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Italia-Germania: la partita delle partite

La storia di una drammatica rivalità



«Ormai non ci riprendono più…» così il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, in diretta televisiva, salutò il terzo gol della nazionale italiana di calcio nella finale della coppa del mondo 1982, che vide gli azzurri aggiudicarsi il loro terzo titolo mondiale. L’entusiasmo del presidente fece di quella vittoria uno dei simboli del processo di costruzione dell’identità italiana degli anni ’80, quasi a voler suggellare l’inizio della rinascita del nostro paese dopo gli anni di piombo. A maggior ragione, questo successo era stato ottenuto sulla Germania Ovest, che seppur più potente dell’Italia sul piano economico, non riusciva a dominarci in ambito calcistico, soccombendo negli appuntamenti importanti, quali i campionati mondiali e quelli europei. Come venne sconfitta a Madrid nel 1982, la nazionale della Germania ormai unificata perse anche la semifinale dei mondiali del 2006 e quella degli europei 2012. Il match contro i tedeschi che però è rimasto maggiormente nel nostro immaginario collettivo è la semifinale del campionato del mondo del 1970, vinta per 4-3 dall’Italia e ricordata come «la partita del secolo» da una lapide posta di fronte al luogo dove si disputò, lo stadio Azteca di Città del Messico. Questo è stato di gran lunga l’incontro più narrato della nostra nazionale: esaltato nei libri di storia del calcio e richiamato in diversi romanzi e film, tra cui Italia-Germania 4-3 di Andrea Barzini. Partendo proprio da quell’incontro, il presente saggio vuole dimostrare come sull’annosa rivalità calcistica con la Germania, oltre al fattore sportivo, abbia pesato la narrazione del «cattivo tedesco» e del «bravo italiano», ovvero una delle pietre angolari su cui è stata ricostruita l’identità del nostro paese nel secondo dopoguerra (Focardi 2014).


Quella andata in scena all’Azteca il 17 giugno 1970 fu una partita dalle due facce. I 90 minuti regolamentari furono piuttosto noiosi, accesi solo dalle due reti che fissarono il risultato sull’1-1 e che portarono le due squadre ai tempi supplementari. I 30 minuti successivi, invece, rimasero impressi nella memoria degli amanti del calcio a causa dei ripetuti cambi di fronte e di punteggio: prima avanti la Germania per 2-1, poi il pareggio e avanti l’Italia per 3-2, ancora il pareggio tedesco e infine la vittoria azzurra per 4-3. L’emozione fu talmente forte che in Italia, dopo il fischio finale, in tanti si riversarono per le strade sventolando la bandiera tricolore, ostentando un’esultanza più marcata rispetto all’8 giugno 1968, quando a Roma la nostra nazionale si era laureata campione d’Europa. Tale atteggiamento fu talmente inusuale da creare un acceso dibattito tra politici e intellettuali [1]. Ci fu chi, come Ennio Flaviano, richiamò a un ritorno a un patriottismo di stampo fascista nel commentare le scene di «entusiasmo nazionalista» a cui si assistette in tutto il nostro paese, quando alcuni tifosi presero addirittura di mira oggetti e simboli che richiamavano la Germania (Papa e Panico 2002, 327).

Ma da cosa nasceva tanto «entusiasmo nazionalista»? Perché questa forte rivalità in ambito calcistico con i tedeschi? Essa era il frutto solo della rivalità sportiva? O sul campo da gioco e sugli spalti veniva palesato ben altro tipo di sentimento, conseguenza di un certo atteggiamento antitedesco sedimentato nella cultura di massa italiana?


