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La resa dei conti



Immagine: Thomas Berra
Immagine: Thomas Berra

Nell'articolo di oggi, Alberto Burgio sviluppa i ragionamenti già espressi nel suo ultimo articolo «Salute al duce!». La reazione alle conquiste delle lotte operaie e del movimento operaio che si è sostanziata negli ultimi trenta/quaranta anni, arriva a compimento oggi con una radicalizzazione delle nuove logiche di dominio che si può comprendere come processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, ci dice l'autore. L'avanzata di Alternative für Deutschland in Germania e le riforme che sta portando avanti il governo Meloni sono, in tal senso, paradigmatiche.


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Approfitto dell’ospitalità di Machina per tornare sui temi trattati nell’intervento precedente e provare a svilupparli.

Chiarisco subito il punto: sono convinto che oggi in Italia (come in larga parte dell’Europa e dell’Occidente) sia in atto un processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, e che in questo processo giunga a compimento una fase (ultra quarantennale) di reazione organica alle conquiste che il movimento operaio e i movimenti anticoloniali avevano ottenuto nei «Trenta gloriosi» (sino alla metà degli anni Settanta).

 

Sul piano economico la reazione alle conquiste del movimento operaio e alle lotte anticoloniali nel trentennio post-bellico (conquiste salariali e politiche; in termini di diritti, indipendenza e influenza politica) si è basata (1) sulla mondializzazione del sistema di accumulazione, che ha disarmato il lavoro salariato e (2) sull’egemonia del capitale finanziario, che ha sradicato la sovranità economica degli Stati nazionali.

Sul piano geopolitico questa reazione ha tratto vantaggio dall’implosione del bipolarismo est-ovest sancito a Yalta, implosione che ha dato il via a una serie ininterrotta di guerre (dall’Iraq alla Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia, dalla Siria all’Ucraina) per mezzo delle quali si è venuto definendo un nuovo (alquanto precario) rapporto di forze.

Sul piano politico-istituzionale, nei paesi occidentali, la reazione si è avvalsa (1) della distruzione dei partiti di massa nati nel secolo scorso sullo sfondo del conflitto capitale-lavoro e (2) del progressivo svuotamento della rappresentanza democratica (nel caso italiano, la Costituzione è stata ampiamente sovvertita dalle riforme maggioritarie e dalle modifiche dei regolamenti parlamentari che hanno consolidato la subordinazione del Parlamento all’esecutivo).

Sul piano sociale, essa ha cavalcato la paura (mista a rancore) generata dai flussi migratori e dal venir meno della rappresentanza del lavoro subordinato, i cui presidi giuridici sono stati indeboliti e via via smantellati proprio mentre il lavoro veniva precarizzato e duramente colpito nei salari e nei diritti.

Sul piano culturale, infine, questa reazione ha messo a valore il disorientamento di masse in precedenza dirette dai partiti e dalle organizzazioni sindacali nel quadro della lettura classica del conflitto sociale e di lavoro. Anche a «sinistra» si è celebrata come una Liberazione la cosiddetta «morte delle ideologie», un mito ideologico che ha sancito il trionfo del pensiero unico thatcheriano. E anche su questo terreno l’implosione dell’Unione Sovietica ha svolto un ruolo importante considerato che nell’immaginario collettivo, nonostante le gravi colpe della sua dirigenza, l’Urss aveva rappresentato la possibilità di una forma sociale diversa – oltre ad aver costretto i paesi capitalistici a «civilizzarsi» (per riprendere Eric John Hobsbawm) allo scopo di evitare che il comunismo divenisse la Terra Promessa per le masse lavoratrici e le classi medie in Occidente.

Tutto questo è ben noto: in fondo è stato il paesaggio in cui è trascorsa la nostra vita negli ultimi 30-40 anni. Ma oggi mi pare emerga un aspetto che non avevamo previsto perché pensavamo che in Europa e negli Stati Uniti, dopo la grande paura degli anni Sessanta-Settanta, l’obiettivo delle classi dirigenti fosse ristabilire e proteggere le condizioni della gestione capitalistica, fatto salvo il quadro democratico.

 

La tesi secondo la quale proposito (utopico) delle classi dirigenti fosse sterilizzare la democrazia – non già revocarla, ma soltanto proteggerla dal conflitto sociale e politico rendendo la conflittualità compatibile e innocua – sarebbe corretta solo nella consapevolezza (non sempre data) che il termine «democrazia» copre uno spettro molto ampio di condizioni, che vanno dalla concreta sovranità dei corpi sociali (mai realizzatasi storicamente) al puro e semplice formalismo istituzionale che, nel simulare la sovranità popolare, maschera il comando autoritario delle élite.

