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L’ammortamento del corpo-macchina (prima parte)






Nella riflessione che abbiamo avviato sui «decenni scomparsi» e sui concetti con cui si è tentato di leggere la transizione capitalistica e la sua crisi, ha un ruolo importante l’ipotesi dell’emergenza di un «modello antropogenetico», un modello cioè di «produzione dell’uomo attraverso l’uomo». Tale ipotesi è affrontata e discussa da Christian Marazzi in questo potente saggio, pubblicato nel volume collettaneo «Reinventare il lavoro» (Sapere 2000, 2005). Lo ripubblichiamo in due parti con una nuova introduzione dell’autore, che si concentra sul corpo della forza-lavoro, nell’ibridazione tra umano e macchinico.


La fine del fordismo nel corso degli anni Settanta è contrassegnato da una profonda modificazione della composizione di classe, dal passaggio dall’operaio-massa all’operaio sociale. La fabbrica perde gradualmente la sua unità spazio-temporale e si diffonde sul territorio locale e globale. In questo passaggio storico, il lavoro vivo, che nei Grundrisse di Marx era destinato a diventare la «base miserevole del valore», esce dal perimetro della fabbrica per trasformare la società intera in luogo di produzione di valore. Dalla fine del lavoro si passa alla vita messa al lavoro. Nel saggio che segue ho cercato di indagare un aspetto di questa metamorfosi del rapporto tra capitale e lavoro, il passaggio del «general intellect» marxiano dal corpo del capitale fisso, separato dal lavoro vivo, al corpo vivo della forza-lavoro. Il lavoro vivo e il lavoro morto del capitale macchinico, questa la tesi centrale, si fondono nel corpo della forza-lavoro, come se ci fosse un divenire macchina dell’uomo e un divenire umano della macchina. Questa nuova composizione tecnica della forza-lavoro divenuta capitale fisso rappresenta l’occasione teorica per investigare una questione mai risolta nella teoria del valore-lavoro di Marx: l’impossibilità logica di ammortizzare il capitale fisso. Questa aporia della teoria marxiana, simile a quella assai più nota della trasformazione del valore in prezzi di produzione, ricorda Nietzsche quando scrive che «la logica è bensì indistruttibile, ma non resiste all’uomo che vuole vivere». Il corpo-macchina della forza-lavoro non può essere ammortizzato sulla base della teoria del valore di Marx, ma proprio qui si annida la resistenza del lavoro vivo, la sua lotta per la liberazione del corpo da suo destino capitalistico. (C.M.)


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Una delle caratteristiche del nuovo capitalismo è la perdita di importanza del capitale fisso, della macchina nella sua forma fisica, quale fattore di produzione di ricchezza. «L’economia, almeno in termini fisici, si sta contraendo. Se l’era industriale si caratterizzava per l’accumulazione di capitale fisico e di proprietà, la nuova era privilegia forme intangibili di potere, raccolte in pacchetti di informazione e di capitale intellettuale. I beni materiali, ormai è un fatto assodato, si stanno progressivamente smaterializzando» (Rifkin 2000, p. 41). Tra gli effetti tangibili di questa rivoluzione tecnologica vi è l’alleggerimento della massa di beni prodotti e consumati. Nuovi e più leggeri materiali di costruzione, miniaturizzazione, sostituzione del contenuto fisico con l’informazione e ruolo crescente dei servizi, sono tutti fattori che contribuiscono simultaneamente alla perdita di fisicità di quanto l’economia produce.

Rispetto al capitalismo industriale, la novità risiede nel fatto che «la dimensione immateriale dei prodotti prevale sulla loro realtà materiale; il loro valore simbolico, estetico o sociale sul loro valore d’uso pratico e, beninteso, sul loro valore di scambio, che cancella» (Gorz 2003, p. 35) [1]. Dal punto di vista del capitale fisso, la novità sta nel fatto che oggi la conoscenza, separata da ogni prodotto nel quale è stata, è o sarà incorporata, può esercitare in sé e di per se stessa un’azione produttiva sotto forma di software; può, in altre parole, svolgere il ruolo di capitale fisso, diventando in tal modo una sorta di «macchina cognitiva», sostituendo lavoro immagazzinato a lavoro vivo, semplice o complesso che sia (Stewart 2002).

