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Le categorie di «terrorismo» e «antiterrorismo» dopo l’11 settembre

Dialogo di Alberto Pantaloni e Giorgio Del Vecchio con Laura Di Fabio



In questa intervista Alberto Pantaloni e Giorgio Del Vecchio ricostruiscono, assieme alla storica Laura di Fabio, le ripercussioni che la data epocale dell’11 settembre ha avuto sullo sviluppo delle categorie di «terrorismo» e «antiterrorismo».



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Se fissiamo l'evento dell'attacco alle Torri Gemelle di New York all'epoca in cui avvenne (11 settembre 2001), erano trascorsi praticamente 10 anni dall'uscita del famoso saggio di Francis Fukuyama sulla «fine della storia» (The End of History and the Last Man, 1992). Secondo il politologo statunitense, i conflitti che avevano caratterizzato e insanguinato il '900 erano finiti con la vittoria della democrazia liberale e capitalista e con la sconfitta del Blocco comunista; l'umanità si avviava quindi verso un futuro di pace e prosperità economica. Dieci anni dopo si verificò l'attacco alle Twin Towers e al Pentagono. In mezzo c'erano state tutta una serie di avvisaglie: non era la prima volta che gli Usa venivano colpiti da milizie di tradizione politico-culturale fondamentalista islamica, anche se non sul proprio territorio. Già nel 1996, Samuel P. Huntington, politologo ed ex Consigliere per la Difesa nazionale del Presidente Jimmy Carter, dà alle stampe il volume Lo scontro delle civiltà, parlando apertamente di declino dell'Occidente e, in questo, di declino americano messo in difficoltà dall'emergere della potenza cinese e dalla reazione dei movimenti islamici. Alla luce di ciò che avvenne quell'11 settembre di 20 anni fa, sembra proprio che ci si trovasse di fronte a un momento di svolta, a una di quelle cesure storiche che caratterizzano il percorso delle società umane.



Le tesi di Huntington hanno avuto delle ricadute molto forti nell'opinione pubblica, nei governi (non solo quello americano, ma anche quello europeo) e all'interno del dibattito teorico e storiografico. Ebbero moltissimi contestatori, fra i quali dobbiamo sicuramente ricordare Chomsky. Il dibattito fra gli storici e gli esperti del tema fu da subito molto acceso: la contrapposizione «noi/loro» di Huntington e il suo guardare alle identità e alle civiltà come una categoria storiografica post-ideologica, non spiegava una storia assai complessa, che non finiva con l'89, la caduta dell'Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda e delle ideologie. Per questo, più che studiare il 2001, io andrei ancora un po' più indietro e come storica mi occuperei moltissimo degli anni Novanta, sia in chiave di storia nazionale, ma anche inserendo l'Italia e l'Europa in un contesto transnazionale e veramente globale. Questo, infatti, è un periodo che, a mio avviso, deve essere ancora esplorato storiograficamente. Il 2001 e l'attentato alle Torri Gemelle è stato studiato soprattutto dalla storiografia anglosassone e americana (molto è uscito anche in Germania) e diverse pubblicazioni sono state prodotte anche da parte di giornalisti e politologi. In Italia, invece, solo adesso ci si comincia ad interrogare su l'episodio delle Torri gemelle come un evento di cesura periodizzante non soltanto a livello globale, ma anche a livello delle singole storie nazionali. Esistono infine studi molto significativi rispetto alla mediatizzazione dell'11 settembre, del terrorismo e quindi alla ricezione, da parte dell'opinione pubblica, di questo tipo di eventi. Si tratta certamente di un evento di cesura periodizzante, perché fu effettivamente un attacco senza precedenti, però al tempo stesso lo studio dell'aspetto mediatico e quindi la ricezione da parte dell'audience nazionale o internazionale inizia ad essere già materia di discussione fra gli storici. Questo aspetto non è da sottovalutare, perché legato alla performatività dell’azione stessa: se nessuno la vede, essa non ha quasi senso di esistere. Per cui credo che il rapporto tra l'atto e chi guarda, percepisce, subisce quell'atto e chi è chiamato a rispondere a quell'atto, sia centrale nell'analisi delle relazioni tra l'evento e la percezione dello stesso. La performatività di certe azioni armate e il loro diventare fenomeno mediatico non iniziano con l'11 settembre, tuttavia in passato i mezzi stampa riuscivano a raggiungere una cerchia molto più ristretta di persone. Nel settembre 2001, per la natura dell'evento e anche per l’affiancamento di Internet alle dirette televisive, fu invece naturale ed immediata la ricezione da parte di milioni di persone.


