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L’interno della rivoluzione. Mario Tronti e la «rivoluzione politica paolina» (II)


Immagine di Roberto Gelini

È piuttosto complesso definire il rapporto che lega, perlomeno dagli anni Novanta, la riflessione di Mario Tronti all’interpretazione di San Paolo. Michele Garau, in questo articolo di alcuni anni fa, affronta un tale compito con un impegno preliminare nell’indagine su una costellazione di categorie che possiede per l’autore straordinaria importanza: quella che annoda il terreno politico, specialmente rivoluzionario, alla dimensione della trascendenza e a quella della profezia. Pubblichiamo qui la seconda parte del testo.


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Per un’antropologia possibile, oltre l’etica signorile

Proviamo ora a ritornare sulla traiettoria del pensiero di Tronti in merito al fondamentale nodo del problema antropologico, misurando le intuizioni del pensatore con un altro autore misconosciuto e originale. Di particolare interesse risulta infatti il dialogo postumo con uno studioso appartenente al mondo cattolico, molto dissimile nelle soluzioni teoriche ma accomunato a Tronti da un campo tematico profondamente affine: Franco Rodano. Questi coniuga la propria visione religiosa con un’adesione atipica e creativa alle tesi del marxismo, reinterpretate nella prospettiva di una critica della società opulenta incentrata sul rapporto tra l’uomo e la natura, la mediazione trasformativa del lavoro e i bisogni. Tale itinerario concettuale viene elaborato da Rodano attraverso le lezioni tenute tra il ’68 e il ’69 nell’istituto che dirigeva insieme a Claudio Napoleoni, davanti a un pubblico composto in buona parte da giovani partecipanti al sommovimento rivoluzionario che agitava il paese.

L’intento di Rodano in queste lezioni, raccolte nei due volumi intitolati Lezioni su servo e signore[1] e Lezioni di storia possibile[2], muove dal ricostruire come una primigenia visione «animalistica» dei bisogni umani, incentrata sulla mera sussistenza fisica e sul lavoro come attività degradante ma necessaria, sia stata superata attraverso un processo di trascendimento puramente negativo rappresentato dalla genesi e affermazione dell’assetto signorile. Se l’iniziale atteggiamento antropologico, attestato su una limitazione radicale della sfera dei bisogni, precipita l’uomo in una condizione di stallo che minaccia di arrestarne lo sviluppo storico, quello del «signore» è una superamento basato sulla mera negazione, in quanto perpetua lo stigma posto sul lavoro, la sua relegazione a un livello animale, indegno della natura umana, ma per converso riconosce quest’ultima in una minoranza sociale che al lavoro si sottrae completamente, sfuggendo al limite del bisogno e alla fatica della relazione trasformativa con il dato naturale. L’orizzonte antropologico costruito dal sistema signorile nella propria funzione egemonica, quindi nella sua capacità di rispondere a una spinta verso il progresso storico, valorizza unicamente la tensione verso l’assoluto e l’illimitato, in contrapposizione alla condizione creaturale dell’uomo, caduca e naturale. Tale orientamento antropologico si sarebbe conservato, pur attraverso molteplici e parziali rotture con l’etica signorile, lungo tutto il corso storico che passa per la civiltà cristiana, l’affermazione della borghesia, il capitalismo e l’odierna società opulenta. Sotto questo profilo la posizione di Marx sarebbe stata tra le poche, insieme a quella di Paolo, come vedremo, a respingere radicalmente le figure del lavoro e dell’uomo appartenenti all’ideologia signorile. Tuttavia la critica di Marx permane, secondo Rodano, dentro la cornice di un’accettazione delle categorie fondamentali di tale soluzione antropologica, proprio in quanto interpreta il lavoro come negativo puro e mira a ristabilire un rapporto immediato tra l’uomo e la natura come suo corpo inorganico, uno stato di libertà assoluta. Questi debiti del pensiero marxiano, particolarmente evidenti negli scritti giovanili quali i Manoscritti economico-filosofici, lo conducono a un’istanza incondizionata e quindi astorica di uguaglianza, che nel proprio rigetto del limite risulta omogenea a quella del «signore», differenziandosene unicamente per il carattere di universalità: «L’universalità è radicalmente critica dell’antropologia signorile, non c’è dubbio. La mette in crisi, la sfalda al suo interno, la scinde e la fa man mano a brandelli. Ma la supera? Per superarla non basta la critica di quell’idea di uomo che fonda il signore; ci vuole un’altra idea di uomo[3]». Questo spiega d’altronde il «ditirambo della classe borghese» che Marx formula nel Manifesto, attribuendo alla classe emergente la realizzazione di un’attività produttiva superiore, volta non più al consumo e alla sussistenza, ma al solo accumulo.