Tale atteggiamento nasceva dal desiderio di rivalsa di uno stato ancora considerato povero come l’Italia verso uno stato ricco come la Germania, che aveva accolto, ma a volte mal tollerato, la corposa comunità di emigranti italiani. Una vittoria della nostra nazionale di calcio su quella tedesca, in questo senso, rappresentava un modo per affermare una superiorità che, se non era possibile sul piano economico, era plausibile in ambito sportivo. Benché non ambientato in Germania, ma nella Svizzera tedesca, emblematico per comprendere il significato di una vittoria degli azzurri per gli immigrati italiani di quel periodo è sicuramente il film del 1974 Pane e Cioccolata di Franco Brusati. In questa pellicola, il protagonista, Nino Manfredi, pur volendo celare la propria identità per farsi accettare dalla comunità locale, non riesce a trattenere il proprio entusiasmo di fronte a un gol degli azzurri, rivendicando con orgoglio di essere italiano. Il sentimento antitedesco, comunque, era insito in molti nostri concittadini fin dalla Prima guerra mondiale, ma si era acuito tra il 1943 e il 1945 durante i mesi dell’occupazione nazista. Tale atteggiamento faceva inoltre parte del processo di rimozione, da parte degli italiani, del passato fascista e collaborazionista. Dopo la guerra, infatti, nell’ambito della costruzione della comunità repubblicana su basi antifasciste, si era reso necessario eliminare dalla nostra «tradizione» la macchia del consenso popolare al regime e, implicitamente, dell’assenso di massa ai crimini commessi durante il ventennio. Venne dunque costruito lo stereotipo del «bravo italiano» contrapposto a quello del «cattivo tedesco», colpevole, durante il conflitto, di aver invaso il nostro paese e di essersi macchiato di intollerabili crimini contro la popolazione civile. Tale stereotipo aveva attecchito grazie al ricordo dell’occupazione nazista, ma anche alla volontà della nuova classe politica repubblicana, nata dalla lotta antifascista, di ridare al nostro popolo quella «verginità» perduta negli anni della dittatura mussoliniana. Per raggiungere questo scopo, dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, vennero sostenute forme di narrazione mainstream (film e programmi televisivi) che raccontavano una storia del regime e della guerra, dove non venivano condannati gli italiani, ma piuttosto la classe politica fascista e soprattutto gli invasori tedeschi (Focardi 2013). Tale punto di vista rientrava nel nuovo progetto di narrazione pubblica dell’italianità voluta dai cattolici, che dal 1948 era stato sostenuto da Giulio Andreotti, fino al 1954 sottosegretario alla presidenza del consiglio del governo De Gasperi con deleghe all’epurazione, allo sport e allo spettacolo (Subini 2013, 23-88). In ambito cinematografico, il futuro sette volte presidente del consiglio appoggiò il consolidarsi della narrazione che si era imposta subito dopo il conflitto nelle primissime pellicole neorealiste come Roma Città aperta (1945). Il film di Roberto Rossellini, infatti, metteva in luce la bontà degli italiani in contrapposizione all’occupante germanico (Forgacs 2000), basandosi su una retorica cattolica, esplicitata attraverso l’esaltazione della figura del prete e la centralità della famiglia (Craig 2010). Bisogna comunque sottolineare che il mito del «buon italiano» era al centro anche del lavoro di registi vicini al Partito comunista come Giuseppe De Santis. Quest’ultimo in Caccia Tragica (1947) costruì una storia volta alla condanna dei nazisti e dei collaborazionisti, ma anche al perdono dei «malviventi», metafora di chi aveva sostenuto il fascismo.


Oltre al cinema, a contribuire a questa narrazione autoassolutoria fu la televisione pubblica, che anche grazie alla trasmissione degli eventi sportivi, si rivelò una componente essenziale per la creazione della comunità immaginata (Anderson 1983) dell’Italia repubblicana: fu proprio tra la metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, che la Radio Televisione italiana (Rai) e lo sport riuscirono meglio di altri fenomeni a delineare l’identità nostrana del dopoguerra (Judt 2007, 427). Tale processo si dovette alla capacità della televisione di raggiungere nelle proprie case milioni di italiani, veicolando messaggi impliciti di nazionalismo banale (Billig 1995). Ciò appariva palese durante la trasmissione degli eventi sportivi, per raccontare i quali si usava una certa retorica nazionalista nei commenti, si indugiava sul rito dell’inno nazionale e sulle immagini delle bandiere sventolate sugli spalti. Tra tutte le pratiche sportive, quella che meglio si adattava all’esaltazione di questo nazionalismo banale era sicuramente lo sport più amato dagli spettatori, il calcio. Quest’ultimo più di altre discipline, infatti, aveva la capacità di ritrarre l’immagine di una nazione, di cui erano metafora gli undici giocatori della rappresentativa nazionale (Hobsbawm 1990). Se ragioniamo come ha fatto Focardi rispetto alla costruzione identitaria italiana del dopoguerra sul mito del «cattivo tedesco» (2014), comprendiamo come le vittorie calcistiche contro la Germania abbiano rafforzato tale mito nella nostra cultura massa: la vittoria sui tedeschi è diventata una vittoria del bene sul male, dimostrando la nostra bontà, ma anche la superiorità rispetto a un «popolo che ci aveva invasi».

