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L'intelligenza in lotta

Su Hans-Jürgen Krahl



L’intelligenza in lotta è il titolo di alcuni testi di Hans-Jürgen Krahl, tratti da Costituzione e lotta di classe del 1971, di recente riproposti dalla casa editrice ombre corte. In questo articolo Mimmo Sersante non si limita a una recensione del nuovo volume, ma ripercorre i tratti centrali del pensiero e della prassi del militante tedesco, il suo atipico rapporto con la Scuola di Francoforte, le grandi anticipazioni contenute nelle riflessioni sul ruolo nella produzione contemporanea dell’intelligenza tecnico-scientifica, la sua ricezione nel contesto politico italiano, le assonanze e le divergenze con la costellazione operaista. Per scoprire e riscoprire che delle letture di Krahl c’è ancora oggi bisogno per addentrarci nei caotici enigmi della composizione di classe.


Immagine: Sergio Bianchi


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Se non un déjà vu, certamente un-già-visto questa riproposizione da parte di ombre corte – titolo: L’intelligenza in lotta. Sapere e produzione nel tardo capitalismo – di taluni scritti di Hans-Jürgen Krahl tratti da Costituzione e lotta di classe, l’edizione italiana di Konstitution und Klassenkampf del ’71 e prontamente tradotto in italiano dalla Jaca Book. Eravamo nel ’73 e la casa editrice affiliata a Comunione e Liberazione da qualche anno non mancava di stupire i compagni con le sue proposte editoriali come quella che ospitava per l’appunto Krahl: Saggi per una conoscenza della transizione. Qualche nome e qualche titolo, tanto per ricordare: S. Amin (L’accumulazione su scala mondiale), P. Naville (I rapporti di produzione nelle società socialiste), E. Preobrajensky (La nuova economia), H. Jaffe (Processo capitalista e teoria dell’accumulazione), C. Bettelheim (Pianificazione e sviluppo accelerato) e poi Althusser, Flechtheim, Serge, finanche Bachelard ecc. Con una premessa che mi piace ricordare: «Ogni tendenza alla citazione, da parte di chi legge o usa un testo definendolo “classico”, è deleteria e avvilente se non diventa confronto e verifica con la propria esperienza e la propria pratica». Credo che Sante Bagnoli, il suo fondatore, era ai compagni che pensasse. E senza fingimenti di sorta. A quei nomi e a quei titoli gli Editori Riuniti – ce lo ricorda Piperno con la sua sferzante ironia nel suo godibile ’68 di qualche anno fa – preferivano le Opere complete del compagno Ceaușescu oppure, si parva licet, quelle cosiddette «scelte» del compagno Togliatti.

Leggo Costituzione e lotta di classe nel ’73, fresco di studi crociani in quel di Chieti, ma con alle spalle quattro anni buoni di lotte studentesche in facoltà e di intervento sulle piccole fabbriche del neonato polo industriale di Chieti Scalo nella Val Pescara. Lo leggo a Pordenone con la curiosità di chi si è lasciato alle spalle l’università e ha in testa solo la grande fabbrica. Tanto per smaltire l’insufflata storicista, in verità una croce pesante che una volta che te la sei caricata in spalla, fai fatica a scrollartela di dosso. Quella di Krahl porta il nome di Teoria critica, che mal sopporta e il cui fardello tenta di alleviare con il ricorso a Marx, Bloch, Lukács, Sartre, Merleau-Ponty. In questione era il rapporto – anche per lui! – tra teoria e prassi in un momento in cui, tra il ’68 e il ’70, la fase antiautoritaria del movimento studentesco tedesco si concludeva e nuove istanze partitiche e organizzative cominciavano a manifestarsi al suo interno. Di quella storia sapevo qualcosa raccogliendo qua e là notizie dai giornali oppure riferite da quanti, i più curiosi tra noi, viaggiavano tra Chieti, Berlino e Francoforte in Cinquecento o, i più fighetti, in Citroën 2Cv., spesso deviando per Torino. Occupavano la scena delle assemblee con i loro racconti, non ultimo quello dell’occupazione a Francoforte dell’Istituto per la Ricerca Sociale da parte degli studenti seguito dallo sciopero attivo del ’68-69. Lo ricordo bene perché anche nel libro in questione a un certo punto se ne parla. I racconti riferivano di Rudi Dutschke il rosso, l’agitatore delle masse, e solo di sfuggita di Krahl, la testa pensante del movimento.