Una medesima matrice pregiudica allora i due punti di vista che avrebbero potuto costituire un’alternativa alla linea di sviluppo storico per come ci è nota: l’idea di rivoluzione elaborata da Marx e il kerigma cristiano. Entrambi i messaggi risultano infatti, secondo la genealogia critica di Rodano, piegati al compromesso con l’idea di uomo che continua a essere dominante, con il disprezzo per la determinazione storica e la tensione verso l’assoluto:


Questa tensione nasce infatti – per i credenti come per i non credenti – nel convincimento che il limitato, il definito, il caratterizzante siano negatività, e che quindi, sul piano esistenziale, non vi possono essere dignità e bellezza della condizione dell’uomo come essere determinato. Quando avviene ciò, allora lo sbocco nella tensione all’assoluto è inevitabile. Qui il discorso deve essere chiaro: fino a che voi considerate che il limite sia negatività, un simile sbocco è fatale, è giusto, è insuperabile. Questo sbocco è la moderna e marxiana idea della rivoluzione[4].


Prima ancora del marxismo è infatti il cristianesimo ad affermare un’universalizzazione dell’uguaglianza assoluta che è certo profondamente eterogeneo e addirittura incompatibile con il dominio e il sistema di valori degli aristoi, ma non permette la transizione positiva a una società completamente diversa, senza residui del sistema precedente. Proprio perché la ricezione del messaggio cristiano lo riduce al contenuto della libertà e uguaglianza assolute, essa ha piuttosto favorito il passaggio dall’assetto signorile a quello borghese, che a sua volta consiste per Rodano in una generalizzazione dello stato servile.

È proprio a questo proposito che entra in gioco la peculiarità della visione paolina, nonché la particolare relazione tra la condizione «creaturale» degli uomini e lo stato di grazia, riservato ai predestinari dall’elezione cristiana, in essa contenuta. Queste due forme di dignità, che si intrecciano al duplice tipo di uguaglianza concepito da Paolo, sono esemplificate in diversi passi delle Lettere. Da una parte c’è la Lettera ai Galati, nella quale abbiamo già osservato l’annuncio di un’uguaglianza che risulta fondamentale e assoluta, la cui ricaduta è un immediato annullamento di ogni differenza sociale e ruolo stabilito, mentre dall’altro lato ci sono numerosi altri punti (Lettera agli Efesini, Lettera ai Filippesi, Lettera a Filemone) in cui si trova traccia di un’uguaglianza fondamentale ma non più assoluta, che appare quindi adeguata alle condizioni storiche presenti:


(…) questo secondo tipo unicamente fondamentale di uguaglianza discende dal primo, non solo, quali che siano i suoi limiti, ha già in sé (proprio per la tensione che gli deriva da tale sua radice religiosa) una carica dirompente, ma è espresso da San Paolo attraverso una serie di termini che non possono non mettere in crisi, e radicalmente, quantomeno l’organicità del sistema signorile. Definire «carnali» i padroni di questa terra, è già in qualche modo (soprattutto, poi, nel quadro della mentalità cristiana) una decapitazione dei padroni stessi, dei signori. E così, affermare con assoluta esplicitezza che vi è un unico «Padrone» nei cieli, e che egli non è «accettatore di persone», ossia che non guarda al prestigio sociale, è una tremenda frustata a una società che si reggeva essenzialmente sulla dignità e sui valori di una gerarchia sociale determinata[5].


In queste righe Rodano si riferisce alla Lettera agli Efesini, dove Paolo afferma che la servitù verso i padroni «carnali», è sempre mediata nella comunità dei fedeli dall’obbedienza verso Cristo, in virtù della quale si rimane storicamente legati al padrone, vincolati a rapporti terreni di diseguaglianza, e le differenze sono mantenute seppure il loro fondamento sia profondamente intaccato. La tesi del pensatore è quella per cui Paolo riserverebbe il messaggio assoluto dell’uguaglianza a un dominio puramente religioso, attraverso il passaggio della «predestinazione», mentre soltanto il secondo genere di emancipazione, quello fondamentale, può conoscere una piena realizzazione storica e politica. Questo nodo è riportato da Rodano, e poi da Tronti nella sua interpretazione, all’avversione di Paolo per qualsivoglia ipotesi di una rivolta anarchica di schiavi, che riteneva inevitabilmente latrice di conseguenze disastrose, come d’altronde era già accaduto:


La tensione apocalittica, anche quella paolina, si stempera (vedi l’esempio della lettera a Filemone circa la sorte dello schiavo Onesimo) e dunque si corregge nella ricerca delle vie pratiche per realizzare, qui e ora, le condizioni dell’eguaglianza possibile. Ed ecco la domanda: ci poteva essere a quel tempo una rivolta di schiavi? Quella di Spartaco finì con «migliaia e migliaia di uomini sulla croce». E non semplicemente per questo esito, la risposta è no, non si potevano fare rivolte servili. «Per meglio dire, non era possibile, al tempo di Paolo, una rivolta di servi vittoriosa e costruttiva». Non si può avere una simile rivolta, se non si è in grado di sostituire la classe dirigente[6].


