Proponiamo qui di seguito un approfondimento di Raphaël Liogier [1] sull’utilizzo, sempre più frequente nel mainstream francese, del termine islamo-gauchisme come strumento per screditare qualsiasi analisi che si rifiuti di accettare le forme stereotipate e razziste attraverso cui è articolato il dibattito sull’islam e la laicità. L’autore, accusato in prima persona, oltre ad andare alle origini dell’uso propagandistico dello slogan, ricostruisce alcuni dei complessi rapporti che l’islamismo, come specifica ideologia costituitasi a partire dal XIX secolo, ha intrattenuto con la critica della modernità sviluppatasi in Occidente, nelle sue più disparate inflessioni. Per quanto il finale dell’articolo, ribadendo la propria fiducia nel canone classico del razionalismo europeo, si dispensi dal problematizzare le radici razziali e coloniali dell’astratto umanesimo di matrice liberale, crediamo che molte delle sue riflessioni possano contribuire a una discussione che, paradossalmente, verta proprio su tali assunti. L’islamismo si configura infatti, ormai da qualche decennio, come un’ideologia dotata di un’enorme capacità di mobilitazione contro quella che, con Césaire, potremmo definire «la barbarie dell’Europa occidentale». Senza disconoscere quanto spesso esso possa assumere delle forme altrettanto brutali e disumanizzanti, si tratta di riconoscerne le molteplici sfaccettature e di non cedere a una visione macchiettistica o omogeneizzante, in cui i rapporti di forza macropolitici sfumano nel magma dell’indifferenziato (per cui l’uno vale l’altro). Del resto, come dimenticare l’importanza della Nation of Islam nella prima esperienza di soggettivazione politica del giovane Malcolm X? O di quanto il suo antirazzismo e anticapitalismo abbia dovuto alla sua fede islamica?
Tornare a ragionare di tutto ciò, nel mentre che Israele procede a passo spedito con la propria politica coloniale e islamofoba e che i palestinesi reagiscono «con ogni mezzo necessario», ci sembra quantomai necessario.
[Andrea Caroselli]
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Chi legge quest’articolo è probabilmente al corrente che il suo autore è regolarmente definito un islamo-gauchiste. Lungi dall'essere un problema, questo è un vantaggio per comprendere meglio i significati di un’espressione divenuta sempre più comune. Il modo molto sorprendente, per me innanzitutto, attraverso cui sono diventato, improvvisamente e mio malgrado, islamo-gauchiste, è illuminante. Iniziamo dal sottolineare che non sono un islamologo e che non ho mai preteso d’esserlo. A riprova, la mia tesi di dottorato era sull'occidentalizzazione del buddismo. Vi analizzavo le modalità in cui si è gradualmente costruita, di pari passo con la globalizzazione, in Europa e in America del Nord in particolare, una visione idealizzata di questa religione dell’estremo oriente. Dopo la difesa della mia tesi, una ventina d’anni fa, il sociologo Jean Baubérot, che era membro della giuria, mi diede un suggerimento inaspettato. Ricordo ancora il suo sorriso malizioso quando mi ha detto: «Hai mostrato chiaramente come il buddismo è diventato la buona religione dell'Occidente, forse potresti provare a capire con lo stesso metodo come l’Islam sia divenuta la cattiva». L’idea mi intrigava. Mi sono allora concentrato sulla visione occidentale dell’Islam. Più precisamente su quella degli europei e prima di tutto dei francesi. Ho anche pubblicato articoli confrontando la visione orientalista e idealizzata del buddismo e la visione, anch’essa orientalista e idealizzata, dell’Islam. Alla fine del XVIII secolo e almeno fino al XIX secolo, l’Islam beneficiava di un’aura sia filosofica che spirituale, paragonabile a quella del buddismo di oggi. Il mistico René Guénon, così influente nelle società esoteriche dall’inizio del XX secolo, e ancora oggi tra molti massoni, era ad esempio più affascinato dall'Islam che dal Buddismo. Il mio articolo mostrava come l’Islam avesse perso quest'aura, attraverso l’esperienza storica della colonizzazione e della decolonizzazione, e poi il rifiuto dell'immigrazione. Per riassumere la mia ipotesi: l’Islam è diventato troppo presente, innanzitutto umanamente, per rimanere esotico; troppo associato a problemi economici e ansie sociali [2]. Nessuna visione idilliaca, quindi, da parte mia, ma solo una ricerca sull'evoluzione delle rappresentazioni, svolta con gli stessi metodi della mia tesi sul buddismo. Questo studio è certamente suscettibile di critica, ma non ha finalità ideologiche.
