, anche se non la conosci e non l’hai mai vista, nel momento che ti manifesta un rifiuto così totale da volerti uccidere ti ferisce due volte rispetto all’uomo. In fondo la donna – sia essa madre, moglie, amante – per un uomo è sempre oggetto di dialogo, di scambio, di potenziale desiderio di integrazione. E anche quando, come normalmente avviene, non c’è alcun rapporto di questo tipo, rimane il rapporto ipotetico, potenziale che interferisce nel migliorare i reciproci comportamenti anche nel più effimero contatto, per quanto insignificante e casuale possa essere.

Una donna che ti voglia uccidere per una ragione personale conosciuta da entrambi può dispiacere, ma la ragione stessa è la storia del rapporto e quindi, entro certi limiti, giustifica, placa. Una sconosciuta che ti vuole uccidere non si sa perché e senza nemmeno rivolgerti la parola, nell’inconscio della vittima, per lo meno nel mio, offende l’uomo più di quanto non facciano gli altri aggressori maschi. Dai maschi te l’aspetti, in un certo senso, e sei pronto a introitare anche l’incomprensibile. A una donna sembra sempre possibile spiegare. La donna (forse nei miei desideri) è più umana [27].

La reazione di sorpresa per la padronanza con cui una donna si muove impugnando un’arma, non è vissuta solo dalle vittime. Ne fanno esperienza anche i compagni maschi. Nel giugno del 1977 le Brigate rosse decidono di ferire Remo Cacciafesta, allora preside della facoltà di Economia e commercio dell’università di Roma e iscritto alla Democrazia cristiana. Adriana Faranda ricorda il piccolo moto d’orgoglio che forse muoveva un commando composto quasi esclusivamente da donne: l’unico uomo svolgeva la mansione di autista. L’azione si rivela più complicata del previsto: le armi si inceppano, la vittima scappa, la Faranda insegue Cacciafesta all’interno di un portone, spara e lo ferisce; poi la fuga. Quando racconta ai compagni i particolari dell’azione, viene a sapere che il suo compagno, Valerio Morucci, si era appostato «clandestinamente» nei pressi dell’azione,

ma per nostra fortuna non ha avuto l’impudenza di farsi avanti per intervenire. Il mio atteggiamento ha colpito tutti, lo avverto da come ascoltano le mie parole, dal rispetto e dalla tenerezza con cui mi sento accolta. Uno commenta: molti compagni maschi avrebbero abbandonato. Se ancora qualcuno poteva avere una riserva su di me in quanto donna, oggi ha fugato ogni dubbio [28].

La freddezza, la prontezza nel reagire, la capacità di controllare le proprie emozioni di fronte agli imprevisti, l’efficienza e la determinazione a portare a termine l’incarico dimostrate dalla Faranda, stupiscono positivamente i suoi compagni. Le doti militari sono considerate normali per un uomo, mentre non sembrano essere contemplate fra le capacità femminili e una donna che si cimenta nella guerra deve dimostrare di possederle. Fino a prova contraria, le donne sono poco affidabili: per questo si devono controllare. Quel giorno nei pressi dell’azione, non c’era solo Morucci, ma anche il brigatista Bruno Seghetti. Non si tratta solo di un atteggiamento protettivo nei confronti delle proprie compagne: c’è soprattutto il dubbio sulla riuscita dell’azione.

Per comprendere quale significato deve essere attribuito alla rilevante presenza femminile nelle formazioni combattenti durante gli anni Settanta, può essere utile un confronto con la situazione nel periodo della Resistenza al nazifascismo. Fermo restando che si tratta di contesti storici molto diversi, ritengo che ci siano molti tratti in comune tra l’esperienza delle partigiane e quella delle militanti armate degli anni Settanta, primo fra tutti, nell’ottica di questa ricerca, l’affermazione della parità fra i sessi che, in entrambi i casi, passa anche attraverso la rivendicazione dell’uso delle armi e della partecipazione alle azioni.

