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L’Ucraina ribelle




Da quando è cominciata la guerra in Ucraina, è estremamente difficile trovare analisi politiche e geopolitiche che vadano oltre le banalizzazioni dei media mainstream, l’adesione a supposti o fantasiosi schieramenti ideologici, il desiderio di evitare inutili semplificazioni. Anche nei dintorni del pensiero radicale tutto o quasi tace, ovvero assume la forma grottesca della conquista di like sui social network. In queste settimane «Machina» sta tentando di aprire faticosi spazi di riflessione e discussione, a più voci, anche in evidente contraddizione tra di loro, accomunati tuttavia dall’esigenza di riconquistare un livello alto dell’analisi teorico-politica. In quest’ottica pubblichiamo un contributo di Giuseppe Cocco, che muove da una considerazione critica di come, a suo modo di vedere, l’avventura militare di Putin e l’alleanza tra Russia e Cina siano state salutate da molti intellettuali latino-americani come la conferma della fine dell’odiato impero americano.


* * *



La decomposizione del capitalismo può condurre il mondo non alla rivoluzione, ma al caos (e questo nella misura) in cui gli uomini non capiscono la situazione e non vogliono intervenire.

M. Merleau-Ponty


Quello che eternamente minaccia le organizzazioni rivoluzionarie è il farsi di una concezione purista degli interessi (delle classi oppresse).

G. Deleuze e F. Guattari


L’ideologia del declino

L’avventura militare di Putin in Ucraina e l’alleanza tra Russia e Cina sono salutate da molti intellettuali latino-americani (e non solo) come la tanto attesa conferma della fine dell’odiato «impero americano» o addirittura come una specie di giustizia contro l’Ucraina. Quando non è ignorato, il diritto di resistenza degli ucraini è disprezzato e calpestato, eventualmente in nome di un pacifismo che prevede solo la resa alla schiavitù[1], nessuno si ricorda più di aver un giorno gridato: no Justice, no Peace. La retorica dell’oppresso lascia il posto all’apologia dell’oppressore o forse esplicita la dimensione edipica di questa narrativa, così come Gilles Deleuze et Félix Guattari avevano ben intuito: «È la colonizzazione che fa esistere Edipo, ma un Edipo risentito per quello che è, pura oppressione»[2].

Come cornice di questo triste quadro del pensiero critico, sociologi della cosiddetta decolonialidad o delle «epistemologie del Sud» si sforzano di trovare ragioni all’invasione neocoloniale di un paese sovrano da parte di una superpotenza che storicamente ha sempre calpestato, deportato e martoriato i popoli vicini[3].

I timori e i tremori del declino delle civiltà sono sempre esistiti così come le guerre non hanno avuto bisogno del determinismo del capitale per essere combattute. Dalla fine dell’egemonia ateniese narrata da Tucidide nella Guerra del Peloponneso al lavoro monumentale di Edward Gibbon sul Declino e caduta dell’Impero Romano, sempre risuona la vecchia domanda: «come e perché le civiltà collassano?»[4]. Epidemie e guerre tormentavano Goethe nel suo Faust e rinnovano oggi la nostra percezione, nella fragilità della vita, della mortalità delle civiltà. Subito dopo il trauma della Prima guerra mondiale, il poeta francese Paul Valéry scrisse: «Noialtri civiltà adesso sappiamo che siamo mortali. Avevamo sentito parlare di mondi interi scomparsi, di imperi andati a picco con i loro uomini e le loro macchine. Ma adesso vediamo che il baratro della storia è abbastanza grande per tutti quanti. Sentiamo che una civiltà ha la stessa fragilità di una vita»[5]. Non per caso, William Marx scrive che Kharkiv, Kherson, Mariupol, Kiev sono delle Babilonia, Persepolis, di oggi e di domani: città ancora ieri fastose e oggi ridotte a un mucchio di rovine[6].

In effetti, possiamo cogliere per lo meno tre paradossi nella celebrazione contemporanea di un declino che è sempre stato parte della nostra condizione. Il primo paradosso è che gli attori di questa decadenza sarebbero altri imperi «emergenti»: ora, quello russo non è per niente emergente e quello cinese non è certamente «nuovo»[7]. Il secondo paradosso è che la cifra dell’indebolimento dell’egemonia imperiale americana sarebbe la sua incapacità di rispondere alla violazione della sovranità di un paese alleato, mentre questa guerra puramente neocoloniale dovrebbe preoccupare ogni paese indipendente, soprattutto tutti quelli che non sono in condizioni di difendersi dall’attacco o dal ricatto di una superpotenza (senza parlare dell’arsenale nucleare)[8]. Il terzo paradosso è quello più interessante ed è bidimensionale: da una parte, quel che ha caratterizzato il cosiddetto Occidente sino a oggi non è stato il suo monolitismo, ma la capacità di alimentarsi della sua instabilità, delle sue ambivalenze e così di rinnovarsi continuamente; dall’altra, l’Occidente non è (solo) occidentale e non lo è mai stato. Russia e Cina che oggi sfidano la posizione americana sono ambedue passate ideologicamente e industrialmente per un periodo «comunista» senza il quale non sarebbero quello che sono. Ora, il «comunismo», come lo sottolinea Arnold Toynbee, «è un’arma di origine occidentale»[9]. Ma si tratta di qualcosa di più profondo. In questo senso, le osservazioni di Jack Goody sono utilissime. In primo luogo, quando dice che la storia e la sociologia delle grandi civiltà euroasiatiche invece di mostrare traiettorie specifiche e separate tra est e ovest, si caratterizzano per «variazioni mutue»[10].