Come sono diventato un islamo-gauchiste
Decisi di andare oltre, spinto dalla curiosità, dalla celebre libido sciendi, il desiderio di sapere. Dalla metà del primo decennio del ventunesimo secolo, l’Islam non è più solo denigrato, oggetto di condiscendenza, assimilato alla religione del colonizzato. È diventato l’oggetto dell’angoscia di essere colonizzati da coloro che «noi» avevamo una volta colonizzato, sarebbe a dire arabi e africani. Queste persone di origine non-europea, in particolare i maghrebini che si sono stabiliti alle nostre latitudini, sono diventati tutti potenzialmente musulmani. La parola «musulmano» divenne ufficialmente una specie di nome in codice, ufficialmente non-razzializzato, per designare l'altro intollerabile, lo straniero dell'interno segretamente superpotente e in guerra con «noi». Il termine «occupazione» per designare «le preghiere di strada» causate dall'esiguità di certe moschee (ho controllato!) non lascia alcun dubbio.
Il capovolgimento è suggestivo: i musulmani adesso sono percepiti come i più forti. Simbolicamente prima di tutto (avrebbero un potere culturale) e numericamente (grazie all'immigrazione di massa, a un tasso di natalità superiore alla media e a un numero di conversioni vertiginose). Ho ingenuamente voluto verificare queste affermazioni «catastrofiste», consultando le statistiche disponibili. Francamente, sono rimasto sorpreso dai risultati che hanno mostrato grosso modo che l’immigrazione dai paesi musulmani è stata stabile (un po’ meno oggi con gli eventi siriani); che il tasso di natalità dei presunti musulmani era inferiore alla media; e infine che il tasso di conversione era molto basso (ad esempio, inferiore alle conversioni al cristianesimo evangelico).
Quando nel 2012 ho pubblicato Le Mythe de l’islamisation, per me un libro di sociologia non polemico, che forniva in maniera chiara le sue fonti e dava diverse ipotesi, sono stato oggetto d’attenzione mediatica. Ho dovuto difendermi immediatamente – prima ancora di parlare del contenuto reale del libro - contro chi m’accusò di essere incredibilmente irrealista; d’avere intenzioni malevole; d’essere un utile idiota al servizio dell'islamismo conquistatore; anche d’essere un dhimmi (un non musulmano soggetto ai diktat dell'Islam). Fui anche accusato di essere un collaborazionista, dal momento che l’Islam stava diventando lo stendardo di guerra di una forza d’occupazione nemica e superpotente. I siti anti-musulmani come Riposte laïque infuriavano contro di me e anche alcune star dei media come Caroline Fourest, in piena crociata contro Tariq Ramadan (lo stesso Tariq Ramadan di cui comunque criticavo il discorso [3], ma di certo senza demonizzarlo). È così che sono diventato un islamo-gauchiste: non più un normale ricercatore, neanche solo un testimone, ma l'attore recalcitrante di una messa in scena sociale che è al di là di me.