Di fatto, a mio parere, in questi trent’anni la democrazia è venuta progressivamente erodendosi, sino a ridursi, da ultimo, a un simulacro. Oggi, al giro di boa di questa vicenda, siamo finalmente a una resa dei conti. Mi pare che il capitalismo abbia bisogno di controllo e comando senza mediazioni né compromessi: un po’ come cento anni fa, dopo la grande paura della rivoluzione che nei primi anni Venti del ’900 parve dilagare in tutta Europa. Ha bisogno di comando e controllo perché il fenomeno migratorio dal Sud tende a travolgere presupposti e vincoli della cittadinanza e della rappresentanza democratica, e anche perché le dinamiche geopolitiche spingono verso nuovi equilibri di potere globale (e di accesso alle materie prime) a vantaggio di potenze diverse da quelle che hanno sin qui guidato l’economia-mondo capitalistica. In questo quadro è in corso, in molti paesi tra cui l’Italia, una nuova fase di radicalizzazione delle logiche di dominio che può appunto comprendersi come un processo di neo-fascistizzazione.

 

Si può sostenere che il fascismo sia in essenza l’imposizione e la tutela militare delle gerarchie sociali e internazionali di contro alla dinamica di graduale eguagliamento (di inclusione universalistica) propria della modernità. Se si accetta questa definizione, sono molti gli indizi di un processo di neo-fascistizzazione in atto in molti paesi occidentali e in particolare nei paesi che, come l’Italia e la Germania, nel secondo ’900 hanno conosciuto conflitti sociali e politici radicali, che mettevano all’ordine del giorno il tema della transizione.

In Germania dal 1989 la destra radicale è in continua crescita. Nelle elezioni regionali del prossimo autunno Alternative für Deutschland (un partito di franca ispirazione neo-nazista) potrebbe conquistare il governo di Länder importanti come il Brandeburgo, la Turingia e la Sassonia. Finalmente nel paese, ancora scosso dal caso Aiwanger (la scoperta dei trascorsi antisemiti e neonazisti dell’attuale vicepresidente e ministro dell’Economia della Baviera), ci si domanda come scongiurare questo rischio con strumenti giuridici, ma la vera questione è come arrestare una tendenza all’aumento del seguito elettorale che a questo punto rende realistico persino l’incubo della conquista del governo federale da parte della destra radicale.

Proprio in queste settimane è all’ordine del giorno una questione che coinvolge la magistratura costituzionale tedesca. Metà della Corte costituzionale in Germania è di nomina parlamentare e se AfD conquistasse un terzo dei seggi (cosa tutt’altro che inverosimile) potrebbe agevolmente boicottare la scelta dei nuovi giudici o imporre una propria rappresentanza in seno alla Corte. Il che – come mostrano recenti accadimenti negli Stati Uniti, in Polonia e Ungheria – avrebbe ricadute tragiche sulle norme che in teoria dovrebbero prevenire il rischio di un ritorno a tempi bui.  

Anche in Italia – dove la presidente del Consiglio e il presidente del Senato (seconda carica dello Stato) si guardano bene dal prendere seriamente le distanze dai propri trascorsi neofascisti – si moltiplicano i segnali di una ferma determinazione a manomettere l’assetto costituzionale della Repubblica sfruttando un quadro politico propizio alla regressione autoritaria.

La «riforma» della giustizia messa in cantiere dal ministro Nordio punta a introdurre la separazione delle carriere dei magistrati: una misura da sempre invocata dalla destra che, coi tempi che corrono, minaccia seriamente di porre la magistratura requirente sotto controllo governativo. L’«autonomia differenziata» voluta dalla Lega sarebbe (temo sarà) lo strumento per conseguire finalmente lo scopo originario del partito di Salvini, Bossi e Calderoli: la secessione dei ricchi e la scissione di fatto tra il Nord e il Sud del paese. L’obbrobrio del premierato architettato da Meloni e Tajani (non si dimentichi che il disegno «riformatore» è stato messo a punto dalla ex-presidente forzista del Senato) porrebbe lo scettro nelle mani di un Capo del Governo eletto direttamente da un «popolo» disinformato e circuito, senza che Parlamento e Presidenza della Repubblica possano interferire in difesa di principi costituzionali per ciò stesso destinati a essere travolti.

Ma la tendenza è globale, ha riguardato da ultimo anche Israele, l’Argentina, ovviamente l’Ungheria e la Turchia. Quanto agli Stati Uniti, basti considerare che Trump ha già avvisato che, ove fosse rieletto, non impiegherebbe l’esercito soltanto lungo il confine meridionale dello Stato, ma anche nelle metropoli più problematiche come New York e Los Angeles, a tutela dell’ordine pubblico. Andando al di là di quanto immaginato da Philip Roth nel suo visionario Plot against America, in un recentissimo comizio nel New Hamsphire Trump ha promesso di «distruggere i comunisti, i marxisti e i criminali di sinistra, insetti che infestano il nostro paese». Testuale: e non è complicato individuare la fonte della sua retorica.