La «perdita di peso», strategico oltre che fisico, degli strumenti di produzione, il trasferimento dei fattori produttivi dagli asset fisici a quelli immateriali, la dematerializzazione dello stesso spazio lavorativo, la sostituzione dell’investimento in beni capitale con il noleggio di macchinari, sono una conseguenza della diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) e dello sviluppo di forme di organizzazione a rete dei modi di produrre. Una percentuale crescente di imprese prende ormai in affitto il capitale fisso materiale (edifici, impianti, macchine, mezzi di trasporto) piuttosto che esserne proprietaria. «Use it, don’t own it» è il nuovo credo imprenditoriale. «Questa esternalizzazione della produzione e del capitale fisso materiale – scrive ancora Gorz – non è un semplice prolungamento della produzione snella (lean production) e del reengeneering degli anni novanta. Non si tratta più soltanto di ridurre il tempo di circolazione del capitale il più drasticamente possibile eliminando gli stock e tutto il personale stabile a eccezione di un nucleo. Si tratta ora d’imporre una nuova divisione del lavoro non solo tra prestatari di lavoro ma tra partners subappaltatori della ditta madre che assume verso di loro il ruolo sovrano: essa li costringe, mediante la revisione permanente dei termini contrattuali, a intensificare continuamente lo sfruttamento della loro manodopera» (2003, p. 35).

La divisione del lavoro risultante dalla ricombinazione strategica dei fattori di produzione, con l’aumento di importanza dei knowledge workers, da una parte, e la permanenza di quote importanti di lavoro non qualificato e sottopagato, dall’altra, spiega gran parte delle trasformazioni della natura e del mercato del lavoro intervenute nel corso degli ultimi due decenni [2]. La dematerializzazione del capitale fisso e il trasferimento delle sue funzioni produttive e organizzative nel corpo vivo della forza-lavoro, è anche all’origine di uno dei paradossi del nuovo capitalismo, ossia la contraddizione tra l’aumento d’importanza del lavoro cognitivo, produttivo di conoscenza, quale leva della ricchezza e, contemporaneamente, la sua svalorizzazione in termini salariali e occupazionali (Florida 2003, 2005).

Il ruolo delle Tic e delle imprese internettiane (le start up dotcom) è stato sicuramente sopravvalutato negli anni del boom della new economy, soprattutto se si ricorda che le trasformazioni principali dei modi di produrre (just-in-time, zero-stock, outsourcing, produzione snella) precedono l’espansione del settore delle nuove tecnologie della seconda metà degli anni Novanta e, storicamente, coincidono con l’attacco capitalistico alla classe operaia fordista che prende avvio all’inizio degli anni ottanta con le politiche liberiste anglosassoni. Tuttavia, l’ultima fase di sviluppo-crisi del capitalismo post-fordista, segnata dalla crisi finanziaria del 2000-01 e dalla entrata sulla scena globale della potenza economica di paesi come la Cina e l'India, ha impresso una svolta decisiva al regime di crescita economica mondiale.


Il modello antropogenetico emergente

Non è un caso se dopo la crisi dei mercati finanziari, in cui la sopravvalutazione dei beni intangibili delle imprese quotate in borsa aveva raggiunto livelli del tutto irrazionali, si è parlato dell’emergenza di un modello antropogenetico per quanto riguarda i paesi economicamente sviluppati, un modello cioè di «produzione dell’uomo attraverso l’uomo» in cui la possibilità della crescita endogena e cumulativa è data soprattutto dallo sviluppo del settore educativo (investimento nel capitale umano), del settore della sanità (evoluzione demografica, biotecnologie) e di quello della cultura (innovazione, comunicazione e creatività). «Se dovessimo azzardare una scommessa sul modello emergente dei prossimi decenni, probabilmente è alla produzione dell’uomo attraverso l’uomo che dovremmo far riferimento ed esplorare sin da subito il contesto istituzionale che ne permetta l’emergenza, specialmente per i paesi europei» (Boyer 2002, p. 192).

