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La fantascienza che gira le viti del mondo


Da che mondo è mondo Questa storia potrebbe terminare qui, nel 1972, con le note di Silver Machine degli Hawkwind, un Rock ’n roll dalle tinte spaziali cantato dall’allora bassista Ian Fraser Kilmister (Lemmy). Di fatto abbiamo bisogno di spingerci cronologicamente un po’ più indietro anche solo per iniziare a intravedere le oscure trame del mondo, o per meglio dire, per iniziare a sfogliare le pagine su cui la realtà che viviamo è stata un tempo scritta, in libri e racconti di fantascienza ucronica. Possiamo allora fissare il punto d’inizio all’anno 1961 con l’impresa di Jurij Alekseevič Gagarin. La storia, dicevo, potrebbe concludersi qui, con un decennio in cui gli esseri umani metteranno per la prima volta il naso fuori dalla biosfera, la prima volta che poggeranno i piedi su un suolo non terrestre e la musica rock che metabolizzerà tutte queste esperienze elaborando un genere specifico e una specifica canzone. In realtà in questo decennio accadrà tanto altro (con un affollamento di eventi tra il 1967 e il 1969), specificatamente nel mondo della fantascienza, che, proprio come una sceneggiatura, imprimerà al reale la forma che noi attualmente abitiamo: la sua Weltanschauung. Una macchina d’argento che cavalca l’onda Partiamo quindi dalla fine, da Silver Machine. Il testo non si presta a profonde ermeneutiche, ripetendo più o meno ossessivamente il mantra della misteriosa macchina d’argento; a patto forse di questa strofa che ci mette sulla giusta strada: I’ve got a Silver Machine. It flies. Sideways through time. Siamo molto lontani dalle arguzie testuali di Space Oddity, ma qui quello che conta è l’incedere ipnotico ritmico e l’amalgama sonora, più che le virtù cantautorali. Ancor prima c’erano stati vari tentativi di coniugare rock, psichedelia e spazio. La piattaforma girevole attorno a cui produrre questa miscela era stata, inevitabilmente, la fantascienza ispiratrice tanto nei classici che nella nascente New wave letteraria. Ne erano un esempio i Soft Machine che mutuavano il proprio nome dalla psichedelia post beatnik di William Burroghs. C’era stato Fifth Dimension dei Byrds, The dark side of the moon dei Pink Floyd che si rifaceva a George Orwell e il Rocket Man di Elton John ispirato ad un omonimo racconto di Ray Bradbury. C’era stato pure Flying degli UFO. Ovviamente c’era stato anche David Bowie che da lì a poco sarebbe pure tornato, o per meglio dire caduto, sulla Terra grazie al romanzo del 1963 di Walter Stone Tevis. In Italia ci sarà Alberto Farina, regista, tutt’altro che psichedelico, ma con uno sguardo alle innovazioni della fantascienza dell’epoca e alle sue ricadute sul contesto sociale. Il titolo del suo documentario La fantascienza siamo noi (1970) [1], preannuncia alcuni dei temi che qui si delineano. Con gli Hawkwind il progetto di Space rock fin lì abbozzato diviene musicalmente più chiaro, procedendo di pari passo con la rivoluzione nel campo della fantascienza. La band inglese si trova esattamente al suo centro, forse non sempre compositivamente alla sua altezza, illuminata dallo scrittore di fantascienza Michael Moorcock, allora a capo della innovativa rivista di sci-fi New Worlds (dal 1964 al 1971 e ancora dal 1976 al 1996). Trame oscure da un altro mondo È il 1967 quando lo scrittore Harlan Ellison cura l’antologia Dangerous Visions, considerata la prima collezione di quella nascente nuova ondata della fantascienza promossa dalla rivista New Worlds di Moorcock. Tra i tanti autori all’interno anche Roger Zelazny con il racconto Auto-Da-Fé (1967) [2]. Quello stesso anno Zelazny pubblica Signore della luce un virtuoso ed epico romanzo in bilico tra fantascienza ed elaborazione futuristica della mistica Indù. All’interno della storia compare un gruppo di rivoluzionari che attraverso la tecnologia spinge la propria società a un livello superiore come estrema ratio di mutamento. Zelazny li definisce Accelerationists. Tra i tanti autori in Dangerous Visions compaiono anche Dick, Samuel