La critica dell’eurocentrismo può essere in realtà un suo prodotto e questo nella misura in cui essa afferma l’unicità e il monolitismo dell’Occidente. Questo forse spiega perché un pensiero che si vuole decolonial difenda in realtà un altro colonialismo. La trappola nella quale cade la narrativa decolonial è proprio quella di affermare quello che pensa di negare. Questo appare proprio nella questione della biforcazione tra Cina e Occidente: da un lato, questa separazione è estremamente recente e riguarda un’Europa e una civiltà occidentale che Kenneth Clark descriveva come una serie continua di rinascimenti[11]. D’altra parte, come sottolinea Niall Ferguson, la novità non sta nel fatto che tutto quello che non è Occidente (the Rest) gli si opponga oggi come alternativa, ma che questo resto stia facendo un rapido download delle app[12] che caratterizzano l’Occidente (the West): non è un declino dell’Occidente che ha luogo, ma un’occidentalizzazione del mondo che è allo stesso tempo un nuovo divenire mondo dell’occidente[13]. Ora, questo si presenta come crisi ed è qui che bisogna pensare il ritorno della guerra totale (senza nessun determinismo)[14]. Niall Ferguson riprende Samuel Huntington, ma in termini differenti: non è il clash delle civiltà lo scenario nel quale stiamo entrando, ma il crash di una civiltà globale[15]. La minaccia aperta da parte di Vladimir Putin dell’uso dell’arsenale nucleare – con tanto di mobilitazione delle sue forze strategiche proprio all’inizio della sua invasione dell’Ucraina – confermano questo scenario caotico.


L’Ucraina ribelle

Intervenendo all’assemblea di Occupy Wall Street, Slavoij Zizek usò una barzelletta che descrive perfettamente il modo di funzionamento del dispositivo russo-sovietico: due amici si incontrano per salutarsi visto che uno di loro è stato condannato al gulag e si accordano affinché il deportato usi nelle sue lettere l’inchiostro blu per raccontare quello che realmente succede nei campi di lavoro forzato e l’inchiostro rosso per raccontare le bugie che il regime e la sua censura impongono. Pochi mesi dopo, uno degli amici riceve una lettera tutta scritta in blu: il deportato descrive il gulag come un vero paradiso dove non mancano né i beni di consumo, né i beni culturali. L’unica cosa che manca è l’inchiostro rosso[16]. Poco prima della caduta del muro, un amico francese che visitava Berlino Orientale chiese a un amico perché nell’edizione integrale delle «opere» di Rosa Luxemburg non c’era il volume della Critica della Rivoluzione russa e la risposta laconica fu: «Mancava la carta». La scarsità appare come il risultato e la causa di un sistema organizzato sull’abbondanza di menzogne, sull’impossibilità di aver il coraggio di dire la verità (che in russo, ironicamente, si dice pravda)[17].

Ma cosa diceva la critica luxemburghiana a Lenin? György Lukács ne criticò la pubblicazione postuma da parte di Paul Levi[18]. Lenin tentò neutralizzarla usando il famoso proverbio russo: «Le aquile (Rosa) possono abbassarsi al livello delle galline (i critici dei bolscevichi), ma le galline non possono volare con le aquile». Il mito di Rosa doveva essere rispettato, anche se – criticando il «disprezzo dei bolscevichi per la democrazia»[19] – si era abbassata al cortile delle galline. Il fatto è che la Luxemburg aveva colto perfettamente il nodo della deriva bolscevica: Lenin e Trotskij stavano imponendo un regime al di qua della democrazia rappresentativa (la dittatura del partito), mentre per lei si trattava di lottare per andare al di là della rappresentanza: criticare la democrazia liberale non significa farne a meno.

Quello che la Luxemburg aveva previsto sin dal 1918 in una cella di una prigione tedesca, poco prima di essere assassinata, trovò una terribile conferma nell’esperienza singolare di un militante dell’Industrial Workers of the World (Iww). Nato a Vilnius (in Lituania), Alexander Berkman era immigrato a New York nel 1888 (a 18 anni) dove partecipava alle lotte dell’operaio multinazionale americano. Nel 1892, dopo l’omicidio di undici operai durante uno sciopero a Pittsburgh, Berkman commise un attentato contro il mandante del massacro, il padrone della fabbrica. Arrestato, fu condannato a 22 anni di carcere. Scontati 14 anni di prigione, Berkman fu liberato nel 1906. Con la sua compagna, Emma Goldman, fonda la rivista militante «The Mother Earth». Nuovamente condannato a causa della sua militanza pacifista durate la Prima guerra mondiale, è rinchiuso con altri 249 militanti a Ellis’ Island. Alla fine del 1919 sono imbarcati nella U.S.T. Buford e deportati in Finlandia. In gennaio 1920 raggiungono San Pietroburgo dove si aspettano di vivere la «rivoluzione trionfante». Berkman incontra decine di rivoluzionari russi di tutte le tendenze e si riunisce con i più importanti bolscevichi[20], tra i quali Zinovev e Lenin[21]. Insieme alle delegazioni di partiti socialisti occidentali, viaggia per la Russia in una missione di raccolta di documenti per gli archivi della rivoluzione[22]. Il suo diario è così una fonte incredibile di notizie, impressioni e valutazioni sul periodo (1920-22) che vede la fine della guerra civile[23]: la dittatura bolscevica già presentava tutte le derive poi attribuite solo a Stalin. Sappiamo che è a Berkman che dobbiamo il racconto sull’infame massacro dei soviet e della città di Kronstadt da parte dell’Armata Rossa. Ma è nelle pagine dedicate al viaggio al Sud, cioè all’Ucraina, che troviamo la descrizione di tutte le caratteristiche di un regime che stava costruendosi come feroce continuità del colonialismo russo e allo stesso tempo della rivolta degli ucraini.

