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It's a SAD story. Ovvero: il conflitto fra associazionismo e capitalismo nel calcio



Belenenses
Immagine: Mark Wallinger,Vs.,1996

C'è nel calcio una differenza tra club e società? Certo che sì, ma in Italia non riusciamo a cogliere questo distinguo a causa della vicenda storico-sociale del calcio italiano, differente rispetto a quella di altri paesi come il Portogallo. È su questo aspetto che s'interroga il contributo di questa settimana di Pippo Russo, raccontando la storia del Belenenses, terzo club di Lisbona, che nel 2012 ha dovuto cedere all'onda della finanziarizzazione trasformandosi in SAD (Sociedade Anónima Desportiva), particolare conformazione di società per azioni. Un modello associativo che giunge al capolinea, creando tante situazioni grottesche ben raccontate nell'articolo.


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Il distinguo che non riusciamo a cogliere. È quello che nel calcio esiste fra l'entità del club e l'entità della società. Due oggetti diversi, per quanto posti sotto il medesimo ombrello. Ma perché se ne colga la differenza bisogna avere attraversato una vicenda storico-sociale del calcio segnata da certe caratteristiche, cosa che noi italiani non abbiamo fatto. E quel che è più, su questo terreno noi siamo l'eccezione e non la regola. Perché altrove il club calcistico è storicamente uno spazio della partecipazione democratica. E invece da noi non lo è mai stato. Nemmeno nell'epoca pionieristica che vedeva nascere i primi club calcistici, troppo segnati da una matrice sociale elitaria. Erano i primi anni del Ventesimo secolo, l'epoca in cui si cominciava a mancare l'occasione di edificare una democrazia del calcio in Italia. Ma per comprendere il senso del discorso bisogna prendere come riferimento una storia e raccontarla per estrarne il carattere emblematico: la storia del Belenenses, il terzo club di Lisbona.

 


Un club storico

 Il Portogallo è un paese particolare e nel calcio lo è anche di più. Il suo campionato nazionale è dominato da tre club che nello spazio culturale nazionale sono radicati alla stregua di tre chiese: il Benfica, il Porto e lo Sporting Portugal. Questi tre club si dividono il sentimento calcistico dei portoghesi in patria e di quelli della vastissima diaspora. Da quando esiste il torneo a girone unico, stagione 1934-35 il titolo nazionale è stato quasi sempre vinto da uno dei tre: 38 volte dal Benfica, 30 volte dal Porto e 19 volte dallo Sporting. Soltanto due annate hanno fatto eccezione. Nel 2000-01 la Liga è stata vinta dal Boavista, il secondo club di Porto. L'altra eccezione è stata firmata dal Belenenses nella stagione 1945-46. Una gloria remota, quel campionato vinto. Ciò che però non ha mai scalfito il prestigio del club di Belem, cui l'intero mondo del calcio portoghese riserva un rispetto indiscusso. La sua identità da club orgogliosamente di nicchia, schiacciato nel territorio della capitale fra due delle tre chiese calcistiche nazionali, è stata declinata anche per mezzo di una vocazione iper-localista capace di resistere alla globalizzazione forestiera che ha pesantemente impattato Lisbona. Il Belenenses rimane la squadra di Belem, il quartiere simbolo della mitografia dei Lusiadi che solcando i mari frantumarono le barriere del mondo conosciuto. In quelle strade permane la narrazione che vuole il Portogallo di quell'epoca come il motore della globalizzazione. Quella vera, originaria, mica questa cosa qui che parla di integrazione dei mercati finanziari e di contaminazioni culturali costruite attraverso i più azzardati pastiche delle opere di finzione. Le strade di Belem conservano tale patrimonio identitario di una lusitanità integrale e il Belenenses se ne fa espressione attraverso il calcio, allo stesso modo in cui ne è emblema il suo stadio. Un impianto suggestivo che prende il nome da Restelo, quartiere di ambasciate e di una residenzialità alto-borghese non toccato dalla rete della metropolitana, dunque messo al riparo dal flusso turistico di massa.