Il ruolo delle donne nella Resistenza è stato al centro di molte discussioni. Mi limiterò ad alcune osservazioni sulla base di alcune interpretazioni storiografiche. In genere si parte da due affermazioni: la prima è che poche donne hanno partecipato alla resistenza armata, una scelta che si poneva particolarmente difficile, perché sovversiva dei tradizionali ruoli femminili; la seconda è che la gran parte delle partigiane affrontò la scelta di opporsi ai fascisti e ai nazisti, sulla spinta di ragioni affettive: «Ogni azione era un atto d’amore nei confronti del fidanzato, del fratello, di coloro che erano affettivamente importanti»[29][30] A. M. Bruzzone e R. Farina rifiutano quest’ultima interpretazione: sono stati gli uomini, anche quelli di sinistra, a voler considerare la trasgressione alla «vocazione domestica» manifestata dalle resistenti, come un atto d’amore verso un uomo, piuttosto che come una «autonoma scelta politica» [31]

Allo stesso modo, P. Gabrielli, riprendendo in questo anche le posizioni di D. Gagliani, respinge la «categoria del materno», applicata uniformemente a tutte le donne che parteciparono alla Resistenza. La «naturale» propensione ad assumere compiti di cura, assistenza e servizio, che la cultura patriarcale ha voluto far coincidere con la figura femminile, non è in grado di descrivere e tanto meno di spiegare «l’atto di ribellione e la tensione al cambiamento che sembrano sostanziare la partecipazione di molte protagoniste, come confermano molte interviste» [32]. L’esaltazione dell’«istinto materno» serve solo a depotenziare dei suoi contenuti politici il protagonismo manifestato dalle donne. Nell’esperienza della lotta di liberazione dal nazifascismo, come durante la lotta armata degli anni Settanta, ci furono donne che trasferirono, nello spazio pubblico, i comportamenti femminili più tradizionali; ma ce ne furono altre che, sfidando antichi pregiudizi, ruppero coi ruoli loro assegnati per cimentarsi direttamente nel combattimento.

Per quanto riguarda l’uso delle armi, P. Gabrielli sostiene che le partigiane erano più riluttanti perché in loro era prevalente «il desiderio di non nuocere», perché «erano assai più legate ai valori della vita» di quanto non lo siano state le «terroriste» italiane degli anni Settanta [33]. Si tratta di una conclusione discutibile sotto molti punti di vista.

Per cominciare, il confronto tra l’esperienza partigiana e quella della lotta armata negli anni Settanta dovrebbe prendere in considerazione solo le situazioni effettivamente paragonabili. Dunque, bisognerebbe accostare i vissuti delle militanti degli anni Settanta (di quelle che davvero le armi le usarono) a quelli delle donne dei Gruppi di azione patriottica: simile è il contesto nel quale si sono trovate a operare – le città –, analoga l’esperienza combattente – la guerriglia urbana.

Le altre molteplici forme di impegno a sostegno della lotta partigiana che si manifestarono durante la Resistenza (logistica, rifugio, assistenza), hanno un corrispettivo anche nell’esperienza della lotta armata più recente. D. Della Porta sottolinea che solo il 52% delle militanti dei gruppi clandestini hanno partecipato ad azioni armate [34]. L’altra metà delle donne ha svolto quegli identici ruoli di supporto, aiuto, copertura, informazione che hanno impegnato gran parte delle resistenti durante la Seconda guerra mondiale.

In secondo luogo, è molto discutibile attribuire alle donne impegnate nella Resistenza un senso più profondo del valore della vita che le ha portate a rifiutare, nella maggior parte dei casi, l’uso delle armi. In realtà ci sono molte testimonianze della volontà delle donne di imbracciare fucili e pistole, una volontà frustrata da una serie di pregiudizi culturali molto radicati. La presenza delle donne in una formazione militare, e perciò tipicamente maschile, si scontrava con dei tabù, recava imbarazzo e fu, per quanto possibile disincentivata. Ciò non toglie che questa tensione femminile esistesse.

C. Pavone sostiene che per le donne, nel periodo della Resistenza, «il secolare dilemma fra la rivendicazione dell’uguaglianza e l’affermazione della diversità sembrò riassumersi, in quella situazione di emergenza, nella scelta fra sparare e non sparare» [35].

