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La Napoli della rabbia giovane


Idee di resistenza urbana attorno ad un libro di Carla Melazzini

 

 



La Napoli della rabbia giovane

Stigmatizzazione, isolamento, violenza. Le vite dei giovani nei ghetti urbani sembrano sempre più ripiegate su se stesse in mancanza di vie d’uscita praticabili. La ristampa di Insegnare al principe di Danimarca di Carla Melazzini è un’occasione per ripensare pratiche e relazioni e provare a invertire la tendenza.


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La casa editrice Sellerio ha appena ristampato Insegnare al principe di Danimarca di Carla Melazzini, un libro che racconta meglio di qualsiasi altro saggio o romanzo la Napoli di inizio secolo, ma anche la complessità delle relazioni educative, il modo in cui «certi» bambini e adolescenti vivono e sono percepiti nelle nostre città. La prima edizione uscì nel 2011, due anni dopo la morte dell’autrice, avvenuta a Napoli il 14 dicembre 2009. Nata a Sondrio nel 1944, Melazzini aveva studiato a Pisa negli anni della contestazione, e in quella città aveva conosciuto il suo compagno di vita, Cesare Moreno, con il quale condividerà prima la militanza politica e poi il lavoro educativo, stabilendosi definitivamente a Napoli dagli anni Settanta e per il resto della vita. A lungo insegnante negli istituti tecnici, è stata tra i fondatori di Chance, la «scuola della seconda opportunità», nata alla fine degli anni Novanta dal progetto Maestro di Strada, la sperimentazione avviata nei Quartieri Spagnoli di Napoli, in seguito presa in carico dalle istituzioni e allargata ad altri territori, proseguita per undici anni fino alla dismissione, ufficialmente per esaurimento dei fondi ma soprattutto per disinvestimento politico nel clima da basso impero dell’ultimo centrosinistra bassoliniano.

La maggior parte dei testi, ordinati secondo nuclei tematici, ha origine da quella esperienza, che consisteva nel ripescare i ragazzi espulsi anzitempo dalla scuola dell’obbligo e accompagnarli, secondo un modello di scuola più flessibile, al raggiungimento del diploma di terza media. Una sorta di diario di campo, quello di Melazzini, tenuto durante i dieci anni di insegnamento nel modulo Chance della periferia orientale (nei quartieri San Giovanni, Barra e Ponticelli): annotazioni e ragionamenti spogliati di ogni retorica, anche perché nati spesso come strumento di lavoro e auto-riflessione, alla ricerca di una didattica che reggesse l’urto di tante giovani vite disorientate.

I maestri di strada, i loro metodi pedagogici, le loro storie personali intrecciate con quelle dei ragazzi, suscitarono fin dall’inizio un grande interesse sia in Italia che all’estero, ispirando decine di servizi tv, articoli, film e documentari, spesso molto annacquati rispetto alla complessità e alle finalità del progetto, ma contribuendo comunque a sollecitare un dibattito sui modi e sul senso dell’insegnamento nei tanti ghetti urbani, sulla scuola com’è e su come dovrebbe essere.  

La compresenza di educatori e insegnanti, psicologi e pedagogisti; la riflessione sulle pratiche affidata alla collegialità quotidiana, non al periodico collegio dei docenti; la preminenza accordata ai laboratori e alle uscite sul territorio, non come appendici della lezione frontale ma come luoghi privilegiati dell’insegnamento; la priorità data alla gratificazione piuttosto che alla punizione; la difesa ostinata degli ultimi della classe, la disponibilità non solo a insegnare ma ad apprendere da loro, sono tutte caratteristiche di quella esperienza, non dati acquisiti a priori ma quotidianamente verificati e messi in discussione a partire dalle esigenze degli individui, dalle loro relazioni, dai tanti errori, contraddizioni e conflitti.

Dal punto di vista organizzativo, il progetto beneficiò di una rara congiuntura in cui le idee e l’intraprendenza di alcuni insegnanti e operatori sociali incontrarono la disponibilità a investire risorse da parte di amministratori e politici. Un esempio di collaborazione tra pubblico e privato sociale non esente da limiti e mancanze ma che oggi ci appare quasi inarrivabile se comparato alla paralisi dell’intervento istituzionale e alla deriva aziendalista di molte realtà associative.

In fondo, l’eredità di quella esperienza non è mai stata seriamente discussa e tanto meno assimilata. In questi anni l’abbiamo ritrovata qua e là, disseminata, ma anche diluita, nelle pratiche dei tanti insegnanti che dopo averla attraversata sono rientrati nell’alveo della scuola tradizionale, o in condizioni ancora più difficili nell’esperienza degli educatori che un tempo integravano le equipe di Chance, ormai definitivamente precarizzati, senza nessun salvagente che ne salvaguardi e valorizzi il bagaglio di conoscenze acquisite. Tra i fondatori, proprio Cesare Moreno ha tenuto alto il nome dei maestri di strada, fondando un’associazione che continua a operare nei quartieri della periferia orientale. Ma la città nel suo complesso ha richiuso le porte in faccia a questi ragazzi e ragazze che rifiutano la scuola e che ne sono rifiutati: un esercito di «dispersi», esposto all’attenzione dell’opinione pubblica solo per continuare ad attrarre fondi per progetti e attività che, evidentemente, non riescono nemmeno a intaccare il loro disagio, che appare in continua e vertiginosa espansione. 