Quanto è problematica la parola terrorismo? Nei dibattiti variegati sulle sue definizioni, la cosa che salta all'occhio è la quantità e la diversità di modi in cui il terrorismo viene affrontato, la molteplicità di prospettive: ad esempio, partendo da chi lo effettua, di solito l’atto terroristico raramente viene definito come qualcosa che può essere eseguito, messo in atto anche dallo Stato, mentre, secondo molte definizioni, è qualcosa che viene "dal basso" e quindi da chi non detiene il potere politico. In relazione ai fini, anche l’impaurire o il colpire la popolazione civile come caratteristiche del terrorismo è una spiegazione molto scivolosa: infatti, bisognerebbe capire che cos'è la popolazione civile e come la si individua in una guerra totale. Proprio per questo ci sono studiosi che propongono di abbandonare in toto la parola terrorismo nelle scienze sociali e nelle scienze storiche, perché troppo caricata eticamente, moralmente, normativamente.


Cercare una definizione che possa essere adattabile a tutti i casi è un lavoro abbastanza complesso, proprio perché quella di «terrorismo» è una definizione fluida che tra l'altro può ingabbiare la ricerca e non permettere una narrazione che dia veramente conto di specifiche e di differenziazioni necessarie nello scrivere e studiare la storia. Quella di terrorismo è una categoria difficile da rendere condivisa. In Germania ci si è interrogati moltissimo su cosa fosse terrorismo e cosa no, anche attraverso una storia concettuale di lunga tradizione. A differenza di quella italiana, la storiografia tedesca ha dedicato moltissimi sforzi nel cercare di trovare una definizione condivisa. Per moltissimi studi il significato di quella parola cambia e si modifica in base ai periodi storici e ai contesti. Personalmente, credo che la definizione di “violenza politica armata” o di “violenza armata” possa essere sufficiente a rendere l’idea. Ciò detto, ancora non siamo approdati a una definizione condivisa, che vada bene per qualsiasi contesto, e forse alla fine non ce n'è neanche così bisogno. L'importante è cercare di spiegare i contesti: ad esempio, quando mi occupai di antiterrorismo, decisi di far parlare molto la polizia e dal modus operandi che avevano gli agenti di sicurezza e dell'antiterrorismo di trattare il fenomeno e di pubblicizzarlo e di diffondere le loro azioni ecc., io mi basai moltissimo su quella documentazione, ma al tempo stesso cercai di chiarire con delle contestualizzazioni molto puntuali il quadro storico di riferimento, perché altrimenti l'importanza della lingua in questi casi può fare la differenza, anche nelle diverse interpretazioni che si possono dare di quel fenomeno. C'è poi un uso politico della parola “terrorismo”. Il termine non è neutrale e viene piegato all'occorrenza. Anche questa sovrapposizione che in Italia si faceva negli anni '70 fra «estremismo» e «terrorismo» è pericolosissima, perché appunto un estremista può non essere un terrorista, mentre quasi sempre un terrorista può essere un estremista. Su questo, però, si giocavano gran parte dei consensi politici, facendo molto leva sulla paura e sul senso di emergenza che si respirava. Non sottovalutiamo il fatto che in un determinato periodo storico, di fronte a una violenza che possiamo chiamare «terrorismo» o «violenza» o come vogliamo, le persone hanno paura. Quindi, tutto ciò che riguarda la narrazione a mio avviso è molto, molto importante, perché anche e soprattutto il linguaggio utilizzato dà ci fa capire se quell'informazione è una semplice informazione giornalistica o è «propaganda» o «controrivoluzione» oppure riguarda determinati aspetti specifici in base ai contesti.

Io insisto molto sull'aspetto del discorso di costruzione del «nemico»: è ovvio che il nemico possa esserci, ma poi bisogna vedere come viene narrato, perché la narrazione non è soltanto immagine ma anche la spiegazione che si dà di quell'immagine. Per questo motivo l'11 settembre, anche se le immagini parlavano abbastanza da sole, la narrazione che raccontava quelle immagini è stata abbastanza monolitica e ha giustificato poi una serie di operazioni che hanno portato, fra l’altro, alla guerra in Iraq e in Afghanistan. Questa sovrapposizione fra terrorismo e guerra ha creato parecchia confusione, insomma, tra le persone.