M. Addis Saba ricorda come molte staffette sentirono il desiderio di fermarsi in montagna con le bande partigiane per combattere armi in pugno anche se di fatto poche furono le volontarie a cui ciò fu permesso. Partecipare alla lotta armata, alla difesa della patria comune, diventava il modo per conquistare una piena cittadinanza, equivalente a quella maschile, e per sottolineare la «partecipazione totale» alla scelta resistenziale. Tuttavia, se molte donne esprimono la volontà di usare le armi, molte di più hanno considerato la violenza delle armi un estremo ricorso, un’emergenza necessaria [36].

Carla Capponi racconta nelle sue memorie come riuscì a procurarsi l’arma che i compagni dei Gap le rifiutavano costantemente, perché «secondo loro, noi donne dovevamo limitarci a mascherare la loro presenza nei luoghi degli attacchi fingendo di essere le fidanzate». La Capponi ruba una pistola a un giovane repubblichino, approfittando della calca in un autobus; poi toma a casa e con «aria trionfale, poggiando la rivoltella sul tavolo, mostrai il mio primo bottino di guerra» [37].

Elsa Oliva, comandante di una Volante partigiana, dichiara esplicitamente la sua volontà di combattere «con le armi in mano». «Io volevo sparare, fare i combattimenti»*


Avevo visto che c’era qualche giovane che mi usava dei riguardi diversi, mi porgeva qualcosa, mi preveniva in qualche compito... Ho detto a Meloni e agli altri: «Non sono venuta qui per cercare un innamorato. Io sono qua per combattere e ci rimango solo se mi date un’arma e mi mettete nel quadro di quelli che devono fare la guardia e le azioni. In più farò l’infermiera. Se siete d’accordo resto, se no me ne vado» [38].


Non è l’unica testimonianza di questo tenore. Una delle differenze più evidenti tra Resistenza e lotta armata degli anni Settanta è il numero di donne che assunsero funzioni militari e ruoli di comando e di direzione politica: negli anni Settanta furono proporzionalmente, senza alcun dubbio, molte di più. A dividere quelle due fasi storiche ci sono quasi trent’anni durante i quali mutò la cultura, mutarono i costumi e, lungo un percorso articolato e complesso, le donne acquisirono maggiore autonomia. Cultura, lavoro al di fuori della famiglia e politica divennero, col tempo, dimensioni sempre più appartenenti all’esistenza femminile e ciò modificò profondamente la percezione che le donne ebbero di se stesse, del loro ruolo, delle loro capacità. Il movimento femminista degli anni Settanta ebbe, in questo senso, un effetto dirompente. La rottura coi modelli imposti della femminilità, la critica e l’abbandono delle funzioni riservate al proprio sesso dalla cultura patriarcale, ridefinì «il destino» di molte donne e le madri, quelle naturali e quelle simboliche, furono amate e riconosciute ma di quelle figure venne anche sottolineata la distanza dal proprio vissuto. Grazia Grena mi ha detto che, all’intemo dei Colp, nell’uso delle armi non c’era differenza fra uomini e donne «perché poi dopo tutto dipendeva molto dalle storie individuali» [39]. Ma le storie individuali delle resistenti e delle militanti dei gruppi armati degli anni Settanta sono state molto diverse: differenti le mentalità, le autocensure, i vincoli, le libertà, e fra queste anche quella di imbracciare un’arma. Pia Sacchi mi ha raccontato alcuni episodi relativi alla sua militanza nei Colp, successiva a quella in Prima linea. A Napoli, partecipò a un’azione su un treno della metropolitana. L’obiettivo era rubare le armi a due agenti della polizia ferroviaria. Pia ricorda le varie difficoltà, legate anche al fatto di agire in orario di punta, in un mezzo di trasporto affollato di operai che andavano al lavoro.


Noi entriamo, blocchiamo, diciamo «fermi tutti, noi siamo [...] dei comunisti combattenti, stiamo appropriandoci di queste armi, non ci interessa fare nessun cazzo di niente a questi qui. Adesso il treno sta fermo per due secondi poi si riprende la sua corsa, tranquilli»

[...] Io dovevo soltanto stare più zitta possibile perché ero consapevole del fatto che il mio modo di parlare – ho la erre moscia – poteva risultare ridicolo: è comunque un ambiente di uomini grandi, grossi [...] Era meglio che stessi zitta ma avessi un’aria determinata. [...] E l’impatto l’hanno fatto le persone che avevano l’atteggiamento determinato, forte ma non violento, senza crear paura: «state fermi, state tranquilli, non vi muovete perché qua è un casino. Vogliamo fare presto e basta» [40].