Cominciamo con le impressioni dell’arrivo a Kharkiv, città che oggi (aprile 2022) sta sulla linea del fronte della resistenza ucraina all’invasione russa: «Nelle istituzioni sovietiche e tra la gente (gli ucraini) in generale, si percepisce un clima fortemente nazionalista, addirittura sciovinista. Per gli autoctoni, l’Ucraina è l’unica e vera Russia, la sua lingua, cultura e costumi sono superiori a quelli del Nord (Russia). Sentono avversione al russo e sono infastiditi dalla dominazione di Mosca. L’ostilità ai bolscevichi è generale e l’odio della Ceka[24] universale. La politica del Cremlino consiste nel mettere i suoi uomini al comando delle istituzioni ucraine. Spesso, un intero convoglio di bolscevichi moscoviti è inviato per farsi carico di un dipartimento o di un ufficio. I funzionari, ignari della cultura e dei costumi locali, impongono i loro metodi (quelli di Mosca) e il risultato è il distanziamento dalla popolazione, anche dai comunisti (ucraini)»[25]. A Kiev, Berkman racconta l’incontro con un bolscevico ucraino: «L’Ucraina non è la Russia – il Centro commette un grande errore a trattarci come se lo fossimo». Ma Mosca se ne frega. «Vogliamo essere federati, ma non sottomessi. Siamo dei bravi comunisti, come quelli di Mosca, ma la nostra influenza qui sarebbe più grande se avessimo libertà di azione»[26]. Berkman, che è ebreo, commenta: «A poco a poco, per mia sorpresa e costernazione, in questo rancore per la dominazione di Mosca percepisco un franco antisemitismo»[27]. Un rabbino gli dice: «Sono i bolscevichi che sono responsabili dei pogrom: per i gentili, bolscevico è sinonimo di ebreo»[28]. Dopo avergli narrato gli orrori dei pogrom, il rabbino continua: «I pogrom dei bolscevichi sono silenziosi: la sistematica distruzione di tutto quello che ci è più caro: le nostre tradizioni, costumi e cultura, ci hanno assassinato come nazione». Sempre in Ucraina, Berkman visita un campo di lavori forzati: «L’aria è nauseabonda e soffocante, (si vedono) ombre di essere umani, i prigionieri (sono) apatici, troppo deboli per muoversi. (Regna) la fame e non ci sono medicine»[29]. Un altro militante rivoluzionario confermerà la realtà dei campi di concentramento sin dall’inizio del regime sovietico. Boris Souvarine parla di caserme operaie e più in generale di condizioni di sfruttamento difficilmente spiegabili agli operai dei paesi capitalisti[30]. «Il vero comunista ha la scelta tra il silenzio e la Siberia, (così) i campi di concentramento sono pieni di operai comunisti, anarchici, sionisti, migliaia e migliaia di condannati senza processo»[31]. Berkman sintetizza: il sistema sovietico-russo è fatto da «un labirinto di nuovi decreti» il cui funzionamento è incomprensibile: «code di ucraini supplicano davanti agli sportelli delle varie amministrazioni per fare domanda di un vestito, di un paio di stivali, di un “ticket” e ricevere come risposta: “non lo so”, “vai al prossimo ufficio”, “ritorna domani”». Il «pyok» (la tessera di razionamento) è già il simbolo dell’esistenza sovietica. Un altro rivoluzionario accorso dalla Francia per appoggiare la rivoluzione, Boris Souvarine, scriverà poco dopo: «l’Urss è costituita da una burocrazia mostruosa» e dalla più totale «assenza di legalità»[32].

L’Ucraina che Berkman visita nel 1921, 4 anni dopo la rivoluzione di ottobre, è già una terra ribelle: dai bolscevichi ucraini all’esercito anarchico di Machno, passando per il rabbino di Kiev, tutti vogliono resistere al nuovo regime di Mosca che appare come una versione ancora peggiore dello stesso colonialismo russo. Invece di costruire la democrazia, la dittatura bolscevica la riduce ulteriormente e, come a Kronstadt, l’autonomia operaia è annientata, i campi di lavori forzati (i gulag[33]) già erano il paradigma di un regime di produzione basato su un nuovo tipo do schiavitù. L’Ucraina ribelle che Berkman ci descrive è quella del 1921: non sono ancora arrivati gli anni Trenta, lo stalinismo e i milioni di morti di fame (Holodomor). Anne Applebaum ricorda che gli ucraini si sono ribellati anche negli anni Trenta contro lo Stato sovietico. La resistenza armata attraversava anche il partito comunista e Stalin rispose con una politica deliberata di confisca del cibo che costò la vita a 4 milioni di persone[34]. Come stupirsi che gli ucraini e milioni di soldati sovietici, nel 1941, vedessero l’invasore tedesco come liberatore[35]?

