top of page

La riqualificazione ambientale delle città e la rigenerazione dei fondi d’investimento





In questo articolo – pubblicato in contemporanea con «Malanova» – Alberto Ziparo espone le profonde contraddizioni già ampiamente presenti nel concetto di area metropolitana, che le prossime operazioni finanziarie del Pnrr non potranno che ampliare. Il programma di governo, come viene spiegato, ha infatti a che fare con la resilienza degli investimenti finanziari più che dei territori. I vecchi schemi della città, esteticamente accattivante per pochi danarosi e assolutamente insostenibile per il resto della società, sembra essere stato riportato in vita direttamente dalla belle époque.


* * *


È senza dubbio positivo che il Governo spinga per approvare – sia pure con dotazione non rilevantissima di risorse rispetto al fabbisogno totale – il Programma nazionale di rigenerazione urbana, sancendo ancora una volta come le nostra città debbano (almeno) evitare di consumare ulteriore suolo per crescita urbana, che sarebbe ormai antistorico, e che vada perseguita «l’urbanistica delle r»: riqualificazione, riuso, recupero, restauro. Tuttavia il programma di rigenerazione in questione rischia di accentuare, anziché mitigare, le contraddizioni che segnano da tempo le politiche urbanistiche delle nostre città, favorendone ulteriori sfondamenti nella governance da parte della speculazione finanziaria; con esiti sociali ed ecologici esattamente opposti a quelli di «riconversione» dichiarati nell’apparato retorico del piano stesso; oltre che nelle dichiarazioni governative. I progetti contenuti nel dossier Rigenerazione Urbana, infatti, risentono quasi sempre di contraddizioni e problematicità già presenti in molta programmazione istituzionale e governativa, da cui scaturiscono e discendono; e in linea con le criticità contenute in tutta l’armatura del «piano grande e miracoloso» all’ordine del giorno: quel Pnrr che dovrebbe rilanciare «meravigliosamente» economia e ambiente nazionali. Già il programma Pinqua – di cui la versione attuale del piano (2,8 miliardi di euro per 159 progetti, mentre altri 400 circa restano in attesa di fondi) di rigenerazione costituisce per molti versi l’aggiornamento progettuale e il completamento di spesa – era caratterizzato da forti tendenze a una «programmazione troppo centralizzata anche a livelli diversi dell’amministrazione». I relativi progetti, infatti, raramente erano esito sostanziale di una pianificazione urbanistica ecosostenibile e partecipata, sempre invocata (specie nel sempre più frequente materializzarsi dei rischi da cementificazione diffusa in disastri e conseguenti permanenti dissesti dei contesti urbanizzati) ma quasi mai realmente perseguita. Molti dei progetti contenuti nel Pinqua erano invece esito della «concertazione tra poteri forti» che ha marcato pesantemente le politiche urbanistiche e territoriali nel recente passato e che spesso si traduceva in maggiore o minore permeabilità dell’amministrazione ai diversi livelli rispetto ai soggetti dominanti delle relative governance, in primis gli interessi finanziari, rappresentati dai relativi fondi. La logica, centralizzatrice e «developed Oriented», della Programmazione operativa, comunitaria e nazionale, come quella del Pnrr, fa il resto. Non a caso il Ministero in questione (nel frattempo da Mit diventato Mims, infrastrutture e mobilità sostenibile) dichiara che la città da «prendere a modello» per i programmi di rigenerazione è Milano: laddove le politiche urbanistiche sono «fortemente condizionate» – per non dire direttamente determinate – dai fondi di investimento finanziari, dichiarati «irrinunciabili» non solo dagli stessi amministratori; ma anche da autorevoli urbanisti, pure sinceramente progressisti, come Sandro Balducci. La rigenerazione milanese è infatti mirata soprattutto ai soggetti che Guido Martinotti definiva Mbp (Metro business people), cioè quella ristrettissima fascia di persone appartenenti all’alta borghesia internazionale, professionale, commerciale, finanziaria, ludico-mediatica, fino