È significativo come Rodano ricolleghi tale distinzione tra i due volti della libertà cristiana al problema della «predestinazione», proiettandone il significato sul tema moderno del rapporto tra avanguardia e masse nella storia dei movimenti emancipativi. Anche il ricorsivo riferimento a Bakunin e ai teorici dell’anarchismo, che in contrapposizione a Marx avrebbero espresso una concezione dell’uomo univocamente omogenea all’assoluto dell’autoaffermazione signorile, non è privo di valore come indice della volontà, da parte dell’autore, di collocare le proprie riflessioni su un terreno concretamente politico di dialogo tra gli studenti. Rimane inoltre da considerare l’attenzione di Rodano per la controversa Lettera a Filemone, in cui l’invito di Paolo a riaccogliere lo schiavo Onesino come fratello viene interpretato come ulteriore indizio di un’autonomia storica della comunità cristiana, in cui l’uguaglianza fondamentale tra i fedeli realizza immediatamente una sospensione delle gerarchie vigenti, prima che possano essere universalmente abolite.

Occorre dunque collocare la riflessione di Rodano entro il progetto esplicito di giustificare filosoficamente, di fronte a un uditorio di studenti «estremisti», i fondamenti della politica ufficiale del «Movimento operaio», sia nel solco del suo sviluppo storico che nelle sue espressioni contemporanee: in altre parole il Pci. A tal proposito risulta emblematico il parallelo tracciato dall’autore tra la concezione paolina della libertà cristiana, che subordina l’assolutezza all’immediata universalità della comunità apostolica come suo luogo d’elezione, e la concezione leninista dell’avanguardia. Quest’ultima viene però estesa indebitamente da Rodano fino a includere un certo gradualismo riformista, nonché la considerazione pragmatica dei «limiti storici» elevata a strategia dalle sinistre parlamentari.

Mi pare che in Rodano si possa però rintracciare, nell’ottica di una politica rivoluzionaria a venire, la consapevolezza dell’importanza di quanto è mondano e «terrestre»: da un lato c’è infatti l’abbandono di quell’universalismo illuminista e di quella fiducia nel progresso storico che gravano anche su alcuni presupposti dell’opera marxiana, dall’altro l’approfondimento del terreno soggettivo, etico e spirituale, come dimensione decisiva per una politica comunista. Il mutamento di prospettiva, dall’economia politica a una nozione di spiritualità rivoluzionaria, profondamente materiale e corporea, può allora spiegare l’interesse di Tronti per un autore come Rodano e il loro ravvicinamento qui proposto.

In effetti pare che la proposta teorica trontiana, nonché il suo rapporto con Paolo di Tarso, abbia un nesso con la dimensione storico-politica molto più problematico e ambiguo di quanto l’autore non vogli ammettere. Pur confrontandosi con problematiche puntuali e interrogativi del presente, lo sguardo dell’autore sul volto interno del politico, sul suo lato spirituale e profetico, mostra i tratti di una critica del moderno che, nonostante le dichiarazioni d’intenti, sconfina talvolta nel campo di un antimodernismo dai tratti aristocratici.

L’utilizzo della teologia per rifondare il politico, per ripensare una sua spiritualità, pare infatti risolversi spesso in una scelta di resistenza interiore, che identifica correttamente terreni di lotta negletti ma li abbandona, in nome di una strana divaricazione tra radicalità della teoria e un realismo della pratica dal sapore rinunciatario e solipsistico. Dalle pagine di Tronti insomma, insieme ai molti spunti di vivo interesse che si è tentato di evidenziare nel corso dello scritto, ci pare compaia un taglio netto e arbitrario nel messaggio paolino, laddove il profilo «catecontico» e conservativo sembra cancellare quello messianico, di accelerazione della fine dei tempi, così puntualmente sottolineato da Taubes o dal più recente lavoro di Agamben[7], ma anche la suggestiva dimensione militante affrontata da Badiou[8]. Questi limiti non stemperano tuttavia il modo potente e radicale con cui Tronti pone le forme di vita, il loro impoverimento etico e spirituale, come campo di battaglia decisivo del presente e posta in gioco dei conflitti a venire: «Perché spiritualità? Ma perché il capitalismo ha fatto il deserto all’interno dell’uomo, ha reciso le radici dell’anima nella persona: questo è un grande motivo-culturale-di conflitto, una forma politica nuova di lotta, che nessuna delle poche forze anticapitalistiche rimaste agita»[9].



Note [1] F. Rodano, Lezioni su servo e signore. Per una storia postmarxiana, Editori Riuniti, Roma 1990 [2] F. Rodano, Lezioni di storia «possibile», Marietti, Genova 1986 [3] Ivi, p. 41 [4] Ivi, p. 83 [5] Rodano, Lezioni di storia «possibile», cit., pp. 26-27. [6] Tronti, Il sorriso di Sara, in Con le spalle al futuro, cit., pp. 148-149. [7] G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000. [8] A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli 1999. [9] M. Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 224.


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Michele Garau è assegnista di ricerca all’Università di Torino. Il suo lavoro di ricerca è concentrato in particolare sulle genealogie di una politica anticapitalista estranea alla tradizione del movimento operaio e socialista, sul fenomeno delle rivolte urbane e sulle relazioni tra pensiero post-metafisico e critica rivoluzionaria, privilegiando il concetto di «destituzione» come lente interpretativa.

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