Ad ogni modo, io non sono mai per eliminare una parola dal lessico. Il volume di Francesco Benigno, Terrore e terrorismo (Einaudi, 2018), può invece essere un buon esempio di come si possa riflettere su determinate categorie, visto che in Italia si è meno abituati a scrivere o a ragionare di categorie rispetto, per esempio, alla Germania. Questo volume, un saggio sulla violenza armata, è molto interessante perché parte dalla Rivoluzione francese. Lo storico si imbatte e riflette su quanto cambia di significato, quella categoria, in base alle epoche e a chi pronuncia quel termine preciso, a chi lo pubblicizza, a chi lo diffonde. Quindi, più che non adottare determinate categorie, forse è il caso, a mio avviso, di studiarle, cioè di fare uno sforzo metodologico non indifferente ad analizzare i concetti senza la pretesa di trovare una soluzione condivisa o una definizione che sia immutabile, ma provare a ragionare sull'utilizzo delle parole, soprattutto nella sfera pubblica. Perché, se è vero che la storia è nei libri, visto che speriamo qualcuno li leggerà, è importante anche come viene narrata e come viene recepita. Quelli legati della narrazione della storia e dell'attenzione alla lingua, sono aspetti di estrema importanza, secondo me, e che vanno curati con attenzione.


Infatti, proprio 7-8 anni dopo l'11 settembre sono nati i cosiddetti Critical terrorism studies proprio come tentativo di analizzare il terrorismo e il controterrorismo degli anni Duemila da una prospettiva critica. Quindi, terrorismo e controterrorismo: le analisi spesso si intrecciano, spesso vanno insieme.


Quello che sempre mi ha affascinato dello studio sul terrorismo e l'antiterrorismo è il legame dialettico di questi fenomeni. Non si può affrontare una storia dell'antiterrorismo senza guardare ai fenomeni di conflittualità sociale che sconfinano in tempi di pace. C'è da dire che con l'11 settembre e il Patriot Act del 2001 il discorso pubblico sull'antiterrorismo è stato naturalmente sdoganato, ma già in precedenza, pensiamo al Regno Unito e alla questione irlandese, il tema aveva assunto sempre maggiore importanza nel dibattito pubblico. Io mi sono occupata molto degli anni Settanta in Italia e in Germania, dove si iniziò a parlare di terrorismo internazionale in maniera fortissima dopo l'attentato alle Olimpiadi di Monaco del 1972, una cesura storica fondamentale per la storia tedesca e per quella israeliana. Quella dei metodi polizieschi per contrastare il cosiddetto «nemico interno», cioè la violenza armata, ma anche i disordini sociali o i movimenti rivoluzionari, è una storia di lungo periodo. Negli anni Settanta iniziò la cooperazione tra le forze di polizia dei e fra i diversi Paesi, nel combattere le minacce considerate comuni. Proprio in quegli anni l'antiterrorismo iniziò ad evolvere, a tal punto che governi, polizie e ministeri dell'interno iniziarono ad incontrarsi e a coordinarsi, a organizzare riunioni sia formali che meno ufficiali. L'aspetto che a volte è difficile da studiare criticamente (almeno lo è stato per me occupandomi di Germania e Italia), è quello più “oscuro” e pragmatico dell’antiterrorismo: le spie, gli infiltrati e tutto ciò che riguarda la volontà politica, ma anche delle forze dell'ordine, di infiltrare determinati gruppi, di riconoscerli e di dirigere alcune contestazioni che hanno attraversato la storia dei Paesi. C’è poi l’aspetto performativo, specularmente a quello terroristico, rappresentato dalla volontà di rassicurare i cittadini che tutto può essere combattuto e che quella determinata minaccia può essere sconfitta. Questa performatività non ha però solo un fine propagandistico, spesso di taglio militarista, fine appoggiato e cavalcato dai governi, ma c'è anche giustificatorio: l’efficienza operativa dimostra la necessità della lotta contro il terrorismo.


Questo discorso si lega alle ricadute della dialettica terrorismo-controterrorismo sul corpo sociale. Facciamo un esempio «pop» legato all'11 settembre e al Patriot Act. Nel maggio 2006 la casa editrice Marvel pubblicò una graphic novel intitolata Civil War. Il Presidente degli Stati Uniti, a seguito di una esplosione causata da uno scontro fra supercattivi e supereroi, decide che tutti i supereroi devono togliersi la maschera e registrarsi come agenti governativi con le loro vere identità. In caso contrario saranno perseguiti dal governo e messi sullo stesso piano dei supercattivi. Si creano due fazioni, una parte di supereroi è d'accordo con questa legge, e un'altra invece è contraria perché il provvedimento nega le libertà e i diritti civili. Ci sono diversi saggi di storici su questa che fu considerata la più brillante allegoria del Patriot Act, un esempio di come nella società americana quel provvedimento generò fortissimi scontri. D’altronde con quel decreto, il problema da esterno si tramutò anche in problema interno, di consenso, di rispetto delle libertà civili della popolazione. Questo non è un tema solo americano.