La metamorfosi capitalistica verso il modello antropogenetico o, se si preferisce, la «svolta biopolitica» dell’economia, ha un preciso riscontro quantitativo nell’evoluzione dell’occupazione della forza-lavoro. Negli ultimi dieci anni il declino secolare del settore manifatturiero rispetto al settore dei servizi subisce un’accelerazione. Non si tratta solo di una diminuzione del numero di posti di lavoro industriale relativamente all’aumento della popolazione attiva (fenomeno che è in corso sin dall’inizio del Novecento), si tratta di un calo in termini assoluti che a partire dal 1996 negli Stati Uniti, Inghilterra e Giappone equivale mediamente a una riduzione di un quinto dei posti di lavoro e, in Europa, a una perdita netta media del 5%. «Per la prima volta dalla rivoluzione industriale scrive l’“Economist” meno del 10% dei lavoratori americani sono oggi occupati nel settore manifatturiero. E dato che forse la metà dei lavoratori in una tipica impresa manifatturiera sono coinvolti in attività di servizio, come design, distribuzione e attività finanziarie, la reale porzione di lavoratori che fanno cose che potete far cadere sulle dita dei piedi può essere solo il 5%» [3]. Alla riduzione dell’occupazione industriale, comunque, non corrisponde una diminuzione reale della parte di prodotto manifatturiero rispetto alla produzione totale. Misurata a prezzi costanti, dal 1980 la quota manifatturiera del prodotto interno lordo è rimasta pressoché immutata negli Stati Uniti e nell’insieme dei paesi sviluppati.

Da un punto di vista macroeconomico, la diminuzione dei posti di lavoro nel settore manifatturiero dei paesi occidentali non è attribuibile, almeno per il momento [4], allo spostamento en masse della produzione verso la Cina, bensì all’aumento della produttività del lavoro industriale. In Cina la forza-lavoro impiegata nella manifatturiera è circa sei volte superiore a quella americana, ma produce non più della metà del valore in dollari dei beni industriali degli Stati Uniti. D’altra parte, dall’inizio degli anni Novanta, anche in Cina, a Singapore, nella Corea del Sud o a Taiwan, l’occupazione nel settore industriale sta diminuendo [5].

La produzione di merci a mezzo di servizi, oltre all’aumento della produttività del lavoro conseguente all’automazione dei processi produttivi (più semplice nelle imprese industriali che nei servizi), riflette la saturazione del consumo di beni durevoli e l’aumento del consumo di servizi. A partire da un determinato livello di reddito, il tasso di aumento del consumo di beni durevoli (automobili, elettrodomestici, Pc) si stabilizza per poi decrescere, mentre cresce il consumo di servizi. Dal 2000, ad esempio, gli americani spendono più per la loro salute e per l’educazione dei loro figli che per l’acquisto di beni durevoli.

Le difficoltà in cui ci si imbatte in tutte le analisi delle tendenze del mercato del lavoro confermano indirettamente che il modello emergente è di tipo antropogenetico, un modello in cui i fattori di crescita sono di fatto imputabili direttamente all’attività umana, alla sua capacità comunicativa, relazionale, innovativa e creativa. È infatti sempre più difficile distinguere tra settore manifatturiero e settore dei servizi. Ad esempio, l’esternalizzazione di attività da parte delle imprese, da una parte riduce l’occupazione nel secondario, dall’altra aumenta quella del terziario, senza che nulla sia mutato dal profilo della natura dell’attività lavorativa. Come è d’altronde difficile distinguere il lavoro in una catena di fast food, che è assai simile al lavoro fordista, dall’attività di design, finanza, marketing e supporto dopo-vendita che costituiscono una parte crescente del valore aggiunto nelle imprese manifatturiere. La stessa interdipendenza tra attività industriali e attività di servizio rende complessa la distinzione tra lavoro qualificato e lavoro non qualificato. È piuttosto la capacità di innovazione, di «produzione di forme di vita», e quindi di creazione di valore aggiunto, che definisce la natura dell’attività umana, non il fatto che appartenga a questo o quel settore occupazionale.