alle élite politico-istituzionali che si muovono da agiatissimi globetrotter tra le «Città mondiali». Laddove la Milano «modello» è una città invece preclusa a vecchi e nuovi abitanti che subiscono gli ingombri da sottrazione degli spazi e da realizzazione di enormi volumi edificati, da guardare solo da lontano. A meno di non avere redditi da appartenenza alle soggettività citate; ovvero da essere assunti come lavoratori (spesso precari) negli esercizi commerciali, tendenzialmente per consumatori «esclusivamente» dotati, realizzati nelle aree «rigenerate» (vedi CityLife o Santa Giulia), o come «vigilantes» degli enormi volumi (semivuoti, anche se serviti da agenzie internazionali di marketing che devono piazzarne gli spazi nel mercato mondiale dei Mbp) ivi edificati. L’estetica di questi brani urbani è quella della Benjaminiana «città in vendita», da marketing. Il Greenwashing (altro che riconversione ecologica) rende strumentali verde e apparati vegetali rispetto a simili destinazioni d’uso, con bizzarrie ambientali che diventano architetture «di successo» («Se Dio avesse voluto i Boschi verticali avrebbe fatto le mucche coi ramponi» – ha commentato un comico assai noto). Certo non tutte le operazioni di rigenerazione presentano i caratteri morfologici, dimensionali e antisociali delle recenti citate realizzazioni milanesi, ma molte di esse sono marcate dall’«urbanistica dei fondi d’investimento» già presente nella pianificazione concertata degli ultimi periodi (vedi anche le ristrutturazione per vendita ai privati di non pochi palazzi storici fiorentini); sovente sottoposta a forti critiche anche per esulare troppo spesso da qualsivoglia risposta ai problemi di degrado ecologico della città. A fronte dei connotati di molta della rigenerazione citata, lo stesso Piano nazionale di ripresa e resilienza non presenta alcun incentivo per nuove politiche abitative. Per l’esattezza non prevede neppure un centesimo per il recupero dell’edilizia popolare (centinaia di migliaia di alloggi inagibili per perdita di abitabilità da degradi o dissesti) né promuove alcuna operazione di riuso di quel quarto di patrimonio abitativo nazionale (circa 7,5 mln di alloggi ) vuoto o inutilizzato. Si seguita quindi ad attendere che l’ulteriore deterioramento renda tale enorme bene potenzialmente collettivo svendibile – quasi a prezzi di regalo – alla grande proprietà immobiliare e finanziaria. Un processo già in atto da lustri. I programmi di riqualificazione urbanistica e socio-ambientale avrebbero senso se scaturenti da una reale svolta rispetto alle politiche del recente passato, con una pianificazione socialmente innovativa e mirata concretamente anche alla ricostituzione degli ecosistemi urbani e territoriali, che oggi, specie a scala comunale, si intravede solo in un numero limitatissimo di piccole realtà; quasi sempre grazie all’azione di abitanti e attori locali sensibili alla qualità dei luoghi. E come tra l’altro prescriverebbero di operare ormai molti piani territoriali paesaggistici, regionali e sub regionali, che dettano indirizzi di recupero ecologico anche a scala locale. Certo, anche tra i 159 progetti compresi nel programma in questione, sono comprese alcune operazioni virtuose (per esempio il recupero lungamente atteso dagli abitanti di Messina di alcuni vecchi quartieri «minimi» storicamente degradati). Ma tali opzioni costituiscono eccezioni in un’operazione che, per la gran parte, ripropone molte delle dinamiche che hanno alimentato – anziché risolvere – i problemi sociali, urbanistici e ambientali che oggi gravano sulle nostre città.



Immagine: Thomas Berra


* * *


Alberto Ziparo, ingegnere e urbanista, insegna Pianificazione ambientale e Pianificazione e valutazione delle infrastrutture nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. Ha scritto numerosi articoli e saggi sui temi della pianificazione eco-paesaggistica del territorio, sulle politiche infrastrutturali e sull'impatto delle grandi opere.



Commentaires


bottom of page