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Immagine di Roberto Gelini

Nella primavera del 2022 si è tenuto alla libreria Punto Input di Bologna il corso «Epistemologie», con l’obiettivo di cominciare a distinguere alcune delle forze che entrano in gioco nel «campo scientifico», con l’idea di valicare i perimetri disciplinari contrassegnati in genere da questa locuzione. Si è trattato, nelle intenzioni dei promotori, di individuare alcuni nodi che contraddistinguono la riflessione teorica sulle scienze ma che non permettono di isolarla in un campo «a parte» rispetto ad altri campi conoscitivi. Mattia Galeotti e Alessio Resenterra, i coordinatori del corso, introducono qui i contenuti di questo percorso di ricerca; pubblicheremo in questa sezione i diversi materiali del corso.


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Il percorso che qui presentiamo è iniziato poco più di un anno fa: è un percorso di studio e approfondimento dentro il tessuto delle pratiche scientifiche, cioè dentro quella galassia che ruota attorno ai concetti di Scienza, tecnologia, tecnica e progresso scientifico. L’esigenza che ci muoveva mentre cominciavamo questo cammino, era di tratteggiare meglio quali forze ed equilibri tenevano in piedi questi concetti, che ci sembravano tutt’altro che monolitici e chiari: la vaghezza di quelle parole nel discorso pubblico non era solo il riflesso di una discussione frettolosa, ma una condizione strutturale che ci sembra accompagni tutt’ora i dibattiti su questi temi. La vaghezza, inoltre, non significa che le parole mobilitate abbiano poca potenza nell’economia discorsiva, anzi, la performatività del «sapere scientifico» è legata a doppio filo con l’opacità dei termini del discorso.

A seguito dell’emergenza pandemica, la parola degli «scienziati» e degli «esperti» è diventata, ancor più che in precedenza, il nodo centrale di ogni operazione linguistica e mediatica che avesse un vasto risalto nello spazio pubblico. Scavare nel profondo dei discorsi esposti come «scientifici» è una necessità per comprendere gli equilibri e le forze che sottendono alla produzione scientifica e a ogni operazione politica organizzata su larga scala.

In campo critico, ci sembra che uno spazio di discussione approfondita sui cambiamenti in atto sia mancante, e questo ci lascia tanto più disorientati nel momento in cui discorso scientifico e dispositivi tecnici vengono continuamente mobilitati per gestire la moltiplicazione di diverse emergenze (ambientale, sanitaria, disastri naturali, guerra ecc.). Una trattazione superficiale della categoria «pigliatutto» di non-neutralità scientifica, ha nascosto quelle che riteniamo essere le vere poste in palio nel momento in cui nuovi dispositivi e tecniche diventano così pervasivi: per come è quasi sempre interpretata, la non-neutralità ha solo ribadito una presunta dicotomia tra il campo della ricerca pura, dei saperi, e quello delle strutture umane (accademiche, disciplinari, direttamente politiche) che si innestano sopra quei saperi. Insomma, tutto è stato spesso ridotto a un discorso sulla mediazione che interviene tra le verità scientifiche e il contesto sociale o l’organizzazione sociale. È stata invece quasi assente un’analisi dei modi in cui diverse posture conoscitive, o diverse esigenze politiche o di altro tipo, intervenissero direttamente dentro il campo del sapere, andassero a determinare la forma e alcuni contenuti delle conoscenze stesse. La tensione causata dai problemi del cosiddetto «complottismo» o del «negazionismo del covid», invece che indurre un ulteriore approfondimento, ha piuttosto appiattito i posizionamenti.

Ancora, la crescita costante di prodotti e strumenti ad alto contenuto tecnologico, è accompagnata da una narrazione spettacolare dell’innovazione tecnica e della produzione scientifica. Ma nonostante le critiche mosse da molti tecnici, scienziati e semplici utilizzatori dei prodotti tecnologici – ai modelli di studio e di integrazione delle innovazioni tecnologiche nella vita pubblica – a oggi questa potenza tecnologica quotidiana è incanalata da un alto grado di subordinazione degli stessi utilizzatori rispetto ai modi predefiniti di utilizzo.

A partire dagli ultimi decenni del Novecento, l’emergere di nuove tecnologie digitali ha fatto fare un salto ai processi di accumulazione e di estrazione di valore, oltre che a nuove forme di organizzazione del lavoro; la diffusione pervasiva di computer, smartphone, sensori, semplici dispositivi automatizzati, ha anche spalancato le porte a una riflessione sui fini e i possibili utilizzi di queste macchine. A oggi, però, nessuna «alterità» sembra in grado di scalfire in modo sostanziale la logica proprietaria e di controllo.

A una certa autonomia della nuova figura lavorativa legata al lavoro «immateriale/cognitivo» (e a una presunta orizzontalità della rete), si è quindi contrapposto una continua cattura valoriale degli usi di questi saperi e di questi strumenti (in particolare quelli informatici). Non che qualsiasi ambivalenza sia stata assorbita, ma non è sufficiente fermarsi alla critica dell’uso capitalistico della scienza e della tecnologia, occorre spingersi all’interno del tessuto stesso dei discorsi tecnico-scientifici e del funzionamento dei diversi dispositivi, per analizzare e capire quali contenuti, metodi, problemi e priorità si pongono gli scienziati, i tecnici e chiunque usufruisca di strumenti ad alto contenuto tecnologico.