R. Delany, Norman Spinrad e ovviamente James Ballard, che solo tre anni prima aveva scoccato la prima freccia infuocata nella crociata contro la fantascienza delle origini [3], proponendo di utilizzare le tecnologie futuristiche per esplorare i bassifondi della psiche. Gli autori della raccolta Dangerous Visions covano in sé due tendenze che si compiranno però definitivamente solo molti anni dopo: da una parte il Cyberpunk, soprattutto a opera di una seconda ondata di scrittori che negli anni Ottanta a questi pionieri si rifaranno, espandendoli (William Gibson, Bruce Sterling, John Shirley), e dell’altra all’Accelerazionismo esploso più tardi e per vie del tutto diverse, negli anni Novanta, figlio di Zelazny. L’Accelerazionismo è, nel suo affermarsi, già la versione tossica, il ribaltamento, della visione distopica che da critica e controculturale (come si presentava originariamente nel Cyberpunk), stava per mutare nella filosofia compensativa del super capitalismo immateriale, in quell’idea germinale di un’accelerazione necessaria e disposta a travolgere ambiente, azzerare culture locali, annacquare democrazie, pur di tenere in vita un modo di produzione aridamente ricorsivo, accompagnandolo parimenti, a un nuovo livello e a una nuova coscienza di sé. L’Accelerazionismo fa parte di una psichedelia intenta a disgregare quell’utopia progressiva, imponendone una regressiva (sostituendovi una distopia mortifera e senza via di scampo) tutta interna ai valori dell’emergente destra alternativa (Alt-Right). Per questa via, intrisa di esoterismo religioso, culti massonici, sperimentazione tecnologica, suggestioni fantascientifiche e discendenze psichedeliche, matura quella che voglio definire destra psichedelica o meglio ancora destra psicotronica in cui l’Accelerazionismo degli anni Novanta si sente perfettamente a proprio agio. Queste tendenze giungono in salute all’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca [4] uscendone rafforzate, riuscendo ad infiltrarsi con politici come Steve Bannon, direttamente fin dentro le stanze in cui si prendono le decisioni. Sopravvivono poi a Trump nell’ancor più sotterranea trincea del QAnon e nella sua rete internazionale di sceneggiatoricospirazionisti, intenta a riscrivere la storia del mondo. Forse sopravviverà a tutti noi in qualche altra forma o nella sua più completa realizzazione d’astropreneur [5]. Cronologicamente, forse il primo segnale di questo cambio di rotta lo possiamo rintracciare già nel 1968, quando la serie televisiva Star Trek mette in onda la puntata Wink of an Eye, in cui è proprio il concetto d’accelerazione a essere trasposto in chiave distopica. L’equipaggio dell’Enterprise è ostaggio di una specie aliena che vive su un piano di realtà accelerato mantenendoli, per tutta la puntata, docili e in uno stato di schiavitù [6]. Di due anni più vecchia rispetto a Dangerous Visions è l’antologia curata da Moorcock dal titolo The Traps of Time (1969) che dà alle stampe da direttore della rivista New Worlds, con uno slancio fondativo identico alla raccolta di Ellison. Tra gli autori, di nuovo troviamo Zelazny e Ballard. Ma la vera intuizione di Moorcock è l’inserimento di un saggio di Alfred Jarry: How to Construct a Time Machine [7] del 1899. È proprio Moorcock a consegnare nelle mani di Robert Calvert degli Hawkwind l’antologia a cui quest’ultimo s’ispirerà (nello specifico al saggio di Jarry) per scrivere il brano Silver Machine. E siamo quindi arrivati quasi alla fine se non fosse per la necessità di addentrarci poco di più nelle oscure trame del mondo. Lo scenario narrativo diviene trialettico: da una parte il Cyperunk critico (ma poi neutralizzato), dall’altra la destra psicotronica, erede con l’Accelerazionismo, di una visione distopica senza via di scampo. Da un’altra parte, più nascosta (e riesumata), la Patafisica di Jarry. In mezzo noi, il mondo e il suo essere plasmato da forze oscure che si sprigionano dalle pagine di libri d’anticipazione, proprio come accade nella puntata della prima stagione di Star Trek, andata in onda nel 1968: Chicago anni 20 [8]. Macchina