Il vivente come capitale fisso

È bene precisare che nel modello antropogenetico emergente, il materiale ha un’importanza addirittura crescente. È questo un aspetto dell’economia dell’immateriale che spesso viene trascurato, confondendo in tal modo i termini del problema. Per costruire un solo Pc laptop ci vogliono quintali di materiale contaminante e 1500 litri d’acqua. Internet è basata su solide strutture industriali elettriche e la diffusione dei servers ha già mutato i requisiti energetici delle costruzioni per ufficio. Per non parlare della logistica, del trasporto di merci, del consumo di petrolio e l’aumento del suo consumo su scala globale, e naturalmente dell’accumulo giornaliero di rifiuti, insomma di tutte quelle esternalità negative che permettono di abbassare i costi di produzione sottraendo valore all’ambiente e alla qualità di vita [6]. Secondo Alain Gras (2003) siamo ancora in una società industriale, anzi una società «thermo-industrielle», sempre più dipendente dal motore a combustione termica e sempre più produttrice di catastrofi ambientali e sociali [7].

La smaterializzazione del capitale fisso e dei prodotti-servizio ha quale suo corrispettivo concreto la «messa al lavoro» delle facoltà umane quali la capacità linguistico-comunicativa e relazionale, le competenze e le conoscenze acquisite in ambito lavorativo e, soprattutto, quelle accumulate in ambito extra-lavorativo (saperi, sentimenti, versatilità, reattività ecc.), insomma l’insieme delle facoltà umane che, interagendo con sistemi produttivi automatizzati e informatizzati, sono direttamente produttive di valore aggiunto. Nel modello della «produzione dell’uomo attraverso l’uomo» il capitale fisso, se scompare nella sua forma materiale e fissa, riappare comunque nella forma mobile e fluida del vivente [8].

Nella nostra ipotesi, il corpo della forza-lavoro, oltre a contenere la facoltà di lavoro, funge anche da contenitore delle funzioni tipiche del capitale fisso, dei mezzi di produzione in quanto sedimentazione di saperi codificati, conoscenze storicamente acquisite, grammatiche produttive, esperienze, insomma lavoro passato. «Una grossa conseguenza di ciò – scriveva Rossi-Landi a proposito dei materiali e degli strumenti linguistici – è che noi ci portiamo dentro l’intera esperienza linguistica della specie; che ogni bambino, cominciando a parlare, adopera subito materiali e strumenti immensamente complicati. Ma lo stesso è della produzione materiale» (1968, p. 240).

È bene insistere su questa trasposizione delle funzioni del capitale fisso macchinico nel corpo del vivente. Nella storia del pensiero economico [9] vi è una successione di fonti della crescita che inizia con i fisiocratici, secondo i quali la terra era l’origine della ricchezza che governava la stratificazione sociale di un’economia prevalentemente rurale, la cui crescita era limitata essenzialmente dai rendimenti agricoli. Nei Tableaux économiques di Quesnay, solo il lavoro agricolo è produttivo, mentre il lavoro degli artigiani produttori dei mezzi di produzione è considerato improduttivo, addirittura parassitario (il che, sostituendo la terra con la natura umana, rende l’analisi dei fisiocratici particolarmente attuale). Per gli economisti classici è invece la produzione di merci a mezzo di merci che caratterizza il cuore dell’attività economica e, quindi, la crescita stessa. In questa visione, si suppone che la forza-lavoro sia riprodotta attraverso il solo consumo dei beni fondamentali e che le tecniche siano date una volta per tutte.

È a partire da Joseph Schumpeter che gli economisti prendono coscienza del fatto che, in assenza di ripetizione delle innovazioni dei processi produttivi, dei prodotti e delle forme organizzative, la crescita è condannata a estinguersi in conseguenza dell’erosione del profitto, considerato come rendita legata all’innovazione, che l’entrata di nuovi concorrenti elimina progressivamente. In Schumpeter, comunque, l’innovazione che distrugge la routine del ciclo economico è il risultato di una combinazione diversa (innovativa) dei medesimi fattori produttivi da parte dell’imprenditore innovatore. L’innovazione imprime un salto produttivo al sistema economico complessivo distruggendo il suo normale funzionamento (la routine del ciclo degli affari).