Ma anche un club così identitario si è dovuto arrendere all'onda della finanziarizzazione. Succede nel 2012 e il percorso è simile a quello di ogni altra associazione sportiva che decide di trasformarsi in SAD. Quest'ultimo è un acronimo che se venisse declinato secondo il canone anglofono comunicherebbe l'idea della tristezza. Invece nelle lingue iberiche significa altro, con scarne sfumature ortografiche: in spagnolo sta per Sociedad Anónima Deportiva mentre in portoghese sta per Sociedade Anónima Desportiva. Si tratta di una forma di società per azioni tagliata specificamente per il mondo del professionismo sportivo, e dunque essenzialmente per il calcio che a qualsiasi latitudine è lo sport professionistico per eccellenza. Questa formula viene definita in entrambi i paesi all'altezza degli anni Novanta, cioè in un'epoca in cui si rende evidente che il modello associativo di gestione dei club è giunto al capolinea. E a questo punto è necessario aprire una parentesi per spiegare al meglio il contesto del mutamento e i suoi contenuti.

 


Il modello associativo che giunge al capolinea

 In Portogallo come in Spagna il calcio è una fatto di partecipazione associativa. Il club sportivo nasce come espressione di una comunità e si dà meccanismi per la strutturazione di una reale democrazia del calcio. I tifosi che sono anche soci eleggono il presidente e il direttivo, votano il bilancio annuale, hanno facoltà di esercitare il controllo sulla gestione del club e, laddove possibile, di incidere e correggere qualora il governo del club prendesse una direzione non condivisa dalla massa associativa. In Portogallo questo modello è stato etichettato con l'acronimo SDUQ. Che sta per Sociedade Desportiva Unipessoal por Quotas e si fonda su un modello che al massimo grado esalta la partecipazione. Tale modello esiste anche altrove, soprattutto in America latina. Ma nella penisola iberica la sua trasformazione avviene prima che altrove e traccia la strada. La trasformazione porta all'invenzione delle SAD e si rende necessaria quando si prende atto che il modello associativo ha esaurito le proprie potenzialità sul piano dell'approvvigionamento finanziario. Fino a un dato momento era stato possibile reggersi sulle risorse prodotte dal pagamento delle quote associative, dagli incassi al botteghino, dalle sponsorizzazioni e soprattutto dalle cessioni dei calciatori. Non era ancora arrivata la bonanza dei diritti televisivi e comunque l'idea è che non sarebbe stata sufficiente a salvare i club dal piano inclinato che avevano intrapreso. Per ovviare a questa crisi di modello viene individuata come unica soluzione l'apertura al capitale privato, dunque a investitori esterni che iniettino denaro fresco e così facendo imprimano una svolta rispetto alla condizione di crisi endemica. A questo scopo serve la SAD, la cui forma giuridica viene sviluppata nel corso degli anni Novanta su entrambi i versanti della penisola iberica. Le officine legislative mettono a punto uno strumento per la soluzione dei problemi finanziari dei club calcistici. Il tempo dirà che produrranno più problemi di quanti ne risolvano, ma ciò va oltre il perimetro della nostra analisi, perché l'aspetto davvero rilevante della questione è un altro e riguarda l'architettura societaria duale che si genera con l'apertura alla formula della SAD. E proprio su questo passaggio si registra l'aspetto più peculiare, perché di fatto i soci devono decidere di rinunciare alle proprie prerogative e alienare la sovranità a un soggetto esterno. Sul quale magari dispongono di scarse informazioni, ma non possono esimersi dallo spalancargli le porte perché l'alternativa non esiste. Oltre quella linea c'è la bancarotta del club. Dunque arriva il giorno in cui l'associazione, su cui fin lì si è retto il club sportivo, convoca un'assemblea straordinaria dei soci il cui punto principale all'ordine del giorno è la trasformazione della stessa associazione in SAD. E una volta approvata la trasformazione in SAD possono essere avviate le trattative con la compagine degli investitori privati, che di fatto se ne stava fuori dalla porta dell'assemblea a attendere che i tifosi-soci si spogliassero delle loro prerogative. L'assemblea stabilisce anche la quota massima di pacchetto azionario che gli investitori esterni possono comprare. E si tratta comunque di una quota di maggioranza. La parte restante rimane in possesso del club, che a questo punto diventa un'entità distinta rispetto alla SAD. Due entità, due ragioni sociali differenti nonché in posizione dialettica, costantemente a rischio di entrare in conflitto: da una parte la SAD, cioè l'entità economico-finanziaria che prende in gestione il calcio professionistico; dall'altra il club, cioè l'entità associativa, che mantiene la radice democratica ma adesso deve fare i conti con lo spossessamento della parte riguardante il calcio professionistico. Questo è lo schema generale. Che non è un male in sé, perché in molti casi la struttura duale ha funzionato. Ma là dove non funziona sono dolori veri. E la vicenda recente del Belenenses ne è dimostrazione.

