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La raffigurazione propagandistica del contadino nella Rivoluzione francese


John Kenneth Galbraith in Storia della economia. Il passato come presente (Rizzoli, Milano, 1988) ricorda che i cosiddetti Fisiocratici, cioè i sostenitori del primato economico della natura, sono stati così definiti piuttosto impropriamente.


«Essi si definivano Les Économistes: un’etichetta mirabilmente moderna, se si pensa che gli economisti non furono universalmente chiamati con questo nome fino a dopo Alfred Marshall, verso la fine del XIX secolo. Adam Smith che nel 1765 visitò Parigi, Versailles e i principali “progenitori” della scuola, si riferisce alle loro idee come al Sistema agricolo».


I due esponenti di spicco della scuola erano François Quesnay (1694-1774) medico personale di Madame de Pompadour, che cominciò a interessarsi di economia all’età di sessantadue anni, e Anne-Robert-Jacques Turgot (1727-1781) figlio in un ricco commerciante, e ministro delle Finanze di Luigi XVI dal 1774, che tuttavia restò in carica per soli due anni, sostituito, dopo una pessima annata di raccolti, da Jacques Necker. Terzo importante esponente della scuola: Pierre-Samuel du Pont de Nemours (1739-1817) che raccolse dei saggi di Quesnay sotto il titolo La Physiocratie e, emigrato in America nel 1800, fondò un vero e proprio impero industriale influenzando non poco il pensiero economico americano.

I fisiocratici, estremamente consapevoli dell’incombere, nei fatti, della rivoluzione, intendevano promuovere una serie di riforme che diminuissero il peso della tassazione sui contadini favorendone la libertà di comprare e di vendere, cioè la loro integrazione, da protagonisti, nel circuito dei commerci. Il principio guida espresso nello slogan Laissez faire, laissez passer non intendeva affatto garantire massima libertà al capitale commerciale, ma al contrario favorire la liberazione degli agricoltori dai controlli e da una tassazione spoliatrice. Galbraith afferma che questa versione, certo concorrenziale alla base, e politica come istanza rivolta allo Stato, ma sostanzialmente tecnica, e da stimolare attraverso una serie di riforme dall’alto, venne poi sostituita da una visione teologica del Laissez faire, cioè dall’idea che lo Stato debba occuparsi soltanto di questioni limitate (fondamentalmente di ordine militare) e lasciare alla società lo sviluppo dell’economia che, di per sé, senza necessità di regole e di fine sociale alcuno, assicurerebbe il benessere collettivo, per una sorta di Divina Provvidenza.

«Al giorno d’oggi, – rileva Galbraith – il laissez faire teologico è una forza notevole, non ultimo nella Washington degli anni Ottanta. Esso influenza potentemente il modo in cui parecchi uomini d’affari moderni guardano allo Stato, finché il pericolo della bancarotta, una concorrenza estera troppo dura o qualche altro disastro che si profila all’orizzonte non costringe a tornare a una visione più laica dell’azione statale».

Galbraith sta parlando di quello che verrà definito neo-liberismo e che di neo non ha nulla perché è l’esatto capovolgimento del punto di vista dei fisiocratici, per i quali, come s’è detto, si trattava di liberare l’agricoltura dal giogo cui era sottoposta da parte dei mercanti, dei manifatturieri e della tassazione di Stato. Per i fisiocratici, cui era estranea la nozione marxiana di plusvalore, l’unico valore in campo era costituito dal produit net cioè dalla ricchezza prodotta dall’agricoltura, dalla quale dipendevano tutte le altre forme di guadagno che non aggiungono nuovo valore, scambiano e trasformano, ma restano alla base suddite del lavoro agricolo e, si potrebbe aggiungere, dello sfruttamento delle risorse naturali. Parlando dei lavori artigiani, Quesnay sosteneva che il loro sviluppo dipende dalla fonte agricola: perché possano aumentare i calzolai bisogna aumentare il numero delle pelli prodotte. Quesnay così sintetizzava il suo pensiero: «L’agricoltura è la fonte di ogni ricchezza dello Stato e della ricchezza di tutti i cittadini».

Che i contadini creassero la ricchezza e venissero rapinati da tutti era già stato denunciato dai livellatori inglesi, ma i fisiocratici propongono soluzioni riformatrici: accettano, come dato di fatto, la fine delle terre comuni e la nuova realtà delle proprietà contadine e della loro concorrenza, e sottolineano che ciò che conta, per i contadini, non è il possesso della terra, ma il possesso dei prodotti che creano con il loro lavoro, e dunque se devono definitivamente essere liberati dalla servitù della gleba, devono essere anche liberati dall’assoggettamento vessatorio al commercio, alla manifattura e alle tasse che da loro traggono i propri introiti.

La raffigurazione del contadino vessato prevale allo scoppio della Rivoluzione francese.