Lo sviluppo successivo del pensiero economico è stato costretto a interiorizzare l’invenzione all’interno della stessa economia dell’innovazione. Quella invenzione che Schumpeter, distinguendola dall’innovazione, considerava una mera esternalità rispetto al campo economico, entra oggi in tutte le sue forme direttamente nel campo dell’applicazione economica dell’innovazione. Le fonti dell’innovazione industriale odierna, e quindi anche della crescita, non sono solo economiche, anzi man mano che le nuove tecnologie, in virtù della loro genericità, pervadono la società intera e le competenze extra-lavorative della forza-lavoro vengono messe al lavoro, le fonti da cui scaturiscono le innovazioni si moltiplicano e si estendono ai campi più svariati del vivere sociale. La logica di funzionamento del nuovo capitalismo consiste nel suo modo di interiorizzare tutto ciò che si trova fuori dal campo specificamente economico, nella sua capacità di trasformare tutti i cambiamenti, le invenzioni infinitesimali e incrementali, in salti innovativi.

Le teorie contemporanee cosiddette della crescita endogena (Romer 1990) convergono infatti verso la concezione generale secondo la quale la possibilità della crescita cumulativa attiene esclusivamente alla produzione di idee a mezzo di idee. Secondo questa visione, gli individui che si specializzano nella produzione di idee vendono queste idee sotto forma di brevetti alle imprese che alimentano la produzione di beni materiali, generatrici di profitto grazie alla rendita d’innovazione, che è transitoria e che permette di impiegare i salariati che non sono impiegati nel settore della ricerca. Per quanto questa concezione riconosca la centralità della produzione di idee quale fonte della crescita economica, il suo limite teorico sta nel riprodurre la divisione del lavoro tipica dell’epoca industriale in un’economia in cui la crescita dipende sempre più dall’interazione tra sapere sociale non finalizzato e ricerca scientifica applicata. La produzione di idee si è sempre trovata in una situazione di libera circolazione del sapere. «Viene spesso citata la frase di Isaac Newton: “Ho potuto vedere oltre perché mi sono seduto sulle spalle degli altri”, riferita al fatto che lo scienziato si avvale delle scoperte di coloro che lo hanno preceduto per proseguire nella conoscenza» (Gruppo Laser 2005, p. 111). A maggior ragione oggi, in cui la produzione di innovazione è sempre più open source, in flagrante contraddizione con l’affermarsi dell’economia della proprietà intellettuale privata.


C+V

L’ipotesi di lavoro sulla quale merita soffermarsi è la seguente: nel nuovo capitalismo, nel modello antropogenetico emergente che lo contraddistingue, il vivente contiene in sé entrambe le funzioni di capitale fisso e di capitale variabile, cioè di materiale e strumenti di lavoro passato e di lavoro vivo presente. In altre parole, la forza-lavoro si esprime come la somma di capitale variabile (V) e di capitale costante (C, più precisamente la parte fissa del capitale costante) [10]. La produzione di merci e servizi, sia quella ripetitiva sia quella innovativa, è il risultato dell’interazione tra forma di vita consolidata, in cui si condensano regole, codici, paradigmi, convinzioni ereditate dal contesto in cui si sono formate, e attività produttiva in cui queste regole, codici, convinzioni, paradigmi vengono applicati con lo scopo di creare valore da un «materiale» altrimenti morto.

Per cogliere la distinzione, ma anche il rapporto sociale tra capitale costante e capitale variabile, è utile far riferimento all’attività linguistica, anche perché nel modello antropogenetico il linguaggio racchiude in sé le caratteristiche fondamentali dell’attività umana, ne è per così dire la sostanza. Come scriveva Rossi-Landi: «Costanza e variazione, entrambe relative, si colgono benissimo considerando il permanere della lingua di generazione in generazione. Se togliamo di mezzo il capitale variabile, ci rimangono solo materiali, strumenti e denaro, che senza il lavoro sono cosa morta. Prima di essere morta, una lingua deve essere stata viva; è appunto alla nozione di lingua morta, che si giunge quando si toglie di mezzo il capitale variabile. Per contro, l’aggiungersi del capitale variabile al capitale costante appare con chiarezza quando si considera il caso di un linguista che riesce a interpretare una lingua morta: egli è come chi entri in una fabbrica abbandonata e a poco a poco rimetta in opera le macchine di cui ha compreso il funzionamento, riutilizzi i materiali che erano rimasti lì ad attendere» (1968, pp. 243-244).