Islamismo e gauchisme
Ho quindi cercato di capire questa strana situazione, tanto interessante sociologicamente quanto scomoda personalmente. Cominciamo dal principio. Il legame storico tra certe ideologie della sinistra e l’islamismo è innegabile. Non con l’Islam in quanto tale, ma con l’ideologia islamista che è stata costruita a partire dal XIX secolo, in parte attraverso la critica dell’Occidente moderno, quindi del consumismo, poi del colonialismo e, più in generale, della disuguaglianza razziale e sociale. Non dimentichiamo che le fonti intellettuali della Fratellanza musulmana e dell’islamismo in generale – come Sayyid Qutb, che soggiornò negli anni Quaranta negli Stati Uniti, di cui odiava la cultura composta, secondo lui, di jazz bestiale, di promiscuità sessuale e di disuguaglianza sociale – erano avidi lettori dei grandi pensatori marxisti e dei teorici della scuola di Francoforte, che mettevano in discussione la società dei consumi e la degenerazione delle democrazie liberali, aggiungendovi una dose islamica di disgusto per i costumi malvagi. Ricordiamoci anche l’importanza della variabile musulmana nella lotta per i diritti civili negli Stati Uniti negli anni sessanta, con figure emblematiche come quella di Malcom X, divenuto martire della causa degli afroamericani. L’islamismo si presentò apertamente come il paladino della lotta contro il capitalismo distruttivo, portatore delle rivendicazioni dei dannati della Terra. Una sorta di religiosità terzomondista, alternativa al cristianesimo occidentale dominante che aveva dato i natali al capitalismo (secondo la celebre tesi di Max Weber). Del resto, questo orientamento ideologico non era originariamente esclusivamente a sinistra. Tutta una parte dell’islamismo si impregnò del decadentismo heideggeriano antimoderno, compreso lo stesso Qutb, che era anche un nazionalista estremo. Si dice persino che l’Imam Khomeini fosse un avido lettore di Martin Heidegger. La mistica dell'autenticità, del radicamento tradizionale, simmetrico del disgusto dell'inautenticità e dello sradicamento moderno, fece una grande impressione su alcuni padri dell'islamismo. Ma, infine, è la tendenza vagamente marxista, in ogni caso anti-consumista, che ha preso il sopravvento. È senza dubbio ciò che nel 1978 suscitò l’ammirazione di Michel Foucault, allora presente in Iran per conto di giornali europei. Il filosofo della libertà si dirà «impressionato» dal potere emancipatore di quella «spiritualità politica» che è lo sciismo. Riconoscendo di non conoscere a fondo l’Islam e ancor meno l’Iran, fu cieco alle potenziali derive violente, così come alle fonti reazionarie del khomeinismo. Lui che fu il feroce critico di tutte le forme di controllo politico e dell’insinuarsi del potere nel cuore dell’intimità. In ogni caso, c’è un punto sul quale Foucault non si è sbagliato: c’era davvero là una «spiritualità politica», che si potrebbe chiamare l’islamo-marxismo, che, nella sua versione radicale, ha potuto arrivare sino a giustificare gli atti terroristici dagli anni ’80 agli attacchi alle torri gemelle di New York, città faro della cultura finanziaria e del consumo occidentale. Olivier Roy sottolinea, contro coloro che vorrebbero vedervi l’espressione di uno choc di religioni e civiltà, che la maggior parte degli attacchi terroristici islamisti fino all’11 settembre 2001 mirano a bersagli simbolici della società dei consumi, del capitalismo e non a dei simboli religiosi. Il terrorismo islamista tenterà così, usando le medesime modalità d’azione, a sostituire i movimenti violenti d’estrema sinistra come le Brigate Rosse in Italia, Action directe in Francia o la Banda Baader-Meinhof in Germania. Tutti quei gruppi rivoluzionari smantellati negli anni ’80.