Fig.1


Le puntuali osservazioni dei fisiocratici sul tipo di oppressione subita dai contadini (anche di tipo commerciale e manifatturiero) vengono semplificate passando dal terreno specificamente economico-sociale a quello politico, definito dai Tre Stati: i primi due (aristocrazia e clero) gravano sul terzo (identificato con i contadini). La borghesia non risulta. Si pone, diciamo così, dietro le quinte.


Fig.2


Di nuovo, clero e aristocrazia, gravano sul fattore, in questo caso un piccolo proprietario, usando come piedistallo il macigno della tassazione.


Fig. 3


Qui l’agricoltore Nato per soffrire appare in due vesti: il contadino in primo piano, e il fittavolo sul fondo, che paga le tasse all’esattore.



Fig. 4


Il Terzo Stato, anche in questa immagine, viene compendiato nella figura del contadino costretto a raggere una pesante icona devota, alla quale rendono omaggio un prete e un aristocratico.

A rivoluzione vittoriosa, le cose cambiano miracolosamente.


Fig.5


L’agricoltore citoyen offre le mani a un prete e a un aristocratico: «Qua la mano. Sapevo bene, signori, che sareste stati dei nostri». Nulla è cambiato nella struttura sociale, ma ora si può essere fratelli liberi ed eguali, in quanto cittadini.


Fig. 6


Qui il messaggio è ancor più esplicito, pur nell’accumulo simbolico: il fattore, con un ramoscello di pace, tra le dita, rimira un dipinto a triangolo massonico, sormontato da un berretto frigio, in cui un borghese, un nobile militare e un religioso, rappresentano la nazione. Certo, l’agricoltore pare più corrucciato che sorridente, ma almeno sul macigno può star seduto, non ce l’ha più addosso.

Le tasse e gli arruolamenti non hanno affatto cessato di esistere, il clero non può dirsi in toto pacificato, l’esercito è diviso, e i borghesi al potere pure. Queste contraddizioni esploderanno nella rivolta della Vandea. In Francia era scoppiata una grave crisi finanziaria che il Parlamento non era in grado di fronteggiare. Nel dibattito politico si agitavano questioni di principio, si dibatteva di virtù e di vizi, pochissima attenzione, se non nessuna, veniva dedicata alla questione sociale. Sul fronte economico, alla generazione dei fisiocratici, ne era subentrata una che presumeva di risolvere i problemi delle finanze pubbliche, delle paghe e del potere d’acquisto del popolo minuto, con gli espropri dei nobili o con l’assalto ai granai, ma senza un vero progetto di riforme e di sviluppo economico per il paese. La crisi finanziaria determina inoltre una frammentazione della Francia. Nel 1791-92, a nord della Loira un sestiere di grano vale da 26 a 35 livres, altrove da 36 a 45, nella regione di Lione sino a 50, nel Massiccio centrale e in Provenza sopra le 56. I prezzi, nella Francia di prima della rivoluzione, erano mediamente di 24 livres. In queste condizioni, che si speri in una svalutazione o che si speri in un rialzo, a seconda degli interessi, il grano non viene venduto. Si attende. Attendono i contadini, attendono i proprietari. Il nuovo regime fiscale sulle persone li indispone. E l’aumento dei prezzi conduce a quello dei salari, cui contribuisce anche la scarsità di manodopera a causa degli arruolamenti per la guerra.

Il reclutamento risparmiò le citta e si concentrò sulle campagne. I più non si presentavano alla convocazione. Le autorità da un lato impiegarono la forza, dall’altro fecero promesse: una parte considerevole delle prede di guerra sarebbe stata devoluta ai soldati, i volontari sarebbero stati esonerati dalle tasse. Ma la ribellione si scatenò lo stesso. La bandiera della monarchia venne innalzata in quanto vessillo antirepubblicano d’occasione, ma lo slogan più diffuso che si gridava era Point de Roi, point de lois! Cioè: detronizzato il sovrano, perché dovrebbe essere più accettabile l’autorità repubblicana? I contadini, lo si nota in tutte le loro rivolte, non si propongono rovesciamenti di sistema politico, semplicemente reagiscono a provvedimenti particolarmente autoritari e iniqui nei loro confronti.

Gli eroi della rivolta della Vandea verranno effigiati in dipinti e disegni, celebrati in racconti, romanzi, e canzoni popolari, ma al fatto che si sia trattato di una rivolta contadina non si farà gran cenno. L’epoca si è piegata a una retorica demagogica divenuta, al passaggio del secolo, militare, e tutta incentrata sull’identità nazionale o su quella locale. Popolo=Nazione. Popolo=Territorio. Il contadino scompare dalla rappresentazione.


Nel prossimo capitolo vedremo, a titolo di confronto, come verrà raffigurato il contadino nella Rivoluzione russa.


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