Sotto questo profilo risulta evidente l’utilità della teoria critica di Marx, la sua distinzione tra lavoro vivo e lavoro morto, tra capitale variabile e capitale fisso costante. Ma, appunto, il Marx del modello antropogenetico va in qualche modo rivisitato. È infatti noto che, nei Grundrisse, Marx, quando parla del sapere scientifico accumulato nelle forze produttive generali (il general intellect), lo vede materializzato, fissato nelle macchine separate dal lavoratore. «L’accumulazione del sapere e dell’abilità, delle forze produttive generali del cervello sociale, in tal modo è assorbita nel capitale in contrapposizione al lavoro, e si presenta quindi come qualità del capitale, e più precisamente del capitale fisso, nella misura in cui esso entra nel processo produttivo come mezzo di produzione vero e proprio» (p. 709). A questo punto, e in virtù della separazione tra lavoratore e strumenti di lavoro, l’attività del lavoratore «si limita a mediare il lavoro della macchina», è un’attività «determinata e regolata in ogni direzione dal moto della macchina». Quanto più è complessa e regolata la struttura del capitale costante, tanto più il lavoratore viene atomizzato, ridotto alla condizione di individuo che lavora senza libertà dentro una macchina immensa. Tanto più, aggiunge Marx, il lavoro si rivela come «base miserevole» del valore.

Si può quindi affermare che la separazione marxiana tra il lavoratore e le macchine di proprietà del capitalista è all’origine dello sfruttamento e dell’alienazione tipici del regime d’accumulazione fordista. Ma è precisamente la crisi del modello fordista e la ridefinizione del rapporto tra capitale e lavoro che ne è conseguita, che impone da una parte, di mantenere la separazione-distinzione tra capitale fisso e capitale variabile e, dall’altra, di vedere queste due forme del capitale racchiuse nel vivente, nel corpo vivo della forza-lavoro. A ben guardare, gran parte dei fenomeni dell’esternalizzazione, della flessibilizzazione del lavoro e dell’aumento del lavoro indipendente, si spiegano a partire dal superamento capitalistico della separazione tra capitale fisso e capitale variabile.

Quando si parla di «investimento nel capitale umano» si intende implicitamente che è sulla forza-lavoro come insieme di competenze passate e di lavoro vivo presente che occorre investire per alimentare nel tempo la crescita economica) [11]. Si tratta di un vero e proprio investimento, di costo di utilizzazione della forza-lavoro come anello tra presente e futuro, un costo che comprende il salario come prezzo della forza-lavoro (che permette la riproduzione della capacità lavorativa dell’operaio), ma che comprende anche l’investimento nel corpo del lavoratore come ricettacolo del sapere, delle competenze sociali presenti della società. L’uso capitalistico della forza-lavoro non si risolve solo nella sua messa al lavoro, nel passaggio cioè dalla capacità di lavoro alla sua attualità (lavoro in actu), ma anche nella utilizzazione dei saperi e delle conoscenze che vengono consumate lungo tutto il processo lavorativo. Questo perché, come scrive Ricci (2004, p. 230), «Il lavoro cognitivo è un lavoro complesso, di natura intellettuale, frutto di processi di apprendimento e di formazione continua del lavoratore all’interno e all’esterno del momento produttivo. Il lavoratore deve imparare a pensare per la macchina, ne deve imparare le procedure, i codici, il linguaggio, deve imparare a capire cosa la macchina vuole. Questo processo di apprendimento intellettuale, di carattere continuo e processuale, richiede tempo, energie, dispendio di risorse maggiori dei processi di apprendimento manuali, di carattere discreto, richiesti al lavoratore fordista».