La migliore esplicitazione della questione della democrazia appare in un passaggio sicuramente poco letto del diario di Vassili Grossman. Membro dell’Accademia degli Scrittori Sovietici, Grossman è inviato sul fronte di «Stella Rossa», il giornale dell’Armata Rossa. Le sue corrispondenze esaltano le gesta dell’uomo d’acciaio, il soldato sovietico. È questa atmosfera apologetica che rende ancora più impressionante un commento che troviamo nelle pagine finali del suo diario. Grossman assiste a una riunione tra il comandante militare (sovietico) di Berlino occupata e il sindaco (tedesco). Il sindaco tenta di negoziare con l’occupante la remunerazione dei lavoratori mobilitati. Grossman, che viene dalla patria del socialismo, scrive strabiliato: «Di fatto, qui sembrano avere una nozione molto precisa dei loro diritti (del lavoro)!»[36]. Ossia, nessun lavoratore oserebbe difendere i suoi diritti nell’Urss. Ecco due dimensioni, per così dire, cibernetiche dello stalinismo come feedback di scarsità e schiavitù. Ma si tratta solo di stalinismo? Abbiamo visto che lo stalinismo è continuato durante la destalinizzazione e oggi riappare in dimensioni differenti dopo il breve periodo della perestroika e della glasnost. Nella periferia di Kiev, a Mariupol, i russi applicano la politica del terrore contro la popolazione, ripetendo quello che fecero con l’eccidio di migliaia di ufficiali polacchi nella foresta di Katyn, nella primavera del 1940, quando l’Urss occupava una parte della Polonia sulla base dell’accordo tra Hitler e Stalin (il patto Ribbentrop-Molotov) o la deportazione di decine di popoli (come, ad esempio, i tartari della Crimea)[37].

Putin è l’erede di questo sistema, ma con un cambiamento che possiamo cogliere ricordandoci di come Primo Levi aveva differenziato l’hitlerismo dallo stalinismo: mentre il secondo faceva quello che negava, il primo faceva esattamente quello che prometteva di fare[38]. Possiamo dire dunque che Putin è l’erede di questo sistema, però senza più compromessi con l’ideologia socialista che non siano quelli della disinformazione, appunto, nazional-socialista[39]. In questo senso, la Russia di Putin sembra smentire la critica che Aleksandr Solzenicyn rivolgeva all’occidente. Secondo Solzenicyn, gli intellettuali occidentali facevano l’errore di pensare che il problema non era il comunismo ma la Russia, mentre per lui era impossibile applicare la parola «russo» al governo dell’Urss: «i dirigenti sovietici sono estranei al loro popolo»[40]. Oggi, paradossalmente, solo la resistenza ucraina potrebbe mantenere una breccia aperta a quel che diceva Solzenicyn[41], ma in un orizzonte post-russo.


Il ritorno del fuori

Uno dei fenomeni più commentati è la nostra tendenza antropologica a pensare che il supporto di veicolazione di un simbolo ne costituisca l’essenza, il significato. È quello che succede con la moneta: pensiamo spontaneamente che il suo valore derivi dal suo supporto (il metallo prezioso) e quando il supporto è cartaceo, si pensa che comunque vi sia una riserva (un bel lingotto d’oro) che ne garantisca il valore. Una tendenza della stessa natura è di non riuscire a pensare la trasformazione sociale se non a partire da un modello alternativo, cioè da qualche tipo di trascendenza: un fuori che funzionerebbe appunto come una riserva di valore, un lingotto, un modello, sia che si tratti di un’utopia totalmente astratta, sia nel caso di un paese con determinate caratteristiche. Per molto tempo, questo fuori era costituito da tutto quello che stava oltre il muro. Potevamo pensare che la fede nell’Unione Sovietica, nonostante i milioni di morti prodotti dallo stalinismo e la mummificazione del paese durante l’impossibile destalinizzazione, fosse l’effetto d’attrazione esercitato dalla Rivoluzione di ottobre e dai suoi mausolei. L’appoggio diffuso alla Russia di Putin nella sinistra terzomondista (e non solo) conferma invece la forza di attrazione del fuori in quanto tale.

Prendiamo ad esempio cosa dice una delle antropologhe attualmente più di moda nel suo libro sui funghi e la fine del mondo: «La più prominente critica radicale – chiudendo gli occhi sulla diversità economica – sembra ancora più ridicola in questi tempi. La maggior parte dei critici del capitalismo insistono sull’unità e l’omogeneità del sistema capitalista; molti, come Michael Hardt e Antonio Negri, sostengono che non ci sono più spazi fuori dall’impero capitalista. Ogni cosa è comandata da una sola logica capitalistica». Tsing continua: «I critici che definiscono l’omogeneità della presa del capitalismo sul mondo vogliono rovesciarlo attraverso una solidarietà singolare. Ma che cecità questa speranza richiede! Perché, al contrario, non ammettere la diversità economica?»[42]. Non ci interessa qui discutere la lettura superficiale e sbagliata di Empire[43] da parte di Tsing, visto che Hardt e Negri non hanno mai negato la diversità di un capitalismo contemporaneo che si definisce proprio per la sua capacità di funzionare per mezzo della modulazione (o ibridizzazione) dell’eterogeneità, senza più bisogno di omogeneizzare il mondo attorno alle grandi funzioni industriali e al lavoro salariato. È del resto inutile suggerire all’antropologa di rivedere la sua critica di Hardt e Negri visto che loro stessi han finito per reintrodurre un fuori sotto forma della condanna del «capitalismo neoliberista e finanziario». Quel che ci interessa è vedere come una critica antropologica ancorata sulla catastrofe (la fine del mondo) ha bisogno non solo di uno, ma di molti fuori (chiamati «diversità»). L’alternativa non è una produzione di qualche cosa di nuovo, ma lo scivolamento morale verso qualche cosa che sarebbe dotato – non si sa perché – di uno statuto superiore: un lingotto, un gold standard.

