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Su «La Classe»
Sergio Bologna
In un solo Paese del mondo i movimenti di rivolta e di protesta del 1967-68 hanno innescato un ciclo decennale di lotte nei luoghi di lavoro. Questo Paese è l’Italia. È stato l’Italia. Sembra quasi impossibile, a vederlo com’è ridotto oggi. L’anno scorso le commemorazioni del ’68 sono scivolate via senza farsi notare. Ma quello che è stato l’anno successivo, il 1969, non dovremmo dimenticarlo, perché ne è stato protagonista il lavoro e oggi abbiamo un bisogno enorme di riscattare la dignità del lavoro, manuale o intellettuale che sia. Nel 1969 si è sprigionata una liberazione di energie del mondo del lavoro, a livello operaio soprattutto, che ha spostato in avanti le dinamiche della civiltà. Quelli che per definizione sono sottomessi hanno trovato la forza e l’intelligenza per alzare la testa e imporre alcune loro condizioni. I protagonisti sono stati decine di migliaia. Qui, ripubblicando l’articolo uscito su un giornale che si chiamava «La Classe», ricordiamo una tessera di quell’enorme mosaico.
Era il primo numero di quel giornale, l’avevano fondato due generazioni, la prima era quella degli «operaisti» che erano passati per le esperienze dei «Quaderni rossi» e di «Classe operaia» (1961-1966). Se n’erano persi parecchi per strada, e non di secondo piano, alcuni erano rientrati nel Pci, altri avevano smesso. La seconda generazione era quella delle avanguardie (si può ancora usare questo termine?) studentesche, quella dei ragazzi che avevano organizzato il movimento nelle Università. Gli operai, appartenenti alla prima generazione, saranno stati una trentina, non di più. C’era chi, come l’autore dell’articolo qui riprodotto, aveva allora 32 anni e veniva chiamato da taluni «il compagno anziano». Insomma un cocktail piuttosto originale. Il primo numero fu distribuito nelle piazze alle manifestazioni del primo maggio. L’ambizione era grossa, ma allora non si aveva timore di pensare in grande. Era quella di far succedere qualcosa nel simbolo del capitalismo italiano e nel cuore della classe operaia italiana: la Fiat. Da mesi si sapeva che c’erano piccoli ma continui episodi di lotta, ma restavano interni, non trovavano canali di trasmissione e, quand’anche li avessero trovati, non è detto che si sarebbero incontrati con qualcuno che sapeva o voleva dare loro il giusto peso. Gli «operaisti» avranno combinato tante sciocchezze nella loro storia ma avevano un fiuto notevole per queste cose, che era frutto non solo di certi contatti ma di un sapere accumulato negli anni; spesso sapevano intervenire al momento giusto per far scoccare la scintilla. C’erano allora degli studenti lavoratori dell’Università di Trento che si erano avvicinati al giornale «La Classe» e al gruppo che lo aveva promosso, tra questi uno grande e grosso, Marione da allora è stato chiamato, che stava a Torino e aveva preso la cosa maledettamente sul serio. Accompagnato da pochi compagni si presentò alle porte di Mirafiori e iniziò un lavoro di agitazione, trovando un terreno talmente fertile che dopo pochi giorni si formavano già grossi gruppi di lavoratori a chiedersi come organizzarsi meglio per mettere in piedi scioperi efficaci. Fu l’inizio di un movimento che dopo qualche settimana vedeva a Torino concentrata l’intera élite delle lotte studentesche delle principali università italiane, Roma, Pisa, Trento, Padova e Torino naturalmente, accorsa per dare manforte agli operai. Le agitazioni durarono tutto giugno e tutto luglio, fu creato un coordinamento nell’Assemblea operai-studenti che si riuniva nelle Facoltà occupate. La presenza dei dirigenti del movimento studentesco in certi casi può aver provocato un eccesso di ideologismo, ma non c’è dubbio che ha dato alle lotte operaie una visibilità che altrimenti non avrebbero avuto. Da quelle lotte operaie di Torino si è coagulata la spinta che ha scatenato il cosiddetto «autunno caldo». Almeno, io la vedo così.