Il lavoro vivo, presente, del lavoratore è una attività di trasformazione continua del materiale umano, frutto di lavoro passato, con cui e su cui si lavora. Questa attività consuma o, meglio, conserva consumando l’insieme dei saperi e delle conoscenze socialmente date in un determinato periodo. È proprio per questo consumo riproduttivo, per questo riutilizzo nel tempo del capitale fisso socialmente determinato, che l’investimento nel capitale umano dovrebbe includere l’ammortamento. L’ammortamento assicura la riproduzione delle «forze produttive generali del cervello sociale», del materiale umano accumulato che, senza l’attività del lavoro vivo, resterebbe «lingua morta».



Note [1] Sulla «segnicizzazione» dei prodotti materiali si veda Antinucci (2002), la cui tesi è riassunta dall’autore nel modo seguente: «la caratteristica fondamentale dei beni di cui stiamo parlando è che essi sono stati mutati da oggetti materiali in oggetti segnici; questa trasformazione comporta lo spostamento della localizzazione del valore di questi oggetti dall’uso-consumo, tipico degli oggetti materiali, al significato, tipico degli oggetti segnici. E, in quanto oggetti segnici, la loro faccia significante, e cioè il prodotto materiale con tutte le sue caratteristiche fisiche e formali, non ha più alcuna motivazione e valore intrinseci: in quanto semplice veicolo per arrivare al significato, tende a diventare arbitrario e fungibile» (pp. 28-29). [2] Una descrizione efficace delle trasformazioni del lavoro in epoca postfordista si trova in Ricci (2004), di cui, ai fini della nostra analisi, la lunga citazione seguente merita di essere letta per intero: «Nel processo produttivo postfordista la macchina, intesa come tecnologia e organizzazione, cioè come impresa, non solo agisce ma pensa la propria azione attraverso il lavoratore. Il lavoratore deve introiettare la logica, la procedura, la razionalità della macchina perché deve guidarla, adattarla, dirigerla come essa vuole, secondo ciò che essa internamente chiede. In realtà la macchina non pensa, non vuole, non chiede ma è il lavoratore che si è fatto pensiero, volontà, linguaggio della macchina, che è diventato un’appendice non solo fisica ma mentale della macchina. La macchina postfordista succhia non solo il corpo ma anche la mente del lavoratore. Nell’organizzazione del lavoro postfordista il lavoratore deve pensare nel senso che deve conferire alla macchina la facoltà del pensiero, la coscienza. Anche nel postfordismo il pensiero del lavoratore è vuoto, non perché non lo eserciti ma perché il suo pensiero è il pensiero della macchina. L’alienazione non si presenta più come dissociazione tra corpo e mente, ma come privazione e annullamento di sé, del proprio Io, della propria soggettività. Ma, al di fuori della razionalità codificata della macchina, esiste un residuo dell’Io, fatto di impulsi, intuizioni, sogni che la macchina non riesce ancora a codificare e che consentono al lavoratore di pensare ancora alla propria liberazione. Nel postfordismo il lavoro morto e il lavoro vivo sono in un rapporto di dominazione reale, perché il lavoro morto appare come lavoro vivo, dotato di coscienza, e il lavoro vivo come lavoro morto, inanimato» (pp. 229-230). Sul peggioramento delle condizioni lavorative a causa dell’aumento della quantità di tempo passato al lavoro, si veda l’inchiesta curata da R. Mandel, The Real Reasons Americans Work So Hard… And What They Can Do About It, «Business Week», 3 ottobre, 2005. [3] Industriai metamorphosis. Factory jobs are becoming scarce. It’s nothing to worry about, «The Economist», 1 ottobre 2005. [4] Nel 2003, l’afflusso di 53 miliardi di dollari di investimenti stranieri in Cina, contro i 40 affluiti negli Stati Uniti, segnano indubbiamente una svolta fondamentale nei rapporti di potere economico, come messo in luce, ad esempio, da Federico Rampini nel suo Il secolo cinese, 2005. Non va comunque trascurato il fatto che gli Stati Uniti, per quanto fortemente incalzati dalla crescita cinese, assorbono a tutt’oggi l’80% del risparmio mondiale, in