Poco dopo la pubblicazione di Empire, pubblicai con Antonio Negri un libro sull’America Latina destinato a rispondere proprio ai critici che cercavano di mantenere la prospettiva del fuori[44]. Abbiamo così tentato una rottura radicale, neo-operaista, con le differenti varianti del terzomondismo: l’anti-imperialismo, lo sviluppismo e più in generale il «populismo» (o il «popolare»). In particolare, abbiamo cercato di mettere al centro dell’attenzione la doppia linea di costituzione della libertà: quella della lotta contro la schiavitù e quella delle migrazioni (internazionali e interne)[45]. La totale eliminazione del fuori è stata naturalmente uno scandalo insopportabile. Come nel caso dell’antropologa, il pensiero radicale ha bisogno di un fuori. La ricerca del fuori spiega l’amore per Putin o per la Cina, cioè per l’imperialismo russo (o cinese). Ma il pensiero radicale non spiega e non fonda le lotte. Le lotte non stanno fuori, molto semplicemente perché sono loro che costituiscono il mondo. La guerra è la distruzione delle lotte. Il problema principale dei bolscevichi è che il loro pacifismo era falso: anche loro facevano la guerra alle lotte e, sin dall’inizio, continuavano la repressione russa dell’Ucraina ribelle.


Geopolitica e realismo della ragion di Stato

Il fuori porta con sé la geopolitica e la sua cinica ragion di stato. Perché? Perché il fuori, contrariamente alle illusioni della Tsing, nega la diversità (interna) e afferma le diversità (esterne) tra insiemi che sarebbero omogenei: le super potenze, gli stati, le civiltà, i popoli, le economie. Il fuori è il quadro del clash tra le civiltà. Così, la Russia sarà la Russia, gli Stati Uniti, gli Stati Uniti e l’Ucraina, l’Ucraina. La Russia avrà così le sue «ragioni» geopolitiche di sostenere che il desiderio della grande maggioranza degli ucraini di aderire all’Unione Europea e disporre della protezione della Nato costituisce una minaccia per il suo «spazio vitale» (Lebensraum). A sua volta, gli Stati Uniti che difendono il diritto degli ucraini di decidere sul loro futuro (così come armavano i curdi di Kobane) saranno esattamente gli stessi Stati Uniti che realizzarono innumerevoli interventi militari in Iraq, Afghanistan ecc. L’ipocrisia si morde la coda mentre l’imperialismo russo massacra un paese intero, spargendo il terrore in tutta l’Europa tra gli applausi del terzomondismo e del pensiero decolonial. L’attivista siriana Leila Al Shami, già nel 2018, lo definisce come «l’anti-imperialismo degli idioti» che riducono l’imperialismo solo alle azioni degli Stati Uniti[46].

La sinistra riproduce così il modo di pensare dei teorici del potere o, meglio, delle superpotenze. Nessun bisogno di usare la propaganda putinista o di mobilitare le teorie dell’imperialismo nelle loro differenti versioni, basterà mobilitare i teorici – americani – del realismo offensivo nelle relazioni internazionali. Ecco, dunque, che l’intervista di John Mearsheimer funziona come la più grande legittimazione della guerra di Putin[47] così come la sua conferenza del 2015 (nella quale prevedeva i guai attuali dell’Ucraina) sarà la dimostrazione che il mondo è retto da relazioni di forza tra potenze e superpotenze dove non c’è spazio per nessuna preoccupazione etica o democratica. La critica si pretende materialista, ma è semplicemente cinica e, il più delle volte, solo ignorante. Inutile dire che la «previsione» del 2015 non dimostra assolutamente niente, poiché sono proprio queste «giustificazioni» che hanno prodotto – insieme con la propaganda russa – la guerra di Putin. Militanti e intellettuali «progressisti» si riempiono la bocca con le analisi e i concetti di Mearsheimer sulla logica delle superpower e le loro ineluttabili necessità. Quando interrogato sulle questioni etiche, Mearsheimer afferma che gli Stati Uniti sono cinici quanto i russi. Chiaro, il militante che si dice progressista non si preoccuperà delle nuances, e cioè del fatto che il teorico del neorealismo offensivo difende che si usino effettivamente questi metodi e queste politiche e cioè che si «capisca» l’imperialismo russo solo perché vuole che quello americano si riaffermi in questo modo davanti alle nuove sfide (che per lui si «riassumono» nell’emergenza della Cina, un competitor ormai capace di confrontare gli Stati Uniti da uguale a uguale). Mentre rivendicano la preoccupazione per la «complessità» della situazione, semplificano tutto, a cominciare dall’eliminazione dalle loro analisi, così come fanno i realisti e i neorealisti, dei processi democratici, in questo caso la volontà degli ucraini e delle moltitudini del lavoro metropolitano[48].