Anche qui due ricordi si fanno strada: l’eco dell’attentato al primo nell’aprile del ’68, seguito da un’oceanica assemblea interfacoltà all’Aquila con l’assalto alla sede del quotidiano «Il Tempo», il nostro Springer; una più sommessa manifestazione a filosofia dopo la notizia della morte in un incidente di macchina di Krahl nel ’70. Perché nel frattempo qualcosa in più sul personaggio si era venuto a sapere grazie a quella autobiografia politica pronunciata in tribunale in occasione di un processo nel ’69 che i compagni tedeschi avevano reso pubblica immediatamente e qualcuno dei nostri aveva provveduto a tradurre in tempo reale. Cosa mi aveva colpito è presto detto: l’istanza etica che l’attraversava da cima a fondo e senza la quale una praxis degna di tal nome risultava ai nostri occhi, allora, impensabile. Quanto al tema del tradimento di classe, averlo posto in quei termini, di lotta al sistema, era musica per le mie orecchie perché non potevo non condividere l’idea della morte dell’individuo borghese. Piuttosto non mi convinceva la vaghezza circa l’elaborazione del lutto, soprattutto quell’appello insistito alla coscienza umana, quel riferimento all’esperienza mediata per via intellettuale. E qui capivi perché Lukács e Bloch capitavano a fagiolo. Di altro tenore era la nostra esperienza – mia e degli altri studenti di quella piccola e decentrata facoltà – che andava maturando davanti ai cancelli delle fabbrichette in rivolta e nei picchetti delle giovani operaie in sciopero. E non per un bisogno di solidarietà ma perché non credevamo di poter agire in quanto «intellettuali e privilegiati al posto della classe operaia e iniziare, in qualche modo, una rivoluzione per l’umanità, senza distinzioni di classe». Per dare un’idea del problema voglio ricordare il libro pubblicato dalla Feltrinelli proprio nel maggio del ’68, La ribellione degli studenti, con un saggio di Dutschke dal forte impianto terzomondista. Quanto di più lontano dal mio/nostro modo di intendere il ruolo del Movimento studentesco.

A luglio di quello stesso anno «Quaderni piacentini» pubblicava il diario di viaggio di Sergio Bologna e Giairo Daghini in Francia. Questa volta a fare la corsa erano gli operai della Renault con gli studenti a seguire con affanno; quel cours camarade, le vieux monde est derrière toi! era dalle lotte alla Rhodiaceta di Besançon che si levava alto nel cielo, non già dal Vietnam di Giap e dal Perù del Mir. Sì, dalla defaticante lotta operaia nei reparti, quella di sempre, con i suoi alti e bassi, che sicuramente una cosa la mostrava: che non era vera la tesi di Krahl e Dutschke che la classe operaia dell’occidente capitalistico era integrata nel sistema per via del suo incatenamento alle forme più elementari di soddisfazione dei bisogni. A contatto diretto con le camiciaie della valle mi dicevo che piuttosto era vero il contrario, che bastava guardare alla lotta sul salario e contro i ritmi con un occhio diverso, per loro che erano tedeschi con quello di Roth e dei suoi che da lì a poco avrebbero pubblicato in Germania Die «andere» Arbeiterbewegung. Krahl con la sua fine intelligenza ne avrebbe tenuto conto almeno per riconsiderare il suo distacco e la sua estraneità rispetto alla classe operaia in carne ed ossa.

