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L’anticomplottismo liberale




Complottismo è diventato termine ampiamente utilizzato negli ultimi anni. In questo articolo Tobia Savoca ripercorre la sua genealogia, evidenziando come si tratti di un fenomeno studiato da tempo secondo una visione liberale, che lo riduce a semplice deficit cognitivo individuale. L’attenzione mediatica si concentra sui complottisti, descritti come «utili idioti». L’autore sostiene che solo un approccio materialista del fenomeno permette di andare alla radice di questioni e conflitti che proprio il lessico complottista mistifica.


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Una definizione liberale

Il modo di studiare e guardare oggi al complottismo è vittima di una visione liberale della società. Dagli anni Cinquanta il complottismo è visto o come patologia cognitiva – una sorta di distorsione della ricostruzione della realtà – o come anomalia logica. Il complottismo avrebbe a che fare con uno scorretto uso degli strumenti che portano o meno alla conoscenza e alla «verità». Chiameremo questo approccio «cognitivista».

Il complotto in realtà era già stato studiato da Machiavelli e Burckard e considerato come uno strumento dell’agire sociale e politico. Il Principe poteva ricorrere al complotto per raggiungere i suoi fini. Nell’Ottocento si inizia a vedere il complotto diversamente, non tanto come modo di agire nella realtà politica, o di spiegarla. Con l’avvento dell’onnipotente Stato moderno, infatti, si pensava che i complotti non potessero che fallire, lo Stato li avrebbe scoperti e repressi. Anzi si pensava che soltanto lo Stato fosse in grado di complottare, e quindi nasce la prima idea di un deep state, uno Stato profondo, nascosto, che opera dietro le quinte.

La vera svolta si ha negli anni Cinquanta quando si va affermando proprio l’approccio cognitivista. Richard Hofstadter e Karl Popper affrontano e definiscono il complottismo in un modo che ancora oggi ci influenza enormemente: le cause del complottismo sarebbero un problema individuale. La prima definizione di teoria del complotto viene infatti da Popper. È fondamentale ricordare il contesto: siamo all’inizio della Guerra fredda, Popper è un liberale. Per lui gli individui sono e devono essere lasciati liberi di agire spontaneamente, lo Stato deve garantire funzioni minime.

Per Popper la «teoria complottistica della società» [1] è quell’idea che vede qualsiasi evento come il diretto risultato delle intenzioni di potenti gruppi o individui. Ritiene questa idea sbagliata non solo perché questo risultato diretto tra intenzioni ed evento sarebbe difficilmente provabile, ma soprattutto perché ritiene che la società non sia così facilmente manipolabile, regolabile, pianificabile con tale precisione. Risulterebbe difficile spiegare la società attraverso i complotti, perché il risultato non è mai scontato e calcolabile: non sempre l’intenzione si traduce in evento. Pur non negando la loro esistenza, egli ritiene che buona parte dei complotti falliscano. Da buon liberale, rifiuta l’idea di una scienza sociale che possa prevedere i risultati intenzionali delle azioni, anzi ritiene che la «buona scienza sociale» dovrebbe occuparsi di indagare le conseguenze non intenzionali delle azioni.

Rintracciare la nascita della definizione di complottismo potrebbe sembrare inutile storiografia del concetto, invece è un elemento chiave per capire il fenomeno e come si sono approcciati fino a poco tempo fa gli studiosi. La posta in gioco è infatti ideologica e politica: affermare l’impossibilità che il «complotto abbia successo», quindi calcolare le azioni degli altri con precisione, significherebbe affermare che la pianificazione sociale ed economica sia possibile ed efficace. Popper, insieme all’amico von Hayek, padre e riferimento del neoliberismo odierno, sostengono esattamente il contrario. La pianificazione appartiene ai cattivoni del mondo sovietico e all’intervento statale nell’economia di cui i liberisti sono ferventi oppositori. Per loro la società e il mercato devono essere lasciati liberi di agire, perché «le istituzioni umane nascono dalle azioni umane, ma non sono il frutto dell’umano progettare: il linguaggio, il mercato e il diritto sono il frutto di un lungo processo evolutivo nel corso del quale le azioni intenzionali provocano continuamente effetti inintenzionali, dando vita a un ordine spontaneo» [2].