Il dibattito pubblico su questi temi, d’altra parte, sembra tornato al grado zero di comprensione e complessità. Le ricorrenti esplosioni di violenza, i casi di cronaca nera che vedono protagonisti o vittime questi «ragazzi cattivi» provocano ormai solo rabbia ed esecrazione, al limite qualche generico slancio paternalista, mentre sembra scomparsa la possibilità di mettere in relazione la loro condizione con il modo in cui sono organizzate la scuola e la società, e in un ultima istanza sul modo in cui vengono governate le nostre città.

A Napoli, per esempio, il conflitto di bassa intensità per l’uso degli spazi pubblici, che da sempre vede fronteggiarsi da un lato bambini e adolescenti dei quartieri popolari, dall’altro le autorità costituite – in una città in cui ogni bambino dispone di appena 1,3 mq di verde pubblico –, ha fatto registrare negli ultimi anni un progressivo irrigidimento istituzionale e quindi un’agibilità sempre minore per i giovani refrattari e i loro sparuti alleati. Si possono citare due casi ancora aperti, il cui esito è in bilico ma sembra pendere sempre di più dalla parte sbagliata.

Il 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio, le bande di ragazzini che nei giorni precedenti hanno raccolto e messo da parte legname di risulta e alberi di Natale dismessi, sono solite bruciare tutto il legno accumulato in grandi falò nelle piazze dei loro quartieri, rinnovando una tradizione che era contadina e che si è fatta da tempo urbana, forse impoverendosi ma anche acquisendo nuovi significati. Ebbene, da qualche anno ormai va in scena una sorta di guerriglia urbana tra le forze dell’ordine e i giovani di quartiere, con le cataste di legno sequestrate, le piazze militarizzate, gli inseguimenti e le sassaiole, con l’unico risultato di aumentare la confusione, la rabbia e la stigmatizzazione di questi ragazzi, ma anche la loro distanza dall’ordine costituito.

La paura del fuoco, elemento perturbatore del decoro e della «pacifica» fruizione turistica dei territori, è alla base di un intervento poliziesco ancora più recente, a perturbare una delle manifestazioni di piazza più partecipate della città, quella dei «carnevali sociali» del centro storico: iniziativa autogestita in cui adulti e bambini si organizzano da sé nei loro quartieri, senza bisogno di bandi o sovvenzioni, patrocini o rendicontazioni; allestiscono i laboratori, costruiscono i carri, le maschere, i travestimenti, e il martedì grasso sfilano tra la gente, in quelle strade oggi diventate teatro di un’iperbolica turistificazione. Alla fine i diversi cortei confluiscono in piazza, dove carri e maschere di cartapesta bruciano in un grande liberatorio falò.

L’anno scorso, però, prima che si muovessero le parate, sono apparsi i poliziotti in borghese; hanno identificato alcune persone, le hanno intimidite: «Se ci sarà un falò in piazza – hanno detto – i responsabili sarete voi. Verrete denunciati». Non era mai accaduta una cosa del genere. Presi alla sprovvista, seguendo l’istinto di non compromettere nessuno con decisioni affrettate, il fuoco finale non è stato appiccato. «Quel che è accaduto – ha poi scritto il coordinamento dei carnevali in un manifesto – si inserisce in un contesto di mutamenti feroci e repentini. La città è a un bivio. L’impatto del turismo di massa, con l’aumento dello sfruttamento lavorativo e la concentrazione della rendita in poche mani; l’erosione degli spazi pubblici; la pervasività delle retoriche che accompagnano questi processi, l’arroganza e l’impunità della forza pubblica, è la cornice in cui si inseriscono le intimidazioni. Se l’iniziativa sia stata presa in autonomia dalla questura o se esistesse una copertura, una concertazione o addirittura un impulso politico, di questo deve rispondere chi governa oggi la città. Ed è a loro che chiederemo conto. […] Non vogliamo vedere mai più la polizia alle nostre parate. Vogliamo garanzie in merito. E le vogliamo dagli amministratori della città». Quest’anno a Napoli le assemblee e i laboratori del carnevale sono cominciati già a ottobre, con molto anticipo rispetto alle abitudini consolidate. La disfida del fuoco è appena cominciata.



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Luca Rossomando coordina le iniziative editoriali di Napoli Monitor. Il suo ultimo libro è Le fragili alleanze. Militanti politici e classi popolari a Napoli (1962-1976), Monitor, 2022. Insieme a Stefano Portelli e Lucia Tozzi ha scritto Le nuove recinzioni. Città, finanza e impoverimento degli abitanti, Carocci, 2023.

 

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