particolare per la copertura del disavanzo federale, il cui aumento è attribuibile per una quota crescente alle spese per la difesa necessarie per il proseguimento della guerra in Iraq. Ciò non toglie che l’equilibrio monetario e finanziario tra la Cina e il resto del mondo è particolarmente fragile: ad esempio, l’andamento dei tassi di interesse statunitensi e europei è sempre più condizionato dalla politica monetaria della banca centrale cinese. Si veda a questo proposito How Cina Runs the World Economy, «The Economist», 30 luglio 2005. [5] Ad esempio in Cina, tra il 1995 e il 2002, il numero di posti di lavoro nel settore manifatturiero è diminuito di 15 milioni, un calo attribuibile, in parte, alla ristrutturazione delle imprese di proprietà statale. [6] Smaterializzazione non significa perdita di rilevanza della materia nei processi di produzione e vendita. Ad esempio, «il processo di produzione e vendita di un telefonino costa alla natura 75 Kg (il solo chip pesa 20 Kg). Ma è l’utilizzo a incidere maggiormente sull’ambiente, data la quantità di energia necessaria ad alimentare le reti mondiali. Uno studio italo-austriaco basato sui fogli di calcolo del Mips (www.wupperinst.org/Projekte/mipsonline) ha stabilito che un minuto di telefonata ha un peso ecologico di 207 grammi, mentre un messaggio di testo Sms ben 632)». In «Jack», n. 41 , febbraio 2004, citato da G. Alleruzzo, L’impresa meticcia. Riflessioni su no-profit ed economia si mercato, Erickson, Trento 2004, p. 151. [7] Si veda, di A. Gras, Fragilité de la puissance. Se libérer de l’emprise technologique, Fayard, Paris 2003. [8] Riappare, anche, nella forma di «scarti umani», oltre che di scarti materiali, come scrive Bauman (2005): «In una società di produttori, si tratta di persone il cui lavoro non può essere utilmente impiegato, poiché tutti i beni che la domanda attuale e prevista è in grado di assorbire possono essere prodotti e prodotti in modo più rapido, redditizio ed “economico” senza tenerle occupate. In una società di consumatori, queste persone sono “consumatori difettosi”: persone che non hanno il denaro che consentirebbe loro di estendere la capacità del mercato dei beni di consumo, e al contempo creano un altro tipo di domanda cui l’industria dei consumi, tutta orientata ai profitti, non sa rispondere e che non è in grado di “colonizzare” in modo redditizio. Il bene primario della società dei consumatori sono i consumatori; i consumatori difettosi sono il suo passivo più irritante e costoso» (p. 51). [9] Qui di seguito riprendo alcune considerazioni di Boyer relative alla ricerca delle fonti della crescita nella storia del pensiero economico (2002, pp. 182-183). [10] La distinzione marxiana tra capitale fisso e capitale circolante, entrambe costitutive del capitale costante, non è sempre facile, specie quando ci si riferisce al corpo vivo della forza-lavoro. Il capitale fisso è, in Marx, l’insieme degli strumenti di lavoro (o sistema di macchine) che non entrano direttamente nel prodotto finale (pur essendo, ovviamente, essenziali per la produzione di merci), mentre il capitale circolante è costituito dalle materie prime il cui valore d’uso e di scambio confluiscono nel prodotto finale. Come vedremo di seguito, il problema rappresentato dal capitale costante, ossia l’impossibilità di riprodurlo in termini di valore di scambio, attiene in realtà solo al capitale fisso, mentre non si pone per il capitale circolante, dato che il suo valore di scambio, oltre quello d’uso, confluisce interamente nel prodotto finale. Nel caso del capitale costante umano, il capitale fisso è rappresentato dalle grammatiche, dalle convinzioni, dalle ipotesi, dai teoremi o dai paradigmi che si utilizzano per poter lavorare, mentre ad esempio le parole o i numeri rappresentano il capitale circolante che, come materia prima, riappaiono nel prodotto finale. [11] Per una critica delle teorie dell’investimento nel capitale umano si veda Checchi (1997).



Immagine: Philippe Boisnard, phAUTOmaton, 2014.

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