La crisi d’identità delle società occidentali
Quindi, sì, ci sono ragioni oggettive per connettere determinate tematiche di sinistra e alcuni movimenti islamisti. L’incongruenza non deriva dalla connessione, ma dal crescente successo, di questi tempi, dell’espressione «islamo-gauchisme» – più o meno dalla metà del primo decennio degli anni 2000. Strano, in effetti, che dal momento in cui nessun intellettuale, di sinistra o no, è più affascinato dall’islamismo, l’espressione si sia generalizzata. Si diffonde, ma cambiando di senso. Invece di designare un corpus di idee, diventa esclusivamente polemica, e serve a screditare l'avversario nei dibattiti su qualsiasi cosa. In particolare – come mi sono reso conto diventando parte della categoria, come ho detto – nei dibattiti sul significato della laicità e sul trattamento delle popolazioni musulmane che vivono qui. Un François Burgat, un Olivier Roy, un Jean Baubérot, un Pascal Boniface potrebbero essere esclusi dai dibattiti con il pretesto di essere compagni di strada dell'islamismo. I primi due sono chiaramente degli islamologi e dei politologi, che ovviamente si interessano dell'Islam politico come oggetto scientifico, si situano piuttosto a sinistra, e sono preoccupati dai discorsi identitari che sempre più si intestano l’etichetta laica. Ma al di fuori di questo, non concordano quasi su niente! Il terzo, Baubérot, è semplicemente l'accademico specialista della laicità più riconosciuto al mondo. Per meritarsi l’insulto di islamo-gauchiste non ha fatto altro che ritornare sulla sua definizione storica e giuridica. Infine, l'ultimo è un geopolitologo e, per quel che ne so, ha solo sottolineato che si può essere critici nei confronti della politica dello Stato di Israele senza essere antisemiti. E io non ho fatto altro che scrivere, grosso modo, che non c'era nessun progetto concordato tra i musulmani per conquistare l'Europa, per sommergerla, e che indossare il velo non era un emblema di conquista. È piuttosto banale, a dire il vero. E lo ripeto, i miei interessi scientifici non si concentrano sull'islam ma sui cambiamenti dell’identità umana nel XXI secolo. A riprova, le mie pubblicazioni – che sono su temi disparati, e quindi sono sconcertanti, a chi mi vorrebbe come un islamo-gauchiste di professione – sulle nuove spiritualità, lo sviluppo personale, le sette, la paura collettiva dell'intelligenza artificiale (forte almeno quanto la paura dell'Islam), la paura di essere sostituiti dalle macchine, l'evoluzione delle relazioni di genere, ecc.
La più grave, è la crisi dell'universalismo
Credo che il mio focus sulle identità, sia come sociologo che come filosofo, mi sia stato utile. Difatti, il nuovo e generalizzato uso della parola «islamo-gauchisme» si può spiegare in relazione alla crescita del complesso di inferiorità dell’occidente di fronte della perdita della centralità mondiale dell'Europa, e ora anche degli Stati Uniti [4]. Dal 2003, abbiamo osservato il crescente successo di discorsi decadentisti, tragici, che annunciano il crollo dell'Europa. Sarebbe a dire della caduta dei valori cristiani, dei valori repubblicani, dei valori democratici - non solo in Francia, ma anche in Austria, Italia, Spagna, in Olanda, Regno Unito. Questo ovunque in Europa. Piccole formazioni politiche che portano avanti questo discorso continueranno a sorgere, né di destra né di sinistra ma assurgendo a difensori dei «popoli» attaccati dalle molteplici forze della globalizzazione, del capitalismo, degli stranieri, e dell’islam come una forza che le sintetizza tutte: globale, anticristiana, antidemocratica, contro l'uguaglianza di genere e persino, come scrive Richard Millet, alleata del capitalismo (ultimo punto agli antipodi delle ideologie islamiste di sinistra e di destra!). Questi piccoli partiti sono diventati sempre più importanti: il vecchio Front National in Francia (che improvvisamente iniziò a difendere la laicità, da quando diventò un principio di guerra identitaria e non di libertà di culto), l'Unione Democratica di Centro in Svizzera (che ha vietato la costruzione di minareti), il Partito della Libertà dall'Austria, il Partito del progresso in Norvegia, Alternativa per la Germania, il partito per l'indipendenza del Regno Unito (UKIP), ecc. Questi discorsi si infiltrano nel grande pubblico e nei partiti classici di destra come di sinistra. È quello che chiamiamo populismo: né di destra né di sinistra ma che si fonda sulla messa in scena cospirativa e angosciata della guerra contro il popolo. In nome della difesa sentimentale dei nostri valori (democratici, cristiani, laici, tutti confusi come un unicum), li erodono concretamente. Li si attacca per difenderli, perché ci sarebbe un'emergenza. Dalla tutela della libertà di culto, la laicità diventa un principio di igiene dell'identità. A causa della mancanza di argomenti razionali con cui opporsi a coloro che rifiutano questi abusi, li si classifica come «islamo-gauchistes»; in altre parole traditori, collaborazionisti, deboli, irrealistici. Perché il populista ha il culto del «reale», di ciò che tutti provano. Conosce la verità della guerra che si svolge e per la quale non possiamo procrastinare.