a pedali e volani Se accettiamo quindi l’idea di vivere in una narrazione di fantascienza, cattiva nella fattispecie, in cui Cyberpunk, Singolarismo e Accelarazionismo hanno funzionato da vettori di convergenza che conducono direttamente alla forma che ha l’oggi così come lo conosciamo, in cui la narrativa d’anticipazione diviene il faro e l’house organ di una scienza al servizio del neoliberismo, allora la Patafisica, giocando al loro stesso tavolo, può costituire una sua consistente forma controculturale, in cui l’erosione del senso, la costruzione scientifica dell’assurdo, parla lo stesso linguaggio degli ingranaggi che lo status quo lo generano. Da una parte quindi i milionari visionari con in mente un precisa idea del futuro orientato verso la singolarità tecnologica e amministrato attraverso programmi transumanisti di colonizzazione della Luna e di Marte, da Kurzwail a Elon Musk e Jeff Bezos [9]. Dall’altra parte, Alfred Jarry con la sua idea di scienza catatonica, imprigionata nell’estasi primigenia di progetti puri e fantascientifici, come la costruzione della macchina del tempo o la prova algebrica dell’inesistenza di Dio (Calcoli vari riguardanti Dieu alcuni dei quali sono falsi di Boris Vian) [10]. Così posta la questione si può riassumere nel fatto che Dangerous Visions costituisce un involontario manifesto della conformità di là da venire, mentre The Traps of Time quello dell’inattesa difformità, sempre a venire, che lascia intravedere un’ucronia, di matrice dickiana, nell’apparente normalità degli slanci transumanisti neoliberisti: io sono altra cosa da ciò che, ipso facto, percepisco. Dobbiamo rifarci all’arguta analisi di Gabriele Frasca della paranoia dickiana di La svastica sul sole, romanzo del 1962 [11] per comprendere a fondo la lezione del narratore statunitense: in ogni realtà si cela un libro o un interruttore a cordicella [12] capace di sbugiardarla lasciandoci sbirciare nella vera e seppellita essenza del mondo. Ma dentro ci siamo anche noi che, stanchi di sostenere la verità, l’abbiamo lasciata cadere in disuso, asfaltata da una versione che, ipso facto, interpretiamo attanzialmente e che stancamente ci appare più à la page: un’ucronia. Nel mondo, così come lo conosciamo, una di queste smagliature è allora il saggio di Jarry gettato lì, fuori contesto, in una delle due raccolte che predicono e progettano, mettendolo nero su bianco, la forma politica e i rapporti sociali che il mondo intratterrà da lì a poco. La macchina del tempo di Jarry è, come appare esplicitamente nel testo e come a Robert Calvert piace sottolineare, una trasfigurata rappresentazione della sua bicicletta: smontata e descritta con ossessionata minuzia di dettagli scientifici supercazzoleschi tanto da diventare un insensato dispositivo che mortifica la comprensione razionale (pur evocandola) e con lei l’apparente graniticità del mondo. Altrove ho sostenuto che qualora volessimo descrivere in modo più generale questo meccanismo, un buon candidato sarebbe l’Ufo [13], di cui Patafisica e bicicletta rappresentano, in questo contesto, solo casi particolari. Ma l’uguaglianza bicicletta = controfattualità, va oltre l’operazione semantica di Jarry e di cui Moorcock è l’inconsapevole promotore-untore. Nel 2017 Jeremy Withers pubblica il saggio The War of the Wheels: H. G. Wells and the Bicycle. L’idea di fondo di Withers nasce dall’analisi di alcuni racconti di fantascienza scritti soprattutto negli anni Cinquanta che utilizzano la bicicletta per opporsi al nascente strapotere dell’automobile. Siamo quasi sempre a meno di un decennio prima della rivoluzione psichedelica, abbastanza vicini perché autori di libri d’anticipazione come Robert A. Heinlein, Ray Bradbury, Avram Davidson e altri possano iniziare a intravedere le fondamenta del plot del mondo che verrà in un oggetto, l’automobile, che come nessun altro caratterizzerà gli anni a venire: basti pensare alle ossessioni di Ballard. La patina superficiale e appariscente del nostro mondo Tecnicamente quindi la realtà ha la forma compiuta del mondo1 (quello che percepiamo