Dunque, finalmente nel ’73 ho la possibilità di leggerlo e di scoprirlo; e mi capita in un momento molto delicato perché l’euforia per i ripetuti successi ottenuti in fabbrica dal nostro operaio massa andava ormai affievolendosi. Proprio l’occupazione «armata» di Mirafiori nel marzo di quello stesso anno sarà il suo canto del cigno. Se l’avessi scoperto qualche anno prima, al tempo dell’autunno caldo, l’avrei giudicato inattuale rispetto alle esigenze di quel momento; attuale invece ora, al punto che lo stesso titolo italiano, che poi traduce alla lettera quello originale di Konstitution und Klassenkampf, mi sembrava riproponesse all’ordine del giorno il problema, in verità mai risolto, della nuova composizione di classe in quanto soggetto rivoluzionario. Attribuivo a Konstitution/ Costituzione lo stesso significato che lo storico inglese Thompson assegnava nel ’69 al participio presente «the making» nel suo The Making of the English Working Class: il farsi, il costituirsi. Certamente una forzatura considerando l’indicazione dello stesso Krahl a riferire la dottrina della costituzione alla teoria della conoscenza. Eppure, anche in questo caso in questione era la classe operaia, posta non a caso al centro della riflessione in quanto oggetto misterioso e però meritevole e di attenzione speculativa e di una presa di posizione pratica. Quanto a noi, a soccorrerci era la chiarezza del nostro linguaggio politico formatosi lungo gli anni Sessanta; era da allora che dibattevamo di composizione tecnica e politica ben sapendo di cosa si parlava grazie alla pratica consolidata dell’inchiesta e della conricerca. Quando leggo dell’invito di Krahl ai suoi di rivedere il concetto di classe proprio dell’Sds perché circoscritto al solo proletariato industriale mentre il lavoro intellettuale si integra sempre più nel lavoratore complessivo, afferro il suo senso che però mi diventerà più chiaro solo dopo, quando dovremo vedercela un po’ tutti con la diatriba apertasi sul libro di Negri Proletari e Stato. Devo dire però di non avere mai confuso il lavoratore complessivo di Krahl con l’operaio sociale, trovando nel primo tracce evidenti di hegelo-marxismo à la Lukács. Il che non mi ha impedito di apprezzarne la carica anticipatrice presente ad esempio in questo passaggio che traggo dall’Intervento a un teach-in del semestre invernale 1969/70, assente nell’edizione di ombre corte:


«Tutti gli scioperi spontanei che possono scoppiare nella Rft o alla Fiat di Torino non riusciranno minimamente a modificare il fatto che il proletariato industriale come tale è soltanto un momento dell’intera classe e non la rappresenta nella sua totalità. E solo se teniamo presente questo, può nascere la domanda: se il lavoro intellettuale è sempre più integrato nel lavoratore produttivo complessivo, che cosa separa il lavoro intellettuale dal lavoro fisico (il dualismo, infatti, è conservato in tutto il suo rigore), che cosa separa l’intellighenzia scientifica dal proletariato industriale e, ad esempio, dagli strati produttivi degli impiegati, visto che non si tratta più del classico dualismo fra i portatori della civiltà borghese e il proletariato in senso classico che svolge un lavoro fisico?»


Credo che nel nostro caso il ritardo fosse duplice, certamente di composizione organica di capitale ma anche culturale per via del retaggio operaista anni Sessanta che avevamo alle spalle. Come altrimenti spiegarci il profluvio di pubblicazioni sull’operaio massa che per tutto il nuovo decennio continuò a inondare il mercato politico dell’antagonismo sociale? Le ricerche storiche pubblicate dalla nuova collana Materiali marxisti della Feltrinelli ci mostravano un Novecento segnato dal protagonismo dell’operaio massa, tanto luminoso e pervasivo da impedire di coglierne per l’appunto la fine. Alla comprensione di una nuova composizione di classe operaia alludeva invece Krahl col suo concetto gnoseologico di «costituzione». Personalmente – ma certamente non ero il solo – ammaliato dalla lettura dei saggi della nuova collana curata non a caso da Bologna e Negri, risalivo il tempo della storia ritrovando, ahimè, la vita. Almeno fino al ’77, il prezzo che gli operaisti duri e puri come il sottoscritto avrebbero pagato, sarebbe stato quello di uno sguardo straniato sul presente.