Pia non gestisce l’operazione: è mingherlina, la sua voce di donna con la erre moscia e l’accento varesino, in un vagone pieno di operai maschi e napoletani, potrebbe non incutere il timore sufficiente.


La Sacchi contribuì anche a organizzare una evasione dal carcere di Frosinone, senza però prendere parte all’azione: le mancava la necessaria esperienza militare. Di questo commando fece parte Sonia Benedetti, a cui Pia riconosce preparazione ed esperienza operativa: c’erano donne che possedevano una particolare competenza nell’uso delle armi, e Sonia era una di queste. Si legge di lei in una sentenza del tribunale di Napoli: «Personaggio di spicco dell’organizzazione, venuta a Napoli con funzioni direttive, specializzata nella esecuzione di rapine per autofinanziamento [...]. Si rileva la eccellente preparazione militare nel compimento di fatti di notevole rilievo, nonché spiccate capacità organizzative nella gestione dei mezzi economici» [41]. Patrizio Peci parla così di Nadia Mantovani:

Si dice, e questo mi colpiva molto, che avesse una mira eccezionale. Non l’ho mai vista sparare, né lei si vantava, ma una volta che si andò a finire nel discorso disse che fin da piccola aveva l’hobby di sparare, per cui era così brava che quando andava a caccia con suo padre lui le diceva: Prima sparo io, e se faccio padella spari tu [42].


Anche Susanna Ronconi, giunta a Torino, verrà immediatamente valorizzata, all’interno di Pl, per le sue capacità operative, acquisite nelle precedente militanza brigatista. Ha raccontato infatti: sul piano militare «all’interno delle Br [...] non ho subito il fatto di essere una donna nel senso che proprio perché era un’organizzazione così formale, c’era rispetto ai passaggi di crescita dei militanti, una sorta di neutralità» [43].

Susanna come S. R. e altre ancora parteciparono ai gruppi di fuoco, cioè a quegli organismi finalizzati esclusivamente all’attività operativa, militare. La loro diversità non è nell’uso delle armi durante le azioni, e neppure nei ruoli assegnati all’interno dei commando: essere designati per compiere un’irruzione, oppure fare l’autista che attende con la macchina pronta, o, ancora, fungere da «palo» che controlla la situazione all’esterno, toccò abbastanza indifferentemente agli uomini come alle donne, sebbene in alcune circostanze le militanti si videro costrette a rivendicare maggiori responsabilità, come ricorda la Ronconi.


Il mio ruolo lo ricordo più come incazzatura o rivendicazione se notavo delle discriminazioni nei ruoli ma questo perché anche era un problema mio nel senso che poi io, [...] in una certa fase dell’organizzazione, sono stata una delle dirigenti, no? [...] E non lavoravo solo per me, lavoravo anche per le altre nel senso che se vedevo delle ruolizzazioni eccessive in effetti mi incazzavo su questo [...] E a volte succedeva di incazzarsi perché il maschilismo c’era lì dentro come c’era in qualsiasi altro posto. A volte era un maschilismo protettivo del tipo [...] «vado prima io poi vieni tu», era protettivo anche in senso non malevolo, diciamo, e molte volte a noi non stava bene questo perché, sai, l’essere tutelate e protette poi vuol dire sempre... Per noi un terreno di parità era anche il terreno delle azioni quindi a volte c’era anche una contrattazione sul rischiare di più [...] e dentro la tua pratica tu misuri la parità o meno. Quindi può sembrare paradossale ma noi ci trovavamo anche a fare delle discussioni dicendo «no, questa volta l’impatto rischioso lo faccio io e mi spieghi perché non lo devo fare». Devo dire che poi dal punto di vista delle abilità, insomma, non c’erano grandi differenze in effetti, alla fin fine, fra quelle di noi che avevano maggiori capacità su questo [44].