Anche il calcio, dunque, ha risentito della narrazione del «cattivo tedesco» e del «bravo italiano», tanto da contribuire a farla diventare, parafrasando Barbara Rosenwein, un elemento del sistema emozionale della comunità nazionale, sul quale quest’ultima ha fatto perno per costruire la propria autorappresentazione (2002). La vittoria a Città del Messico nel 1970, quella a Madrid del 1982 e quelle successive ci danno il quadro di come la rivalità tra Italia e Germania vada oltre l’evento sportivo, dando conto di una narrazione simbolica per l’immaginario italiano che risente profondamente della costruzione del mito del «cattivo tedesco». Facendo un altro esempio concreto, ci rendiamo conto di ciò, anche analizzando gli articoli usciti sulla stampa italiana dopo la semifinale del campionato del mondo 2006, vinta a Dortmund dagli azzurri per 2-0 il 4 luglio. Se da una parte la stampa elogiava l’impresa italiana in uno stadio completamente giallorossonero, «non rispettoso nemmeno del nostro inno nazionale», dall’altra esaltavano la risposta sul campo alle insinuazioni presenti in alcuni articoli pubblicati dai giornali tedeschi pochi giorni prima dell’incontro. Per esempio, in un articolo di «Der Spiegel» si criticavano i vizi degli italiani, descritti come popolo corrotto e di nullafacenti (Nadotti 2006). Prima della partita, comunque, la rivalità tra i due paesi era stata sottolineata sui giornali nostrani addirittura da un autorevole storico come Nicola Tranfaglia. Quest’ultimo, chiamato prima del match a inquadrare storicamente l’origine dell’antagonismo tra Italia e Germania, scrisse: «il passato resta, e anche oggi la rivalità c’è e si esprime magari nel calcio o negli altri sport competitivi». Tranfaglia nel suo intervento, pur riconoscendo ai tedeschi una maggior attenzione agli errori del passato nella prospettiva presente, sottolineava come fu «l’Italia […] a inventare il fascismo, ma fu la Germania, più di dieci anni dopo, a realizzarne l’incarnazione più razzista e aggressiva». Egli, inoltre, rimarcava come le forze naziste avessero invaso il nostro paese dopo l’armistizio e come «i tedeschi divennero il nemico peggiore» facendo seguire «un’occupazione terribile e feroce» (2006). In questa maniera, lo storico dell’Università di Torino riproponeva la narrazione del «cattivo tedesco», dando conto dell’importanza simbolica extracalcistica delle partite tra Italia e Germania.


Anche attraverso quest’ultimo esempio possiamo comprendere per quale motivo ancora oggi le partite con la Germania rappresentino per i tifosi italiani una sfida di gran lunga più importante degli incontri con il Brasile e con «l’odiata» Francia. Questo breve articolo, però, vuole essere solo un punto di partenza per una riflessione più ampia su come i rapporti sportivi tra Italia e Germania possano darci degli elementi significativi non solo nell’ambito dello studio della diplomazia culturale dei due paesi, ma anche nel campo della storia delle emozioni. Partendo dai lavori sulla costruzione delle comunità emotive della già citata Barbara Rosenwein (2002) e dagli studi sul tifo di Elias e Dunning (2008), infatti, la prospettiva dello sport può aiutarci a capire come si siano formati i sentimenti alla base delle relazioni dal basso tra i cittadini italiani e quelli tedeschi, un elemento importante, in chiave futura, per gli studi sulla costruzione delle identità non solo di Italia e Germania ma anche dell’Unione Europea.


Note [1] Teniamo presente che in quel periodo le manifestazioni di piazza, anche quelle spontanee, erano vissute con una certa tensione, visto il cambiamento dello scontro politico e sociale generatosi nel lungo ’68.


Bibliografia

Craig, S. S. 2010: Cinema after fascism. The Shattered Screen. New York, Palgrave.

Elias, N., Dunning, E. 2008 (1986): Quest for Excitement: Sport and Leisure in the Civilising Process. Dublin, University College Dublin.

Focardi, F. 2014: Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale. Roma-Bari, Laterza.

Focardi, F. 2013: Il passato conteso. Transizione politica e guerra della memoria in Italia dalla crisi della prima Repubblica ad oggi, in F. Focardi e B. Groppo, Politiche e culture del ricordo dopo il 1989. Roma, Viella, 2013, pp. 51-90.

Forgacs, D. 2000: Rome open City (Roma città aperta). London, British Film Institute.

Judt, T. 2007: Dopoguerra. Com’è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi.Milano, Mondadori 2007.

Papa, A., Panico G. 2002: Storia sociale del calcio in Italia. Bologna, il Mulino.

Subini, T., La doppia vita di “Francesco giullare di Dio”. Giulio Andreotti, Félix Morlion e Roberto Rossellini, Milano, Libraccio, pp. 23-88.


Articoli

Nadotti, C. «Italiani, i soliti parassiti». Spiegel prepara la semifinale, «la Repubblica», 27 giugno 2006.

Tranfaglia, N., Amore o Odio. Mai indifferenti, «l’Unità», 2 luglio 2006.

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