Chiaramente si tratta di una visione politica ben precisa, che vuole restringere il più possibile spazi di discussione politica sull’ordine esistente. La società è così e non ci possiamo fare niente, non possiamo pretendere di cambiarla, né con la politica, né coi complotti. Per questo motivo gli studi odierni sul complottismo, influenzati da queste prime definizioni, suggeriscono il debunking [3], il fact-checking e la rieducazione cognitiva come ricetta per risolvere il fenomeno del cospirazionismo: il problema riguarda lo sguardo che individualmente le persone portano sul mondo. Tanto che per gli studiosi dagli anni Cinquanta a oggi il complottismo sarebbe un modo di conoscere difettoso, un’«epistemologia zoppa» [4] o una «distorsione cognitiva» [5]. Per questo le critiche e le analisi sono rivolte ai complottisti e raramente al fenomeno in sé. Poveri imbecilli questi complottisti! Ma in fondo non si potrebbe dire lo stesso per la religione e le ideologie? Sarebbe forse una buona ragione per considerare chi vi crede come un povero scemo da correggere?


Siamo tutti complottisti?

L’approccio cognitivista ha dei limiti evidenti, sia nella soluzione del problema, che nella sua visione della società. Anzitutto nessuno è escluso dalla tendenza a ricostruire delle versioni di come sono andate le cose. I bias cognitivi sono meccanismi insiti nella mente umana. Siamo insomma «tutti un po’ complottisti»: trasformare le informazioni in base alla propria visione del mondo e trovarsi solidali con chi è d’accordo è fisiologico. A maggior ragione se viviamo in un’epoca di infodemia, ovvero una circolazione di una quantità eccessiva di informazioni di cui non è facile vagliare l’attendibilità delle fonti.

L’approccio cognitivista è anche piuttosto arrogante. Sostiene che alcuni pensano correttamente e altri in maniera difettosa. Non è proprio così. Le ricerche recenti hanno portato a risultati piuttosto contraddittori quando hanno cercato di individuare un profilo tipo del complottista secondo variabili socio-demografiche (età, sesso, categorie socio-educative) e tratti della personalità[6]. L’infodemia recente su pandemia e guerra ci ha dato la misura di quanto sia difficile per chiunque barcamenarsi in questo sovraccarico di notizie, tweet, video. A meno che viviate di certezze, chi negli ultimi due anni non ha avvertito uno spaesamento nella lotta tra tifoserie, ognuna pronta a esibire prove su tutto e il contrario di tutto?

Inoltre l’approccio cognitivista è insufficiente per ragioni politiche, esso è in sé escludente e autoritario: stabilita a monte una verità, sarebbe facile dare del complottista a chiunque non la pensi così. Imposta un’ideologia o una religione portatrice di verità, qualsiasi visione alternativa sarebbe vista come deviante. Chiunque potrebbe sostenere di possedere lo spirito critico mancante agli altri per validare le fonti alla base delle proprie tesi. L’atteggiamento patologizzante e denigratorio non permette né di capire perché nasce il complottismo né, tantomeno, di risolverlo.

Le ragioni dell’insufficienza dei rimedi è del debunking o fact-checking, e nella rieducazione del complottista sono varie. Alcuni studiosi si sono illusi insomma di curare i sintomi, ma non le radici del problema. Anziché portare alla ragione il complottista, il fact-checking lo radicalizza nelle proprie posizioni, risultando controproducente: qualsiasi prova o fonte non gradita dal complottista verrebbe bollata come «verità ufficiale» e come parte del complotto a cui opporre una «verità alternativa»; specularmente qualsiasi opinione non gradita al potere politico viene bollata come «complottista». Specchio riflesso!


Come risolvere il rompicapo?