Le diversità di genere si notano su altre cose. Alcune sono di tipo fisico: alle donne era più difficile, se non impossibile, poter utilizzare alcuni tipi di arma a causa della struttura del corpo femminile. Pia Sacchi ricorda che quando i Colp organizzarono l’evasione di due detenuti dal carcere di Frosinone, a lei fu riservato un ruolo logistico. Non c’era solo il problema della sua scarsa preparazione militare ma anche l’ostacolo rappresentato dall’«uso di armi pesanti» Racconta: «io non avrei mai potuto usare un bazooka contro una macchina della polizia. Mi veniva da ridere. Cadevo io, il bazooka e tutto, capito?» [45]. Mario Moretti ricorda che, durante l’azione di via Fani, Barbara Balzarani impugnava una mitraglietta Skorpion «perché è un’arma molto piccola. Un mitra normale pesa alcuni chili, è grande, è difficile per una donna occultarlo sotto il cappotto»[46].

Ma le diversità più importanti riguardano l’atteggiamento che in genere le donne hanno avuto nel rapporto con le armi. Fra le militanti dei gruppi clandestini il sentimento più diffuso fu quello di una estraneità che spesso rimase tale nel corso di tutta la militanza. Anche quando la reticenza o addirittura la ripugnanza al loro uso si trasformò in consuetudine obbligata, anche quando il possesso di una pistola entrò far parte dell’abbigliamento quotidiano, infilata in vita o riposta nella borsetta, le donne restarono sempre lontane da quella ambigua attrazione che spesso le armi esercitavano sugli uomini.

I giochi di guerra con le pistole giocattolo da bambini, il servizio militare, l’allenamento all’uso della violenza nei servizi d’ordine della sinistra extraparlamentare: sono tutte esperienze maschili che nutrono un immaginario virile e bellico. Le donne, escluse da queste iniziazioni, non coltivano l’abitudine all’uso delle armi né si nutrono della medesima mentalità guerresca. Usano le armi nei momenti che ritengono essere necessari ma le guardano con distanza, come degli oggetti e niente più, e l’ironia con cui le militanti dei gruppi armati ricordano il fascino esercitato dalle pistole sui loro compagni, è uno dei modi ricorrenti con cui si esprime la loro diversità.