guardando fuori dalla finestra) anche se in realtà a modellare il reale è stato il mondo2, di cui qua e là troviamo tracce, indizi da utilizzare al più per scrivere racconti di fantascienza ucronica. Non a caso in La svastica su sole, le tracce del mondo2 (la vittoria degli Alleati durante il secondo conflitto mondiale) si trovano in un racconto The Grasshopper Lies Heavy di Hawthorne Abendsen, che circola clandestinamente nel mondo1 (il mondo in cui ha vinto l’Asse). All’interno del mondo ribaltato di Dick, il libro lascia emergere il sospetto che le cose siano andate in modo diverso, che gli esiti del conflitto non siano stati favorevoli all’Asse. L’essenza del mondo1 è quindi quella di una riscrittura, forse un pastiche letterario, una cover musicale (o tribute) che ascoltiamo senza sapere trattarsi di una libera reinterpretazione, a cui attribuiamo statuto di artefatto cognitivo originale. L’assenza del mondo2 è invece quella di un canovaccio, o meglio ancora di novella sconosciuta ai più da cui è tratta la sceneggiatura di un film di grande successo e a cui, forse, l’autore letterario non conferirebbe il proprio assenso vedendone il senso stravolto nella trasposizione cinematografica. Ma a questo punto sarebbe utile imbattersi in prove un po’ più concrete, in crepe un po’ più agganciate all’esperienza quotidiana. L’occasione mi si è presentata nel 2017 durante uno degli incontri tenutisi al centro sociale occupato e autogestito Forte prenestino di Roma, durante il ciclo dal titolo Rivoluzioni sulle lotte e i movimenti dal Sessantotto al Settantasette fino a Genova 2011. A essere presentato in quell’occasione fu il libro di Nanni Balestrini e Tano D’Amico, Ci abbiamo provato. Parole e immagini del Settantasette (2017), una raccolta fotografica illustrata con appunti, di quella che fu l’esperienza del movimento italiano in quegli anni. Il titolo del libro è eloquente e racconta esplicitamente la sconfitta di quell’esperienza, mettendo assieme le immagini degli slogan che, in quel periodo, erano le parole d’ordine per la riscrittura del mondo. Riscrittura apparentemente mai avvenuta, rimasta forse una bozza, o un progetto in un cassetto. Leggendo i motti ritratti dalle fotografie di D’Amico si resta però un po’ disorientati dato che l’impressione che se ne ricava, al di là dell’evidente grana del tempo, è la loro attualità [14], non come rivendicazioni urgenti ancora da attuare, ma come pillole démodé della contemporaneità, come si trattasse di un vecchio racconto che intravediamo (anche se non ufficialmente accreditato) alla base di una nota e di gran lunga più attuale trasposizione cinematografica: un po’ come avviene a chi s’imbatte nel racconto Tempo fuori luogo (1959) di Dick, ma prima aveva visto il film The Truman Show (1998). Mi venne in quel contesto allora da domandarmi se l’onda lunga della psichedelia non avesse collezionato le sue vittorie (o almeno molte di esse), ma poi ce ne fossimo dimenticati, le avessimo rimosse, creando spazio nella memoria sociale resa disponibile a una riscrittura. Propongo qui una tassonomia del tutto soggettiva proprio in questa chiave [15]: - L’accelerazione dei neoliberisti Godetevela senza freni Vivere senza fermarsi mai e godere senza freni Vogliamo tutto e subito! Consumate di più, vivrete di meno


- Fine della centralità della rappresentanza civile Or' che buoni siamo stati, possiamo parlare coi sindacati E ora, e ora potere a chi lavora Nella frantumazione è la nostra forza. Non bastan gli elicotteri, non bastano i blindati, vogliamo, vogliamo i carri armati Riprendiamoci la vita, no alla politica Compagno PCI, t’hanno fregato, niente comunismo, ma polizia di Stato - Progressiva denuclearizzazione Meno case popolari, più centrali nucleari Meglio oggi attivi che domani radioattivi - La messa a valore della creatività e la marginalità del lavoro tradizionale La fantasia al potere! L’immaginazione al potere Lavorare meno, lavorare tutti. Niente paura tutta cultura


- Dematerializzazione del virtuale Prendete i vostri desideri per realtà La vita è altrove Le radio libere sono provocazione, tutto il potere alla televisione