Non ci ritroviamo in questa situazione per caso. E se non affrontiamo i problemi sociali ed educativi, quindi politici, che contribuiscono a generare le condizioni su cui si fonda il complottismo, resteremo solo sulla superficie del fenomeno. Se il complottismo fosse soltanto un problema personale ed educativo, di alfabetizzazione funzionale, basterebbe fornire alla scuola gli strumenti finanziari adeguati per combattere questo fenomeno, anziché continuare a procedere con progressivi tagli e precarizzazione, secondo il mantra delle politiche neoliberali. Neoliberali toh! Proprio quelli che vedono come padre fondatore Van Hayek. Coincidenze? Direbbe un complottista. Anche volendo dare per buona l’idea che sia solo un problema di educazione si giungerebbe comunque alla questione politica.

Se pensiamo che l’educazione debba «curare» il complottismo, dovremmo quindi investire nell’educazione, pensando che possiamo intervenire nella società. Ma questo è esattamente il contrario di quello che sostengono i neoliberali, per i quali non ci devono essere regole, ma solo libertà totali, di pensare, di agire, di comparare, di investire nel settore privato beninteso. Se vogliamo migliorare la società – che i neoliberali sostengono che non esista – dobbiamo fornire a tutti gli strumenti per capire la realtà. In una società in cui soltanto alcuni capiscono cosa succede e «ragionano correttamente», non siamo in grado di capirci. Secondo questa ideologia non importa che vi sia una comunità interpretativa, intesa come presupposto che permette alla società di capire la realtà e di capirsi sulla base di comuni regole. A decidere ci pensano gli esperti.

Partiti, ideologie, persino le religioni, società civile, associazioni, famiglie permettono la diffusione e la condivisione di visioni del mondo in cui poter collocare eventi e concetti in un sistema di idee e valori. Atomizzati e sradicati, siamo sempre meno all’interno di quella comunità interpretativa che permette di discutere, di convincersi, di condividere. Ci informiamo da soli, ognuno schiavo delle proprie «bolle di filtraggio autoreferenziali» [7]. Così facendo non esercitiamo un controllo sull’informazione, la subiamo, assorbendo narrazioni. Soltanto una comunità interpretativa può esercitare un controllo o una messa in discussione delle verità proposte dai media mainstream o alternativi che siano.


Dal fallimento delle utopie al Metaverso diversivo

Come la fantascienza provava a immaginare futuri distopici e quindi a criticare la società che gli scrittori vivevano, e la letteratura del Novecento ci raccontava di un uomo estraniato ed alienato, oggi la letteratura complottista immagina un mondo manipolato da forze oscure e imbattibili. Le teorie del complotto sono «letteratura dell’uomo contemporaneo» che vive in un mondo in cui, come diceva la Thatcher, non c’è alternativa al capitalismo e al liberalismo. In quanto esseri umani contemporanei, postmoderni, non ci sentiamo di far parte della Storia, o perché si pensa che la Storia sia finita come sostengono i neoliberali (Fukuyama) o perché si ritiene che la Storia sia scritta da chi vince, e che sia quindi tutto sommato un complotto (arrivando sino al negazionismo storico). Avendo integrato la dura realtà di non contare nulla e di essere spossessati della nostra agency [8], le teorie del complotto ci ricompensano con una storia («s» minuscola questa volta), una narrazione e ergono ognuno a protagonista illuminato della ricerca della verità da rivelare. Le teorie del complotto sono così un Metaverso diversivo di narrazioni che permette una fuga, un’alternativa rispetto ad una realtà apparentemente condannata all’immutabilità.

L’egemonia dell’ideologia neoliberale, attraverso la cancellazione dell’ordine dei discorsi di idee e valori alternativi, rende impliciti e quindi occulti i presupposti di ogni discorso politico: paure, conflitti, rivendicazioni. Il complottismo nasconde tutto ciò attraverso narrazioni diversive.