Sono questi tipi di discorsi nazionalsocialisti (né sinistra né destra) che già in diverse occasioni non sono riusciti a distruggere la società liberale, quella della parità di diritti e della libertà di espressione. Lo stesso tormentone viene tuttavia riprodotto ancora e ancora. Con sempre gli stessi ritornelli. I traditori erano i dreyfusardi alla fine del XIX secolo europeo perseguitato dal collasso. Negli anni Trenta erano quelli che rifiutavano di vedere l'attacco giudeo-bolscevico. Oggi i traditori sono quelli che si rifiutano di permettere che i nostri principi siano distorti alla luce dei nostri disagi esistenziali, sociali ed economici in questo inizio di millennio che ci sfugge. L’atmosfera soffocante ci circonda, con attori volontari o recalcitranti [5]. Da un lato il vero popolo ingannato e ridicolizzato, con i tragici eroi/araldi, politici o giornalisti, come alleati, che si dicano di sinistra o di destra. Dall'altra i falsi popoli, imbroglioni, cittadini finti che potrebbero essere privati della loro cittadinanza più legittimamente che un serial killer, e di cui il musulmano diventa l’idealtipo; e che sono protetti da traditori che sciamano ovunque in televisione, sui giornali, in politica, collaborazionisti, bobos senza fede o legge. In breve, gli «islamo-gauchistes».
Questa confisca del dibattito attraverso l’attribuzione del ruolo di nemici o traditori a qualsiasi oppositore è molto grave. La posta in gioco, soggiacente, è la ridefinizione dell'universalità. La messa in discussione della società liberale così come fu sviluppata da Emmanuel Kant, Benjamin Constant o Alexis de Tocqueville. La messa in causa di ciò che risale al relativismo di Montaigne e de Montesquieu: rispetto per il modo di vivere e il pensiero degli altri nel limite del loro proprio rispetto per il nostro modo di vivere e il nostro modo di pensare. La messa in relazione (da cui «relativismo») degli uomini, a partire da un loro comune: il desiderio di vivere in pace. La ridefinizione populista dell’universalismo come un valore esclusivo – il paradosso è notevole – è esattamente l’opposto: è il rifiuto di accettare che l'altro viva tra «Noi», con il famoso slogan: «Che ritornino a casa loro se non stanno bene qui». Slogan applicato, ad esempio, ai giovani di origine maghrebina, ridotti alla loro islamità, anche se nati in Francia. Così come i loro genitori. Proprio come i loro nonni. Questo è quello che chiamiamo differenzialismo: «Stanno molto bene nella loro differenza finché restano a casa loro». Per un differenzialista come Samuel Huntington, gli «altri», i musulmani per esempio, sono culturalmente inadatti all'universalità, che non sarebbe altro che una produzione culturale degli occidentali per occidentali, con il corollario della loro inattitudine alla democrazia e persino alla libertà.
Il dibattito è chiaro. Da parte mia, resto ostinatamente dalla parte dei diritti umani, della vera libertà, così come la concepiva Montaigne e Kant, e quindi, ovviamente, dalla parte della laicità di Aristide Briand, quella della legge del 1905. Che ciò mi renda o no un islamo-gauchiste.
Note [1] Traduzione dal francese di Andrea Caroselli. Pubblicato come De quoi l’islamo-gauchisme est-il le nom? «Revue Des Deux Mondes», ottobre 2018. Raphaël Liogier è un sociologo e filosofo francese, professore a Science Po Aix e ricercatore alla Columbia University a New York. [2] R. Liogier, Deux perceptions différentes de la religion minoritaire en Europe: islam et boudd- hisme, in J.-P. Bastian - F. Messner, Minorités religieuses dans l’espace européen. Approches sociologiques et juridiques, Presses universitaires de France, 2007. [3] R. Liogier, Une laïcité «légitime». La France et ses religions d’État, Entrelacs, 2006. [4] R. Liogier, Le Complexe du Suez. Le vrai déclin français (et du continent européen), Le Bord de l’Eau, 2015; La guerre des civilisations n’aura pas lieu. Coexistence et violence au XXIe siècle, CNRS Éditions, 2016; coll. «Biblis», 2018.. [5] R. Liogier, Ce populisme qui vient, Textuel, 2013.
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