 


Il faccendiere socialista

 Il passaggio avviene nel 2012. L'assemblea dei soci vota per la costituzione della SAD e a quel punto c'è il via libera per l'investitore. Si tratta di Rui Pedro Soares, che al tempo del governo socialista guidato da José Socrates (il più funestato dagli scandali nella storia del Portogallo contemporaneo) è stato un faccendiere fra i meglio introdotti. Soares compra la maggioranza della SAD del Belenenses per una cifra ridicola (poche migliaia di euro) e si annette il ramo del calcio professionistico, in cambio degli impegni a coprire la massa debitoria e a pianificare il rilancio. Ma soprattutto c'è che compra attraverso un veicolo societario, denominato Codecity Sports Management, sospettato di fare third party ownership (TPO), cioè di investire in diritti economici dei calciatori. Una pratica che tre anni dopo verrà messa definitivamente al bando dalla Fifa e che comunque è nell'immediato un segno di promiscuità. Ma in quella fase i soci non possono fare altro che accettare la situazione, predisponendosi però a esercitare una funzione di vigilanza che deriva loro dal mandato democratico. Del resto, era abbastanza chiaro che prima o poi un personaggio come Rui Pedro Soares avrebbe dato al Belenenses club qualche motivo per mettere sotto controllo il Belenenses SAD. Dove e per cosa avvenga la rottura non sarà mai chiaro. Ma a un dato momento la dialettica fra le due entità si trasforma in conflitto aperto e provoca conseguenze grottesche.

 


Né stadio, né simbolo, nemmeno il nome

 L'altro nome cruciale di questa storia è Patrick Morais de Carvalho. È il presidente del Belenenses club e non ha mai provato simpatia per Rui Pedro Soares. I contrasti fra i due si fanno sempre più duri, ma ciò che più conta è il sostegno dei soci a Morais de Carvalho. Col passare dei mesi diventa evidente che le due entità raggruppate sotto l'ombrello del Belenenses hanno poco margine per convivere. E da lì in poi si aziona una catena di eventi che porta alla rottura definitiva. La tifoseria belenense è pacifica, oltreché numericamente ridotta. Non è gente che sia propensa a gesti rumorosi, o al limite violenti. Piuttosto, dopo che il conflitto fra club e SAD si fa incomponibile, prendono la decisione clamorosa di chiamarsi fuori. Cominciano a disertare le partite della squadra in maglia azzurra. E poi su iniziativa di Morais de Carvalho compiono la rottura definitiva e fondano una nuova società. Iscrivono la squadra ai campionati dilettantistici, scegliendo di ripartire dal basso anziché continuare a sostenere nella massima serie la squadra del Belenenses SAD, che non sentono più loro. Dunque si crea la grottesca situazione per cui due Belenenses circolano per i campi da gioco del Portogallo.