Note [1] Prima linea è stata, dopo le Brigate rosse, la più grossa formazione armata di sinistra in Italia. Prese forma fra la fine del 1976 e l’inizio dell’anno successivo, per sciogliersi formalmente intorno alla metà del 1981 Qualche mese dopo, alcuni dei suoi militanti rimasti ancora in libertà, diedero vita ai Comunisti organizzati per la liberazione proletaria. [2] Intervista a Susanna Ronconi, rilasciata a P. Guerra, Bergamo, 27 novembre 1985, conservata presso l’Istituto di studi e ricerche Carlo Cattaneo di Bologna, pp. 63-64. D’ora in avanti così citata: S. R. (Guerra, 1985). Il nome dell’intervistata non è citato per esteso come richiestomi dal responsabile dell’archivio. Questo vale anche per le altre testimonianze visionate a Bologna. [3] Intervista a Fiorinda Petrella, rilasciata a D. Della Porta, Firenze, 6 novembre 1986, conservata presso l’Istituto di studi e ricerche Carlo Cattaneo di Bologna, p. 37. D’ora in avanti così citata: F. Petrelle (Della Porta, 1986). Il permesso di riportare per intero il nome e cognome mi è stato dato dall’intervistata. [4] Intervista a Pia Sacchi, rilasciata a N. Caldieri, Milano, 1 novembre 1996. D’ora in avanti così citata: P. Sacchi (Caldieri, 1996). [5] Testimonianze (a cura di P Guerra), «Rivista di storia contemporanea», a. XVII, fase. 2, aprile 1988. Si tratta di una sintesi delle testimonianze rilasciate da 9 donne ex militanti dei gruppi armati nel corso del seminario Identità femminile e violenza politicacoordinato da Luisa Passerini e da Bianca Guidetti Serra e tenutosi alle carceri Nuove e alla Facoltà di Magistero di Torino fra il 1986 e il 1987. Dell’intervista a Barbara Graglia, ho potuto consultare una copia completa della trascrizione che mi è stata fornita da Grazia Grena. A questa farò riferimento nelle citazioni che si troveranno così indicate: B. Graglia (Passerini – Guidetti Serra). Il brano citato si trova a p. 46. [6] L. Guicciardi, Il tempo del furore. Il fallimento della lotta armata raccontato dai protagonisti, Rusconi, Milano 1988, pp. 58-59. Il volume raccoglie alcune dichiarazioni rilasciate da molti militanti delle organizzazioni combattenti – per lo più di Pl – durante il processo svoltosi davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Milano fra l’ottobre del 1985 e il marzo dell’86. [7] Intervista a Susanna Ronconi, rilasciata a N. Caldieri, Castiglione Torinese (To), 30 novembre 1996. D’ora in avanti così citata: S. Ronconi (Caldieri, 1996). [8] S. R. (Guerra, 1985), pp. 64-65. [9] Per tutto questo, cfr. V. Morucci, Ritratto di un terrorista da giovane, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (Al) 1999, pp. 37-38, 75-77, 89, 206. [10] Ibidem, pp. 39, 50, 55, 206. [11] Cfr. Intervista a Paolo Lapponi, rilasciata a L. Manconi, in Storie di lotta armata, a cura di L. Catanzaro e L. Manconi, il Mulino, Bologna 1995, p. 196. [12] Giorgio, Memorie. Dalla clandestinità un terrorista non pentito si racconta, Savelli, Milano 1981, p. 106. [13]P. Peci, Io, l’infame, Mondadori, Milano 1983, pp. 61-63. [14] Cff. E. Fenzi, Armi e bagagli. Un diario dalle Brigate Rosse, Costa & Nolan, Genova 1987; le citazioni rispettivamente alle pp. 230-231 e 7-9. [15] Testimonianze (a cura di P. Guerra) cit., p. 282. La descrizione degli stati d’animo provati prima, durante e dopo un’azione è per molti aspetti simile a quella fatta da «Giorgio» che scrive: «Paura certo tanta, ma prima, nell’attesa. Ed era una paura non molto dissimile da quella che si sente prima di un esame importante, passeggiando nervosi nel corridoio della scuola. E, come quella, anche questa paura si scioglie d’incanto al momento di agire; o non si scioglie ma allora è il panico, la fuga. E poi, dopo, una grande stanchezza, un subitaneo svuotamento e rilassamento [...]. Ma non è divertente, sparare, questo no, non è esaltante, come qualcuno pensa e dice [...]