È dunque possibile interpretare le teorie del complotto come simboli di condizioni materiali che le persone soffrono. Si usano simboli perché la mente di esseri umani disumanizzati, disorientati, depoliticizzati e mal equipaggiati ad affrontare delle catastrofi o dei cambiamenti, elabora gli eventi in maniera non esplicita. Narrazioni simboliche che devono essere lette, partendo dalle condizioni economico-sociali, in maniera antropologica, politica, esistenziale e non di mera distorsione cognitiva. Il complottismo deve quindi essere inteso come il risultato di «diseguaglianze metabolizzate psicosocialmente» [9]. Questi miti, opportunamente analizzati, svelano significati che hanno la forma delle rivendicazioni che da decenni affliggono l’uomo moderno.

Esse hanno un gusto prettamente paternalistico che vuole distrarre dall’analisi economica e sociale della realtà. Richiamano l’atteggiamento di chi non subisce l’ordine politico esistente e deride le masse perché non possiedono il controllo teorico di quelle che in realtà dovrebbero essere intese, se correttamente interpretate, come possibili rivendicazioni. La politica del debunking e della rieducazione cognitiva ci dice che in fondo i complottisti debbano adattarsi (altro mantra neoliberale). L’assetto economico politico non deve essere modificato, anche se genera il malessere e le paure che fanno «ammalare» i complottisti. In pratica oggi si afferma che, piuttosto che riformare un assetto sociale ingiusto e inumano, occorre riformare le nostre menti. Non si vuole discutere se la politica possa pianificare ed organizzare la società, ma della capacità delle persone di capire la società e gli eventi. Si colpevolizza il cittadino di non capire. Semplificando, e forse banalizzando, i complottisti sarebbero quindi dei pazzi a piede libero da riformare, da rieducare.

Anzi il sistema è doppiamente perverso: prima si creano le condizioni sociali, economiche e culturali che determinano il complottismo che, in quanto tentativo di spiegazione, potrebbe essere visto come una forma di adattamento-scissione in cui, affermando un’Altra narrazione della verità, nega sia la realtà che le proprie responsabilità. Ma una volta riconosciuto come «deviante», al complottista si chiede anche di riadattarsi alla verità tramite il debunking.

Riappropriarsi dell’interpretazione materialista della realtà e dei fenomeni, permette di tradurre ogni diversione complottista in conflitto e quindi in questione politica che individua i reali responsabili dei fenomeni storici.




Note [1] Cfr. K. Popper, The Open Society and Its Enemies, vol. 2, Routledge, London 1945. [2] https://www.treccani.it/enciclopedia//friedrich-august-von-hayek_(Dizionario-di-filosofia)/. [3] Demistificare, confutare, smascherare tesi antiscientifiche. [4]«Epistemologia zoppa» è il modo in cui alcuni studiosi hanno definito il complottismo, un modo di conoscere sbagliato, difettoso. C.R. Sunstein – A. Vermeule, Conspiracy Theories: Causes and Cures, The Journal of Political Philosophy: Volume 17, n.2, Blackwell, 2009, pp. 202-207. [5] Cfr. R. Brotherton, Menti sospettose, Bollati Boringhieri, Torino 2017. [6] https://www.afis.org/Y-a-t-il-un-profil-type-du-complotiste. [7] La filter bubble sarebbe, secondo Eli Pariser, l’ambiente in cui l’algoritmo dei social ci costringe a visualizzare solo contenuti a noi affini (E. Pariser, The Filter Bubble, What internet is hiding from you, The Penguin Press HC, New York 2011). [8] Facoltà di determinare gli eventi, di far accadere le cose. [9] B. Surace, L’altro volto del complotto in AA.VV., I volti del complotto, FACETS Digital Press, Torino 2021, p.121.



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Tobia Savoca, palermitano, è laureato in Lettere e in Giurisprudenza in Italia dove si è abilitato alla pratica forense, e laureato in Storia in Francia, dove attualmente insegna. Scrive di storia, politica, società ed educazione. Ha collaborato con «Jacobin Italia» e «Pressenza».

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