Una decina d’anni dopo, la maggioranza di quei compagni che avevano collaborato alla nascita e alla diffusione de «La Classe», pagheranno con anni di galera la loro militanza degli anni Settanta. Alcuni sono scomparsi, voglio ricordare il nome di uno di loro, perché veniva con me alle porte della Fiat di Rivalta in quella estate del ’69: Emilio Vesce. Incontrammo allora dei personaggi straordinari che lavoravano alle catene delle fabbriche d’auto torinesi, un patrimonio di umanità e di maturità politica che poco per volta è stato messo da parte e non recuperato da nessuna organizzazione. Ricordandoci di questo, cominciamo a capire perché oggi siamo ridotti così.
Sergio Bologna
1998
* * *
(«La Classe. Operai e studenti uniti nella lotta» – giornale delle lotte operaie e studentesche, anno I, n. 1, primo maggio 1969, p.1).
Questo giornale non nasce come organo di qualche nuova corrente o di qualche nuova forma di organizzazione all’interno del movimento studentesco e di classe; nasce per condurre una battaglia di linea politica nel movimento, perché si qualifica soltanto per i contenuti che propone.
Il primo riguarda le scadenze imposte dalle lotte per il rinnovo dei grandi contratti, visti come uno scontro politico sulla base del quale prenderà radici la nuova organizzazione rivoluzionaria e dall’esito della quale prenderà avvio la nuova fase di politica capitalistica in Italia, sia per quanto concerne la realizzazione del salto tecnologico nella «grande industria», sia per quanto concerne le nuove maggioranze di governo.
Alla Fiat ogni giorno la percentuale di assenze è altissima; è gente che non ce la fa più a tener dietro ai ritmi di lavoro massacranti imposti dai padroni della metalmeccanica; è gente che resta a casa per conservare la propria esistenza fisica. Si parla di diritto alla salute, alla lotta contro la nocività, ma non si dice che l’unica risposta operaia a questi problemi è un rifiuto generalizzato del lavoro. Finora questo rifiuto ha assunto forme passive, ma sta già mano a mano assumendo caratteristiche offensive e quindi di organizzazione operaia autonoma. Di fronte alla necessità di passare a una fase più avanzata di automazione, e di fronte alla prospettiva di disoccupazione tecnologica, il rifiuto del lavoro da parte di quelli destinati a restare è ancora più urgente.
Ma questo è solo un esempio per dire che le scadenze contrattuali vanno viste anche dal movimento studentesco in quanto tale come proprie scadenze politiche, e quindi richiedono da parte sua un impegno concentrato e totale. In questo senso noi rifiutiamo l’idea che la base per progettare una campagna di massa del movimento studentesco debba essere quella rappresentata dalla coscienza media del movimento stesso o dai suoi livelli attuali di organizzazione o della sua generale pratica politica. E tanto più rifiutiamo la furba proposta di rispettare l’autonomia del movimento studentesco, per poi di fatto confinarlo nella politica sindacale sulla scuola. Riteniamo però che anche nell’affrontare scadenze esterne al suo sviluppo, esso debba partire dal proprio specifico punto di vista.
Così nasce il secondo tipo di contenuti portati avanti dal giornale, strettamente legati a quelli dei contratti.
Si tratta di tutto il discorso sulla qualificazione della forza-lavoro, sui tecnici e sulla scienza, come forme produttive. In tal caso non si dice altro che di scendere sul terreno di scontro presentatoci dallo sviluppo del capitale stesso. La lotta alla pianificazione dell’istruzione e della ricerca scientifica, così come viene importata oggi a livello europeo, è la stessa lotta degli operai contro il piano del capitale.
Soprattutto da questo punto di vista, le corrispondenze e le cronache di lotta dall’estero più che a un’esigenza di informazione rispondono alla necessità di vedere la pianificazione della scienza sul solo livello in cui acquista suoi caratteri specifici e autonomi, cioè a livello internazionale.
Se questi sono, sommariamente, i contenuti proposti dal giornale, significa che il lavoro di dibattito e di organizzazione, oltre che nei punti essenziali della concentrazione di classe, si svolgerà soprattutto nelle facoltà tecnico-scientifiche e nell’ambito delle lotte dei tecnici. Per questo non si tratta altro che di intervenire in un processo già in corso, evidente soprattutto nell’area milanese, ma anche altrove.
Una battaglia di linea è evidentemente battaglia per l’organizzazione, ma è portata avanti nell’unico modo possibile, cioè quello di proporre scadenze di lotta e contenuti, perciò i nostri avversari possono risparmiarsi fin d’ora di cercare nell’anagrafe della gruppettistica un’etichetta da affibbiarci.
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