Nel suo più bel libro, Antonio Negri ricostruisce la storia molteplice della modernità e ne traccia un filo rosso alternativo, quello della metafisica maledetta che va da Machiavelli a Marx, passando per Spinoza. C’è un’altra modernità e questa è prima, costituente[49]. I paesi, i popoli, le culture, la scienza, non sono sistemi unificati e omogenei. Gli Stati Uniti di Biden non sono la stessa cosa di quelli di Trump e questi due non sono l’America dell’insurrezione di Minneapolis (nell’estate del 2020), che a sua volta non è l’invasione fascista del Congresso (il 6 gennaio del 2021). Come sempre e soprattutto come negli anni Trenta, i paesi democratici sono attraversati da poderosi movimenti autoritari e direttamente minacciati dai paesi dove governano nuovi (come in Russia) e vecchi (come in Bielorussia) tiranni. Il lavoro della democrazia è di attraversare queste linee (che non sono mai così nette) e inventarne nuove: evitando l’assoluto e allo stesso tempo rinnovando continuamente la sua potenza e per questo scappando dal flirt con l’assoluto che Negri difende, paradossalmente negando così tutto quel filo fatto di molteplicità ed esodo che lui stesso ricostruisce.

Maurice Merleau-Ponty ricorda che l’idea chiave del marxismo non è di sacrificare i valori ai fatti, la morale al realismo, ma di sostituire una moralità effettiva alla moralità verbale che precede la rivoluzione[50]. Il primo mese della nuova guerra ha mostrato che la rivoluzione sta dal lato della resistenza ucraina. Gli ucraini non accettano il ruolo che lo spartito progressista gli attribuisce e non sono una variabile passiva: da una parte, hanno fatto fallire i piani russi di occupare la capitale in pochi giorni per installarci un governo fantoccio; dall’altra, hanno stupito anche i paesi membri della Nato portando molti governi europei a uscire dall’attendismo. La lotta degli ucraini contro la schiavitù russa è plurisecolare, ma le sue condizioni sono state profondamente rinnovate dalla rivoluzione di piazza Maidan: le loro forze armate sono diventate capaci di esprimere il desiderio di resistenza così come gli ucraini dispongono oggi di un presidente che resiste al loro fianco[51].

Allo stesso tempo, quella dell’Ucraina è solo una battaglia di una guerra cominciata durante la repressione delle primavere arabe e che oggi passa a un altro livello, quello della guerra totale. L’origine di questa guerra sta forse nella grande crisi finanziaria del 2007-8. Ma non vi è nessun determinismo in tutto questo. Possiamo usare ancora Merleau-Ponty quando diceva: «la decomposizione del capitalismo può condurre il mondo non alla rivoluzione, ma al caos (e questo nella misura) in cui gli uomini non capiscono la situazione e non vogliono intervenire»[52]. Intervenire, oggi, significa stare con la resistenza ucraina, proprio nei termini che definisce Étienne Balibar: la resistenza ucraina è una guerra giusta e la «guerra giusta è una guerra della quale non basta riconoscere la legittimità dal lato di quelli che si difendono contro un’aggressione (criterio del diritto internazionale), ma nella quale bisogna impegnarsi affianco a loro; e è una guerra nella quale anche quelli (tra i quali io) per cui ogni guerra [] è inaccettabile o disastrosa, non hanno la scelta di rimanere passivi»[53]. Solo stando con il diritto alla resistenza si può continuare a pensare e sperare di capirci qualche cosa, umilmente ed eticamente.