. È solo, in qualche modo, logico, inevitabile, pulito. E razionale.» (Giorgio, Memorie cit., p. 99). [16] S. Ronconi (Caldieri, 1999). [17] Ibidem. [18] Grazia e altri, 11 luglio 1987, dattiloscritto, registrazione di un incontro fra Grazia Grena, Barbara Graglia, Luisa Passerini e Bianca Guidetti Serra nell’ambito del seminario Identità femminile e violenza politica.La copia della trascrizione da me consultata, fornitami dalla Grena stessa, è incompleta (si interrompe a p. 29) e contiene correzioni manoscritte di cui ho tenuto conto; il brano citato si trova a p. 29. [19] Ibidem, pp. 28-29. [20] Intervista a M. P., rilasciata a D. Della Porta, Roma, conservata presso l’Istituto di studi e ricerche Carlo Cattaneo di Bologna. I brani citati si trovano a p. 34. [21] B. Balzarani, Compagna luna, Feltrinelli, Milano 1998., p. 70. Il corsivo è nel testo. [22] A. L. Braghetti – P. Tavella, Il prigioniero, Mondadori, Milano 1998, p. 49. [23] Intervista a Fiorinda Petrella, rilasciata a N. Caldieri, Firenze, 29 luglio 1998. D’ora in poi così citata: F. Petrella (Caldieri, 1998). [24] Intervista a Fiorinda Petrella, rilasciata a N. Caldieri, Bologna, 16 novembre 1999. [25] S. Ronconi (Passerini – Guidetti Serra), p. 282. [26] Cfr. Braghetti, Il prigioniero, cit., le citazioni alle pp. 24 e 52. [27] S. Lenci, Colpo alla nuca, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 28, 129-130; in una lettera del novembre 1986, Lenci scrive a Giulia Borelli di ricordare il suo volto meglio di quello di tutti gli altri assalitori perché «nella vita mi sono trovato di fronte più sovente a uomini aggressivi che non a donne», quindi «la sua presenza nel gruppo era per me il fatto particolarmente incomprensibile all’interno dell’intero fatto incomprensibile» (ibidem, p. 151). [28] Cfr. A. Faranda – S. Mazzocchi, Nell’anno della tigre. Storia di Adriana Faranda, Baldini & Castoldi, Milano 1994, pp. 78-79,81. [29] Cfr. per esempio M. Addis Saba, Partigiane. Tutte le donne della Resistenza, Mursia, Milano 1998, p. 92. [30] A. T. Iaccheo, Donne armate. Resistenza e terrorismo: testimoni dalla storia, Mursia, Milano 1994, p. 84. [31] Cfr. A. M. Bruzzone – R. Farina, Introduzione, in La Resistenza taciuta, a cura di A. M. Bruzzone e R. Farina, La Pietra, Milano 1976, p. 11. [32] P. Gabrielli, Donne, guerra, politica: un convegno recente in Emilia Romagna, «Storia e problemi contemporanei», a. X, n. 20, 1997, p. 216. [33] Ibidem. [34] D. Della Porta, Specificità delle donne e violenza politica, «Rivista di Storia Contemporanea», a. XVIII, n. 1, 1989, p. 122. [35] C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 439-440. [36] Addis Saba, Partigiane, cit., pp. 92, 96. [37] C. Capponi, Con cuore di donna, il Saggiatore, Milano 2000, p. 125. [38] Intervista a Elsa Oliva, in La Resistenza taciuta cit., pp. 125, 130. [39] Intervista a Grazia Grena, rilasciata a N. Caldieri, Lodi, 27 novembre 1999. D’ora in avanti: G. Grena (Caldieri, 1999). [40] P. Sacchi (Caldieri, 1996). Nelle requisitoria dei Pubblici Ministeri durante il processo in cui vengono giudicati i responsabili di quella operazione si legge: «Rapina agli agenti Polfer: Quarto-Qualiano, 4 dicembre 1981. Imputati: Mutti Pietro, Frassinetti Luca, Comaglia Paolo, Borelli Giulia, Pianelli Walter, Sacchi Pia. Alle 17,20 del 4/12/81 l’appuntato Vaivano Donato e la guardia Papasso Felice, in forza alla Polfer di Villalitemo, a bordo di un treno della metropolitana, tra le stazioni di Quarto e Qualiano, vengono circondati da quattro uomini e due donne e vengono immobilizzati con manette e pezzi di corda; gli aggressori costringono il macchinista ad arrestare il convoglio dopo aver rapinato ai poliziotti due pistole cal. 9 parabellum, mod. 92 S, una mitraglietta M 12, i berretti dell’uniforme e documenti personali. Dileguatisi i rapinatori, viene inutilmente dato l’allarme. L’azione è rivendicata con un comunicato a firma «Comunisti organizzati per la liberazione proletaria» (Colp)» (Procura della Repubblica di Napoli P.M. Gerardo Arcese e Olindo Ferrone. Requisitoria del 31 maggio 1983 nel p.p. contro Adamo Antonio + 67, p. 132). [41] Procura della Repubblica di Napoli P.M. Gerardo Arcese e Olindo Ferrone. Requisitoria del 31 maggio 1983 nel p.p. contro Adamo Antonio + 67, p. 140. [42] Peci, Io, l’infame, cit., p. 61. [43] S. Ronconi (Passerini – Guidetti Serra), pp. 280-281. [44] S. Ronconi (Caldieri, 1996). [45] P. Sacchi (Caldieri, 1996). [46] M. Moretti – C. Mosca – R. Rossanda, Brigate Rosse. Una storia italiana, Anabasi, Milano 1994, p. 128.

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