Il problema del rispetto delle libertà civili nell’assicurare un ordine di fronte a una minaccia di tipo terroristico è il problema, la grande questione su cui i governi, ma anche tutto ciò che riguarda l'amministrazione della sicurezza pubblica, sono chiamati a rispondere. Su questo, moltissimi studi hanno notato che negli anni i dispositivi di controllo e di sorveglianza si sono estesi non soltanto rispetto a minacce legate al terrorismo: lo vediamo anche rispetto al controllo dei migranti, rispetto a tutto ciò che risulta clandestino, che risulta fuori dai confini, al legame fra permessi di soggiorno e lavoro, lo vediamo nei luoghi di lavoro, nelle fabbriche. Il controllo e la sorveglianza non nascono con il terrorismo...


E non finiscono col terrorismo...


Già. Se ci si vuole slegare dal discorso antiterrorismo-terrorismo, il tema ad esempio della sorveglianza e del rispetto delle libertà civili è ancora molto caldo, come vediamo anche in questi giorni rispetto alla crisi sanitaria. Credo che quella tra cittadini e popolazione da una parte e rappresentanti dell'ordine e governanti dall’altra, sia una dialettica per forza di cose e non possa essere altrimenti. Tutto sta ad analizzare le possibili soluzioni per risolvere, appianare questa conflittualità che da sempre caratterizza i momenti di emergenza, che poi si normalizzano, ma che vediamo tuttavia restare.


Anche in Italia... Se esiste un filo conduttore, un parallelismo, un'analogia fra "terrorismi" di tipo diverso in epoche diverse, è proprio la messa in discussione di quello che le democrazie liberali percepiscono e narrano come proprio fondamento, cioè le libertà individuali. Il terrorismo mette in discussione la legittimità dell’intervento statale dal punto di vista della vita collettiva e individuale, cerca di evidenziarne le «fragilità» e le aporie. Al tempo stesso, le libertà civili sono un filo conduttore che caratterizza il rapporto fra terrorismo, controterrorismo, emergenza e stato di guerra. La «guerra al terrorismo» è una locuzione che ha usato recentemente George W. Bush subito dopo l’11 settembre, ma che si usava e si usa anche in riferimento agli anni '70 in Italia, come oggi si usa in riferimento alla pandemia. Si tratta di un momento in cui, sostanzialmente, le democrazie liberali devono sospendere tutta una serie di diritti e tutta una serie di equilibri come se si sospendesse lo stato di pace e si entrasse in uno stato di guerra. Questo tipo di narrazione, la performatività e il tentativo di legittimare pubblicamente un certo tipo di pratiche, forse sono di importanza centrale.


Sono d'accordo. L'aspetto della sorveglianza in momenti di emergenza è tema classico della storiografia ed è, però, un tema molto attuale, così come il far rispettare le libertà fondamentali in tempi di emergenza. Di soluzioni se ne trovano al momento, cercando di gestire praticamente e logisticamente un qualcosa che però ha a che fare anche con un piano molto più alto, più teorico, non sempre facile da gestire. Negli studi che ho fatto, mi sono resa conto che le polizie degli anni '70, anche per cause di tipo tecnologico, hanno avuto uno spaesamento iniziale e incontrato una serie di difficoltà nell'organizzare determinate risposte a un qualcosa che in quel momento non era neanche percepito come qualcosa di conosciuto. La ricostruzione di queste storie, che può essere svolta in tanti modi, può aiutarci, credo, a leggere anche ciò che sta avvenendo ora, per avere una consapevolezza maggiore anche dei propri diritti, di tutto ciò che riguarda anche la sfera più privata. Non dobbiamo guardare per forza alla lotta contro il terrorismo come unica soluzione, ma immagino che, per risolvere determinate questioni bisogna andare a risolvere o almeno ad affrontare fenomeni maggiori come le diseguaglianze sociali, la povertà, le differenze di classe, la redistribuzione della ricchezza, ecc. C'è una serie di aspetti che non vengono quasi mai accennati in queste ricostruzioni, inerenti al contesto sociale di riferimento. Non si può astrarre la lotta al terrorismo e il terrorismo dai contesti in cui nasce e viene applicata. Bisogna prendere in considerazione moltissimi altri aspetti che non abbiamo citato, ma l'ondata neoliberista negli ultimi 30 anni e l'aumento delle diseguaglianze sociali ha comportato una serie di problematicità che riscontriamo anche poi nella nascita di conflitti e di situazioni emergenziali.



Immagine: Juan Carlos Eguillor, Collage



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Laura Di Fabio, storica, si è occupata di storia del terrorismo e dell'antiterrorismo in Italia e in Germania negli anni Settanta del Novecento. Su questi temi ha pubblicato un libro, Due democrazie, una sorveglianza comune. Italia e Repubblica federale Tedesca nella lotta al terrorismo interno e internazionale (1967-1986), Mondadori-Le Monnier, 2018. Esperta di storia italo-tedesca, attualmente lavora come bibliotecaria nella Fondazione Bruno Kessler di Trento.


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