Note [1] Sul cancelamento degli ucrani, vedi il bell’articolo di Pierliuigi Sullo, Il massacro della guerra e le ragioni della resistenza, «Volere la Luna», 29 marzo 2022. Disponibile in https://volerelaluna.it/opinioni/2022/03/29/il-massacro-della-guerra-e-le-ragioni-della-resistenza/. Vedi anche Simon Pirani, Is this monstrous war of aggression really between two equal sides?. Lettera in risposta al Manifesto against war, firmato tra gli altri da Sergio Bologna e Karl Heinz Roth e pubblicato in «End Notes», https://endnotes.org.uk/other_texts/en/sergio-bologna-rudiger-hachtmann-erik-merks-karl-heinz-roth-bernd-schrader-manifesto-against-the-war. [2] G. Deleuze – F. Guattari, L’anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris 1972, p. 210. [3] Cfr. J.L. Fiori, Mudanças a vista na geopolítica global, «Outras Palavras», 19 febbraio 2022, https://outraspalavras.net/geopoliticaeguerra/fiori-mudanca-a-vistana-geopolitica-global/; Boaventura de Sousa Santos, A Europa e a Guerra da Ucrânia. É de perguntar se quem tem vindo a criar perturbação nessa região do mundo é a Rússia ou os USA, «Sul21», 24 gennaio 2022, https://sul21.com.br/opiniao/2022/01/a-europa-e-a-guerra-da-ucrania-por-boaventura-de-sousa-santos/. Il fiancheggiamento latino-americano al fascismo putinista è descritto in N. Bourcier e al., Les accents pro-Poutine de la gauche latino, «Le Monde», 26 marzo 2022. [4] K. Clark, Civilisation. A Personal View (1969), Penguin, London 2005, p. 21; N. Ferguson, Civilization, Penguin, London 2011, pp. 302-303. [5] Citato da A. Fagot-Largeault, Ontologie du devenir. L’évolution, l’univers et le temps, Odile Jacob, Paris 2021, p.104. [6] W. Marx, Kiev appartient de plein droit aux rêves de l’Europe, mais on ne voudrait pas que Kiev n’existât que dans nos rêves : nous voulons aussi une Kiev réelle, une Kiev dans la réalité, «Le Monde», 17 marzo 2022. [7] Sul fascino della tradizione cinese e della sua «saggezza» (e non della rivoluzione maoista), basti leggere l’articoletto di Gabriele Battaglia, La guerra in Ucraina vista dalla Cina, «Internazionale», 21 marzo 2022. L’amore per la tigre russa (e quella cinese) non ha neppure bisogno di essere esplicitato. [8] Ad esempio, il governo della Bolivia (del Movimiento al Socialismo, MAS) si è rifiutato di condannare l’invasione russa, dando legittimità a un’invasione che – se non si salderà con la totale distruzione dell’indipendenza ucraina – tende a impedirgli l’accesso al mare. Ora, una delle grandi rivendicazioni della Bolivia è di riacquistare l’accesso al mare che perdette dopo la guerra che il Cile gli dichiarò (nel 1879, in occasione della guerra del Pacifico). [9] A. Toynbee, The World and the West, Oxford, 1953. trad. spagnola Aguilar, Madrid1953, p. 16. [10] J. Goody, Le vol de l’histoire, tradotto dall’inglese in francese da Fabienne Durand-Bogaert, Gallimard, Paris 2006, p. 19. [11] K. Clark, Civilisation, John Murray, 1969. [12] N. Ferguson, Civilization. The Six Killers Apps of Western Power, Penguin, London 2012, p. 11. [13] Interessante segnalare come Stephen Kotkin, recensendo Blood and Ruins. The Lsst Imperial War: 1931-1945, stabilisca uno stretto legame tra la riconquista britannica di Hong Kong (alla fine della Seconda guerra mondiale) e il formidabile sviluppo dela Cina post-maoista. The Cold War Never Ended. Ukraine, the China Challenge, and the Revival of the West, «Foreign Affairs», 2022. [14] Ferguson, Civilization, p. 306. [15] Ivi, pp. 314-315. [16] Riassunto libero, la trascrizione del discorso di Zizek, 10 settembre 2011, é disponibile in https://imposemagazine.com/bytes/slavoj-zizek-at-occupy-wall-street-transcript. [17] Ancora nel 1953, Michel Foucault si sforzava di credere all’ennesima tesi stalinista del complotto nel caso della persecuzione dei «medici ebrei» (nel 1952). In un’intervista con Duccio Trombadori spiega come lui e i suoi compagni, «si sforzassero di credere» a quello che i responsabili del Partito gli raccontavano. Il filosofo francese uscirà dal Pcf solo nel 1953, dopo la morte di Stalin e la smentita del complotto da parte dei successori impegnati nell’impossibile destalinizzazione. D. Trombadori, Entretien avec Michel Foucault, Paris fine 1978, in M. Foucault, Dits et Écrits, II, 1976, 1988, Quarto-Gallimard, Paris 2001, pp. 869-870. [18] Observaciones críticas a la Crítica de la Revolución Rusa de Rosa Luxemburg (1922), in R. Luxemburg, Crítica de la revolución rusa, traduzione in spagnolo di J. Aricó, Quadrata, Buenos Aires 2005. [19] Ivi, p. 80. [20] I curatori della pubblicazione del libro forniscono in nota una breve biografia delle decine di personaggi ed è un’esperienza verificare come la stragrande maggioranza finirà assassinata nelle varie purghe staliniste. [21] Lenin gli chiederà di tradurre in inglese il suo libro sull’estremismo. Proposta che Berkman rifiuta. [22] Sugli archivi e l’Urss, cfr. A. Stanziani, Les entrelacements du monde. Histoire Globale, Pensée globale, Cnrs, Paris 2018. [23] A. Berkman, El mito Bolchevique. Diario 1920-1922, La Malatesta, Madrid 2013. [24] Polizia politica bolscevica. Il nome è l’acronimo di Comitato straordinario di tutta la Russia per combattere la controrivoluzione e il sabotaggio. [25] Berkman, El mito Bolchevique, cit., p.149. [26] Ivi, p.194. [27] Ivi, p.195. [28] Ivi, p.199. [29] Ivi, p. 175. [30] B. Souvarine, La Russie nue (1929), Ivrea, Paris 1997, p. 54. [31] Ivi, p. 75. [32] A. Berkman, El mito Bolchevique, cit., p. 