È soltanto l'inizio. Perché una volta avvenuta la scissione partono le ulteriori iniziative di distinzione. Morais de Carvalho nega dapprima l'uso dell'Estadio do Restelo. Quella controllata da Rui Pedro Soares non è più la squadra di Belem, dunque vada a cercarsi una nuova casa. La sistemazione viene trovata nell'Estadio do Jamor, l'impianto olimpico di Lisbona dove si suole giovare la Finale della Coppa di Portogallo. Poi si passa oltre. Il club vieta alla SAD di usare il simbolo della croce di Belem, che campeggia sulla maglia. Per la squadra della SAD cambiano anche i colori sociali, che virano dall'azzurro al blu scuro. Ma il colpo più pesante viene sferrato col divieto di usare il nome Belenenses. Così la squadra controllata da Rui Pedro Soares, che nel frattempo retrocede in seconda divisione, si ritrova con la denominazione B SAD. Che sembra la sigla di un antidepressivo e in effetti non si va tanto lontani dalla realtà, perché la compagine che avrebbe dovuto rilevare e rilanciare un'identità calcistica di profonda tradizione si ritrova a essere un'entità priva di tutto: senza tifosi, senza simboli, senza tradizione, senza stadio. Ogni fine settimana scende in campo una squadra che rappresenta (e male) soltanto se stessa. E i risultati sportivi non possono che essere in linea con questa tendenza depressiva. La B SAD conclude al terzultimo posto il campionato di seconda divisione 2022-23, poi perde il playout contro il LANK Vilaverdense e retrocede in terza divisione. E intanto accumula debiti. Nel frattempo il Belenenses rinato dall'iniziativa dei tifosi scala la piramide del calcio lusitano e approda in seconda divisione giusto nelle settimane che vedono la B SAD precipitare in terza. I due Belenenses si sono sfiorati e chissà cosa mai sarebbe successo se si fossero affrontati sul campo. Ma questa circostanza non si verificherà mai più, perché dopo la retrocessione del 2023 la B SAD viene sciolta per confluire nel Cova da Piedade, un club che disputa i campionati provinciali. Fine di una storia che non doveva mai iniziare.

 


Ciò che non capiamo

 La storia dei due Belenenses suggerisce diversi spunti di analisi, che vanno oltre gli aspetti grotteschi delle due entità entrate in guerra a partire da un dato momento della loro coesistenza. E gli spunti di maggiore rilievo sono quelli legati all'idea di partecipazione democratica nel club calcistico. Quest'ultimo è un'entità associativa cui i tifosi-soci partecipano esprimendo un senso dell'appartenenza che significa prendere in carico la responsabilità di un'istituzione. Rispetto a questa dimensione del club sportivo, la sua proprietà è un'altra cosa. I due livelli possono coincidere o meno, ma anche laddove coincidono rimane uno spazio per la partecipazione dei tifosi-soci. Questi si pongono in relazione dialettica con la proprietà e tale dialettica può avere una funzione di stimolo per costruire il meglio, ma anche trasformarsi in conflitto aperto. Nel mondo del calcio iberico i casi di scontro fra club e SAD sono sempre più frequenti, anche perché il numero di associazioni calcistiche trasformate in SAD cresce costantemente. Fra l'altro, in molti casi, a essere trasformati in SAD sono club minuscoli delle categorie inferiori, nel quadro di operazioni delle quali sfugge il senso (almeno il senso presentabile, beninteso). Ecco, tutto ciò in Italia stentiamo a capirlo. Perché l'idea del club calcistico come entità associativa e democratica comincia a germogliare soltanto in questi anni, ma si continua a pensare che la proprietà assorba ogni aspetto della vita del club. C'è ancora da costruire il terreno della partecipazione e della dialettica. E sarà un lavoro molto difficile.


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Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi.

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