Antefatto Frasca storicizza bene la paranoia dickiana. Con la fine del Secondo conflitto mondiale, diviene chiaro che la vittoria degli Alleati è imperfetta e nasconde in sé dinamiche non troppo dissimili da quelle inaugurate dall’Asse. Qualcosa di quella sporca guerra è rimasto sotto la suola degli stivali di chi torma a casa. Abbattuta l’arma di sterminio di massa chiamata propaganda grazie all’atomica, in patria i soldati statunitensi la ritroveranno trasfigurata sotto le mentite spoglie dello spettacolo televisivo, del suo ipnotico martellamento, non più in favore del Reich, ma della libera circolazione delle merci. Cogliere analiticamente la similitudine tra i due imperi toccherà agli esuli della Scuola di Francoforte, ma sul piano inconscio questo movimento asintotico non sfugge a menti sensibili come gli scrittori di fantascienza. Da questo tipo d’emozione culturale emerge il sospetto che a vincere la guerra sia stata comunque l’Asse trasfigurata nel rampante capitalismo della rinascita del dopo conflitto. Questa idea mi obbliga a pormi la stessa domanda individuando le cause del ribaltamento delle parole d’ordine del movimento degli anni Settanta in conformismo neoliberista. La risposta sta in qualcosa di simile alla paranoia dickiana, in questo caso nel web. Fin dalle sue strutture precorritrici, il web ha instillato un’idea di orizzontalità che ha, dopo gli anni Novanta, tradito. Non mi addentrerò in questo aspetto già molto trattato e dibattuto. Qui m’interessa evidenziare la possibilità che un nuovo ideale di democrazia diretta abbia assorbito tutte le spinte sociali, le tensioni irrisolte, che convergevano negli anni Ottanta, per poi riproporcele in una versione distopica. In questa transizione si sarebbe consumata quella totale perdita di memoria collettiva, quella sottrazione di parole d’ordine, che oggi costellano lo status quo, ma che amaramente, se guardate da un altro continuum, apparirebbero come la vittoria del movimento che originariamente le aveva generate, rendendo ironico il titolo del libro di Balestrini e D’Amico.

Note [1] R. Farina, La fantascienza siamo noi, https://www.youtube.com/watch?v=Fr_9G3iJQuU (1970). [2] R. Zelazny, Auto-da Fé, https://bit.ly/2Nam3pR (1967). [3] C. Pongide, Ideologia del presente: il futuro distopico, in «Quaderni d’altri tempi», https://www.quadernidaltritempi.eu/ideologia-del-presente-il-futuro-distopico/ (2018). [4] A. Beckett, Accelerationism: how a fringe philosophy predicted the future we live in, https://www.theguardian.com/world/2017/may/11/accelerationism-how-a-fringe-philosophy-predicted-the-future-we-live-in (2017). [5] Termine con cui si indicano gli imprenditori coinvolti in affari riguardanti corpi celesti: asteroidi, pianeti, lune. [6] Il Capitalismo Accelerazionista raccontato da Star trek, https://www.youtube.com/watch?v=pPWIZyV4t0c (1967). [7] A. Jerry, Commento inteso alla costruzione pratica della macchina per esplorare il tempo, https://www.patakosmos.com/database-open-access/Macchina-del-tempo-jarry-ita.pdf (1899). [8] Abitare un libro: molto in anticipo su Biglino, https://www.youtube.com/watch?v=KQ-dgVx1OkY (1968). [9] M. Shaw, Billionaire capitalists are designing humanity's future. Don't let them, https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/feb/05/jeff-bezos-elon-musk-spacex-blue-origin?fbclid=IwAR23KZK3PHc_FP6VT8Get4mcO-F0-8hejiUTlV5D6TcQhq3k7JfK5hMHAbM (2021). [10] In: E. Baj, Patafisica, Milano, Bompiani, 1982. [11] G. Frasca, La scimmia di Dio, Costa&Nolan, Roma, 1996. [12] P.K. Dick, Tempo fuori luogo, Sellerio, Palermo, 1996. [13] C. Pongide, UFO e altre cose disfunzionali, https://www.youtube.com/watch?v=hzyWDVyuX5M (2019). [14] Gli slogan del Movimento del ’77, https://www.autistici.org/operaismo/Autonomi3/scritte_e_slogan/gli%20slogan%20del%20movimento%20del%20'77%20_gli%20slogan%20del%2077.html [15] Vedere un altro orizzonte, https://ufociclismo.wordpress.com/2017/12/15/vedere-un-altro-orizzonte/ (2017).

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