Decisamente più abbordabile la pars destruens di Costituzione e lotta di classe. Un chiaro esempio di quella presa di partito in filosofia teorizzata in quegli anni (1969) da Althusser che leggeva Lenin filosofo e che la Jaca Book prontamente ci aveva offerto su un bel piatto d’argento nella sua collana Saggi per una transizione della teoria. Una specificazione, quest’ultima, di non poco conto. L’intelligenza in lotta ce ne offre una cernita, quanto basta per capire quale fosse la pratica filosofica di Krahl. «Presa di partito» e «pratica filosofica» non appartengono ovviamente al linguaggio francofortese del Nostro, ma tant’è; ognuno dispone di una griglia di lettura sua e quella althusseriana era a quei tempi la mia. E in effetti è con piglio leninista che Krahl assale Habermas, reo ai suoi occhi di aver lanciato l’accusa di fascismo di sinistra al movimento di cui nulla aveva capito. In più – ancora Krahl – Habermas deforma la visione del movimento nascondendo i contenuti emancipativi delle sue forme di azione nemiche del compromesso. Habermas è il filosofo adorniano del compromesso, sopprime la dialettica tra rapporti di produzione e forze produttive, revoca il concetto di prassi in senso marxiano per dispiegarlo ermeneuticamente nella rete delle comunicazioni quotidiane. Siamo «al calco idealistico della prassi materialistica», dice Krahl. Dove ci porta tutto questo è presto detto: «all’ingenua proclamazione dell’unità di teoria e prassi nella strategia di un’alleanza liberale». Stessa sorte Krahl riserva al padre padrone della Teoria critica, Adorno, di cui sarebbe stata sufficiente la riproposizione di questo passo tratto da Autorità e rivoluzione, assente nel nostro testo:


«È forse più opportuno discuterne come della questione della teoria. Qui voglio soltanto riassumere il problema attraverso un aneddoto: quando, mezz’anno fa, assediavamo il consiglio dell’università di Francoforte, come unico fra i professori, il signor Adorno venne dagli studenti nel sit-in. Fu colmato di ovazioni, si diresse in linea retta verso il microfono e, a poca distanza da esso, deviò nel seminario di filosofia; a un passo dalla prassi, ritornò alla teoria. Questa è in fondo la situazione attuale della Teoria critica. Essa razionalizza la sua rassegnata paura sottilmente individualistica della prassi affermandone l’impossibilità, la necessità di ritirarsi nel guscio della filosofia».


Ne L’intelligenza in lotta possiamo leggere invece il contributo di Krahl in occasione della sua morte, s’intende di Adorno, e non solo per coglierne la vis iconoclasta che a suo tempo avevo molto apprezzato avendo noi tutti il Pci contro fin dal ‘68. Grazie a Krahl, riuscivo a spiegarmi il parossismo del suo linguaggio che raggiungerà, come sappiamo, l’isteria nel ’77. Francofortese era la nuova leva colta cresciuta nel partito tra Pisa e Roma e rimasta nel partito, con in testa i Quaderni di Gramsci e i Minima moralia di Adorno letti in tedesco. I Mussi e i D’Alema per intenderci – quadri della mia generazione – che come nuovi sinistri accompagneranno Berlinguer negli anni Settanta. Non diversamente da Adorno, a un passo dalla prassi – ché tutto attorno a loro era in sommovimento – trovarono riparo sicuro a Botteghe Oscure. Evidentemente il loro anticapitalismo aveva lo stesso sapore della «negazione adorniana della società tardocapitalistica» di cui parla Krahl: astratto e chiuso anch’esso «all’esigenza della determinatezza della negazione». Adorniano anche il segretario? Scherzi a parte, verrebbe da pensarlo considerando il peso della tragedia cilena nell’elaborazione del compromesso storico. «Sappiamo, come mostra ancora una volta la tragica esperienza cilena, – scriveva Berlinguer su «Rinascita» nel ’73 – che questa reazione antidemocratica tende a farsi più violenta e feroce quando le forze popolari cominciano a conquistare le leve fondamentali del potere nello Stato e nella società». La stessa paura del fascismo che aveva attanagliato per tutta la vita Adorno impedendogli – è la tesi di Krahl – che «il mutamento strutturale della classe proletaria entrasse a fare costitutivamente parte della sua teoria critica». La stessa cecità mostrata dalla strategia del compromesso storico nei riguardi delle trasformazioni in atto in quegli anni nel corpo della nostra classe operaia.