 

Tutto questo stava sullo sfondo dell’articolo sui tempi lunghi dei processi politici. Sono queste le ragioni per cui la recente sentenza delle sezioni riunite della Cassazione sul saluto fascista mi è parsa indizio di una situazione allarmante, prima ancora che una decisione sciagurata e irresponsabile. Aggiungo due note conclusive.

In quell’articolo ho scritto che, se si vogliono immaginare le conseguenze di un ritorno del fascismo, si deve guardare al progetto nazista di Nuovo Ordine Europeo. Ovviamente non intendevo che si ripeterebbe oggi quanto accaduto in Germania tra il 1933 e il ’45, ma che la logica sarebbe quella. Appunto: gerarchia ferrea (dei popoli – delle nazioni e delle «razze» – e delle classi sociali) e militarizzazione del comando politico, cioè ricorso alla coercizione militare come strumento principe per la difesa dell’«ordine».

Infine: una decina di anni fa, sulle colonne de «il Manifesto», tentai senza fortuna di aprire una discussione su queste tendenze – allora incipienti – parlando di «morte della politica» nel nostro paese. A indurmi a quella posizione era stata la fulminea ascesa di Matteo Renzi, prima eletto segretario del Pd (il che metteva nero su bianco il senso dell’operazione prodiana di sussunzione della sinistra), poi arrivato addirittura al governo del paese. Si trattava di una vicenda talmente enorme – tragica e grottesca – che mi parve urgente una riflessione sulla cesura che rappresentava.

Dicendo «morte della politica» alludevo all’esaurimento del conflitto politico fondamentale in Italia. Era ormai evidente che, dopo un secolo, il tema della trasformazione fosse stato definitivamente derubricato. L’idea dell’alternativa di società, che aveva motivato la nascita della sinistra socialista e la sua storia politica, era scomparsa dal quadro di riferimento di politicanti interessati esclusivamente alla gestione del potere. La politica era diventata anche in Italia pura e semplice amministrazione. Ma il ragionamento non suscitò interesse, e in effetti, ripensata oggi, quella tesi aveva un limite evidente: un limite, però, che, se impone di integrarla, non mi pare la infici.

La politica era (ed è) effettivamente morta per noi, nel senso che – per le ragioni dette in precedenza – oggi non c’è spazio in Italia (in Occidente) per una concreta battaglia per l’alternativa di società. Ma non è certo morta in sé, visto che – scomparso ogni argine, accuratamente smantellato ogni punto di resistenza – negli ultimi decenni la destra ha lavorato, ha conquistato consenso sociale e spazi istituzionali, e ha modificato gli equilibri e i rapporti di forza, portando a compimento un processo che ancora dieci anni fa era largamente incompiuto.

 

In tutto questo, un fatto resta a mio giudizio indiscutibile e al tempo stesso misterioso. Non vi è stata nessuna resistenza. Forse nessuna intelligenza di quanto accadeva; forse nessuna intenzione di contrastarlo; forse persino la volontà di promuoverlo.

Non solo si è provveduto, dalla metà degli anni Ottanta, ad accuratamente smantellare tutti i presidi, gli strumenti, i luoghi di radicamento e orientamento, le sedi di accumulazione delle forze. Ci si è anche accaniti nel criticare, delegittimare, ripudiare le proprie stesse tradizioni, le proprie idee ed esperienze di lotta anticapitalistica. E a contrastarle attivamente, ove persistessero altrove, combattendole senza esclusione di colpi.

A ripensarci oggi a mente fredda si è trattato – credo sia il caso di cominciare a dirselo – di un’operazione talmente capillare da indurre più di un sospetto. E da autorizzare persino qualche temeraria ipotesi dietrologica.


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Alberto Burgio storico della filosofia e condirettore della collana «Labirinti» di DeriveApprodi, ha dedicato diversi studi al pensiero politico, con particolare riferimento al marxismo. È autore di volumi su Marx (Modernità del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del socialismo, 1999; Il sogno di una cosa. Per Marx, 2018), Gramsci (Gramsci storico. una lettura dei «Quaderni del carcere», 2003;  Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, 2008; Gramsci. Il sistema in movimento, 2014), Labriola (Un marxismo «alquanto aristocratico», 2023). Membro del Comitato scientifico dell’Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Labriola, ha curato l’edizione critica del saggio In memoria del Manifesto dei Comunisti (2021) e (in collaborazione) quella di Discorrendo di socialismo e di filosofia (in corso di pubblicazione). Per Machina cura, con Marina Lalatta Costerbosa, la sezione «spigoli».

 

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