258. [33] Vale la pena ricordare che gulag è l’acronimo di G(lavnoe) u(pravlenie) lag(erej), «direzione generale dei campi (di lavoro)». Sui gulag, oltre al celebre Arcipelago gulag, vale la pena leggere V. Chalamov, Récits de la Kolyma, Maspero, Paris 1980. Tutti questi libri circolavano nell’Urss in forma samizdat (clandestinamente). [34] A. Applebaum, Nous devons faire preuve d’une plus grande imagination contre les Russe, intervista di Marc Olivier Bherer, «Le Monde», 23 marzo 2022. [35] Nei primi sei mesi dell’invasione scatenata nel 1941 dai tedeschi, l’Armata Rossa perse 5 milioni di uomini, dei quali 45.000 ufficiali: chiaramente, l’esercito non combatteva e interi reggimenti si arrendevano al nemico. Cfr. J. Lopez – L. Otkhmezuri, Joukov. L’homme qui a vaincu Hitler, Perrin, Paris 2013, p. 41. La collaborazione iniziale di parte degli ucraini con i tedeschi durò poco e diventò resistenza contro le due occupazioni. Timothy Snyder spiega: «La guerra era l’unica speranza degli ucraini di aiuto per liberarsi dal dominio sovietico» (The Red Prince, 2008). Se la collaborazione con i tedeschi nella Seconda guerra mondiale dovesse funzionare come giustificazione di un’invasione russa, pensiamo a cosa «dovrebbe» succedere con la Francia o l’Italia. [36] A. Beevor – L. Vinigradova, Un escritor en guerra. Vasili Grossman en el Ejercito Rojo, 1941-1945, Critica, Barcelona 2006, p. 410. [37] O. Khlevniuk, Stalin: New Biography of a Dictator, Yale University Press, Yale 2015. [38] Mykola Riabtchouk scrive che «la Russia di oggi è largamente prefigurate dalla coalizione rosso-bruna dell’inizio degli anni Novanta, e Putin non ne è che l’incarnazione, la quintessenza dello spirito (imperiale) nazionale», La création de Frankenstein, «Desk Russie», 25 marzo 2022, disponibile in https://desk-russie.eu/2022/03/25/la-creation-de-frankenstein.html. Ricordiamo che l’attuale invasione dell’Ucraina è molto simile a quella, ordinata da Stalin, della Finlandia, nel 1939. [39] Qui, la lettura di Timothy Snyder è importante: Ivan Ilyin, Putin’s Philosopher of Russian Fascism, «The New York Review of Books», 16 marzo 2018. [40] L’erreur de l’occident, tradotto dal russo in francese da N. Struve – G. Johannet – J. Johannet, Grasset, Paris 1980, pp. 33-34. [41] Su questo tema, si veda Jil Silbertstein, Voyages em Russie absolutiste, Noir sur Blanc, Paris 2022. In una prospettiva differente, vedi A. Kolesnikov, Quand une nation est sourde, muette et aveugle, Marioupol et Boutcha deviennent possible, «Le Monde», 13 aprile 2022. Sul rapporto tra Urss e Russia, Loris Campetti vede una grande rottura da parte di Putin con l’eredità leninista, Stalin e Ivan il Terribile: le bugie della guerra, «Volere la Luna», 15 marzo 2022. [42] Anna Lowenhaupt Tsing, The Mushroom of the End of the World. The possibility of life in capitalist ruins, Princeton, Princeton, 2015. p. 65. Traduzione de corsivi nostri. [43] Empire, Harvard 2000. [44] GlobAL: Biopotere e lotte in una America latina globalizzata, Manifestolibri, Roma 2006. [45] Usando come fonte di ispirazione il grande libro di Y. Moulier-Boutang, Le salariat bridé, PUF, Paris 1999. [46] Anti-Imperialismo of Idiots, blog de Leila Al Shami, 14 aprile 2018, disponibile in https://leilashami.wordpress.com/2018/04/16/el-antiimperialismo-de-los-idiotas/. Vedi anche L. AL Shami, La resistance d’Idlib, «Lundi Matin», 14 novembre 2019, disponibile in https://lundi.am/La-resistance-d-Idlib. [47] I. Chotiner, Why John Mearsheimer Blames the U. S. for the crisis in Ukraine, «The New Yorker», 1 marzo 2022, disponibile in https://www.newyorker.com/news/q-and-a/why-john-mearsheimer-blames-the-us-for-the-crisis-in-ukraine. Per una critica, vedi A: Tooze, Johen Merasheimer and the Dark Origins of realism, «The New Statesman», 8 marzo 2022, disponibile in https://www.newstatesman.com/ideas/2022/03/john-mearsheimer-and-the-dark-origins-of-realism. [48] Un esempio di analisi «realista» scritta nel calore della prima fase dell’invasione russa, che include riferimenti ai rischi di guerra nucleare si trova in E. Ashford – J. Shifrinson, How the War in Ukraine Could Get Much More Worse. Russia and the West Risk Falling into a Deadly Spiral, «Foreign Affairs», 8 marzo 2022. Curiosamente, un blog di sinistra americano mobilita lo stesso realismo: bisogna lasciare gli ucraini ala mercé dei russi per evitare il peggio, vedi A. Jaffe – Z. Levenson – V. Wills, A Hunger Within the US Left for ‘Action’on Ukraine is Driving US Astray, «Truthout», 14 aprile 2022, disponibile in https://truthout.org/articles/a-hunger-within-the-us-left-for-action-on-ukraine-is-driving-us-astray/?eType=EmailBlastContent&eId=240ba158-3526-4fe7-8657-57b540a4eade. [49] Potere Costituente. Le alternative della modernità, Sugar&Co, Milano 1992. [50] Sens et non-sens, Gallimard, Paris 1966, p. 196. [51] Per un’analisi libertaria della rivoluzione della dignità di piazza Maidan e della guerra che la Russia cominciò subito dopo, vedi War and Anarchists: Anti-Authoritarian Perspectives in Ukraine, disponibile in https://de.crimethinc.com/2022/02/15/anarchistes-et-guerre-perspectives-anti-autoritaires-en-ukraine. [52] Merleau-Ponty, Sens et non-sens, cit., p. 100. [53] É. Balibar, A resistência ucraniana é uma guerra justa, trad. dal francese al portoghese di A. Martins, «Uninomade Brasil», https://uninomade.net/tenda/etiene-balibar-a-resistencia-ucraniana/.

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