Durante gli anni Ottanta Costituzione e lotta di classe resta confinato nel suo ripiano di libreria tra le Categorie del «politico» di Schmitt e i Paradigmi per una metaforologia di Blumenberg (perché poi proprio lì, non saprei dirlo; evidentemente, e considerando i tempi, era saltata la bella regola aurea del buon vicino). Per dieci anni, confesso, non ne ho avuto bisogno. Inattuale la rivoluzione e ripiegata in se stessa l’intelligenza. Mi scuote dal torpore il numero 1 di «Luogo comune» del ’90 che propone, accanto al tema del general intellect di Marx, la riflessione di Krahl sul «ruolo dirimente nella produzione contemporanea» dell’intelligenza tecnico-scientifica. A seguire, sarà la volta di «Futuro anteriore» n. 5 del ’96. Anche in questo caso è un compagno dal trascorso autonomo, Maurizio Lazzarato, a farsi carico della spiegazione del perché questi stralci tratti da Costituzione e lotta di classe: perché Krahl ripropone la centralità del soggetto operaio nel nuovo processo di produzione in cui fa capolino per la prima volta il linguaggio in un ruolo affatto costitutivo. «Penetrazione della soggettività nel processo di produzione», la chiama. Per Lazzarato, niente di più e niente di meno di una nuova teoria della rivoluzione. Due anni dopo è Marco Bascetta a curare per la manifestolibri una nuova silloge dal titolo Attualità della rivoluzione. Due i testi su cui Bascetta insiste, presenti anche nell’edizione curata da N. Martino e F. Raparelli per ombre corte: Tesi sul rapporto generale tra intelligenza scientifica e coscienza di classe proletaria e Produzione e lotta di classe. In particolare è nel primo testo che troviamo quei principi strategici utili per pensare la nuova teoria della rivoluzione. Una boccata d’ossigeno che rende l’aria un tantino più respirabile per quanti, chez nous, in quei mesi e in quegli anni si rifiutavano di accettare il nuovo ordine liberista. E in effetti la composizione di classe delle nostre tute bianche e dei nostri disobbedienti non era dissimile dalla figura a tutto tondo di cui si parla nelle Tesi a proposito del «lavoratore produttivo complessivo e di intellighenzia scientifica». Il suo movimento, auspicava Krahl, «deve diventare il teorico collettivo del proletariato». E poi quel cenno in Produzione e lotta di classe alle «rivoluzioni proletarie» (sì, al plurale). Solo un cenno per riprendere in mano il tema della rivoluzione proposto al movimento nel ’67 con Marx: «Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850» e che non potrà sviluppare per l’improvvisa morte. La tesi è che in Marx non c’è questa idea di rivoluzione proletaria che in molti invece danno per scontata. Le rivoluzioni dal 1830 al 1871 «storicamente non sono eventi creati dal proletariato, ma circostanze già date dalla borghesia». La borghesia le ha prodotte e il proletariato semplicemente le ha trasformate. Di suo, di originalmente suo, il proletariato di cui parla Marx non ha creato un bel niente il che spiega anche perché dopo la Comune «Marx non sappia più dire alcunché sulla teoria della rivoluzione». Dunque, il problema della rivoluzione è solo un problema dell’oggi. In compagnia di Krahl da qualche anno ho cominciato a tematizzare la rivolta.

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