Il corso svoltosi alla libreria Punto Input, e iniziato nella primavera del 2022, aveva quindi l’intenzione di cominciare a distinguere alcune delle forze che entrano in gioco in quello che abbiamo chiamato «campo scientifico», con l’idea di valicare i perimetri disciplinari contrassegnati in genere da questa locuzione. Si trattava, cioè, di individuare alcuni nodi che contraddistinguono la riflessione teorica sulle scienze ma che non permettono di isolarla in un campo «a parte» rispetto ad altri campi conoscitivi. Per noi questi nodi sono stati: il ruolo delle diverse discipline come modi di conoscenza, con particolare riferimento ai limiti del paradigma fisicalista nelle scienze del vivente e dell’ambiente; lo statuto della novità nei processi dinamici, ancora una volta con particolare attenzione ai processi del vivente e della mente; la nozione di complessità; lo statuto degli ideali del sapere, cioè il ruolo sociale assunto dai diversi saperi scientifico; il rapporto tra la soggettività dei ricercatori e l’oggettività dei saperi, in particolare attraverso il prisma di una scienza non-neutra, perché originata in un paradigma genderizzato, maschile; infine il ruolo del macchinico, e quindi il rapporto (mai unidirezionale) tra tecnologia e teorizzazione.


Di cosa parliamo quando parliamo di scienze?

Vogliamo individuare alcuni nodi di ragionamento che sono emersi all’interno del seminario, oppure sono stati toccati o sviluppati nelle pagine di questo testo, e che sembrano centrali nel rapporto tra sapere scientifico, riorganizzazione degli spazi di governo e dei modi di produzione. Il quadro generale ci sembra essere quello di un’«epoca delle crisi» e delle «emergenze», un’epoca cioè in cui il dispositivo emergenziale diventa sempre più ricorrente, venendo a sovrapporsi e aggiornare il funzionamento dello spazio democratico. I saperi scientifici in questo quadro sono allo stesso tempo un linguaggio diffuso, ma anche uno strumento di legittimazione e organizzazione pratica di specifiche visioni del mondo, partecipano alla produzione di soggettività, e anzi forse possiamo vederli come saperi privilegiati, in quest’epoca, per l’esercizio di varie discipline governamentali.

Qui sotto abbiamo riportato alcuni degli spunti emersi durante gli incontri e che vorremmo utilizzare come domande guida per ulteriori lavori di ricerca e di critica all’interno del campo scientifico.


Scienziati ancora in guerra

Due giorni prima dell’inizio del corso, l’invasione dell’Ucraina e la guerra che ne è seguita segnavano un tornante storico che impone di approfondire ancora il rapporto tra ricerca scientifica e apparati militari. Lo sviluppo scientifico nei paesi più avanzati dal punto di vista capitalistico è strettamente legato all’organizzazione del lavoro, e in particolare all'industria bellica: lo scoppio di un conflitto armato interno alla stessa Europa incide già adesso – e lo farà ancora più in futuro – sulla programmazione dei finanziamenti alla ricerca pubblica, definendone i fini e alcune direzioni privilegiate. Indagare il legame tra ricerca e guerra rimane un terreno di inchiesta fondamentale per interpretare lo sviluppo tecnologico.

Con l’avvento della società industriale, a partire dal XIX secolo, gli scienziati vengono coinvolti sempre più e con maggiori responsabilità nella costruzione e nella direzione di nuovi sistemi d’arma oltre che nel sostegno a varie azioni e campagne militari. Dopo la prima guerra mondiale – in cui il ruolo dei tecnici fu centrale –, la diffusione del fordismo come metodo di produzione in Europa e negli Usa (e la necessità di creare nuovi mercati in seguito alla crisi del ’29) spinse nuove tecnologie di produzione di massa, accelerando il nuovo modello della Big Science. È proprio questo nuovo modo organizzativo che permetterà un diverso coordinamento tra scienziati e apparati militari, accentuato ancor di più dalla Guerra Fredda. Se nel primo Novecento l’obiettivo era un semplice aumento della potenza di distruzione, è con l’avvento del progetto Manhattan che la figura dello scienziato diventa capace di determinare l’esito della guerra. A questo salto di qualità, non solo di elementi tecnici ma soprattutto di potere, fa da contraltare l’emergere di una critica globale - anche dentro la stessa comunità scientifica – all’uso militare delle scoperte scientifiche. Nel 1955, dieci anni dopo Hiroshima e Nagasaki, viene pubblicato il manifesto Russell-Einstein, nel quale il filosofo-matematico Bertrand Russell e il fisico Albert Einstein si fanno promotori di una importante dichiarazione in favore del disarmo nucleare e della scelta pacifista. Da lì a poco nascerà nel 1957 la Pugwash Conferences on Science and World Affairs per mettere in guardia dai pericoli dell’uso militare dell’atomica. Una tra le più importanti esperienze di critica da parte di tecnici e scienziati, in Italia, ruoterà attorno al gruppo di Marcello Cini alla Sapienza di Roma e porterà in particolare alla pubblicazione de L’ape e l’architetto, un testo rimasto importante anche per pensare questo corso e che riemerge nelle bibliografie e negli interventi di molte persone intervenute.


La questione ecologica

Uno dei nodi emersi nel corso e più in generale da molti percorsi di riflessione attorno al ruolo dei saperi scientifici, è il tema ecologico: la crisi climatica, condizione largamente riconosciuta del nostro tempo, si trova a essere significata in molteplici modi grazie a concetti come «cambiamento climatico», «antropocene», «economia green», «riduzione delle emissioni». Questi concetti, anche quando vengono utilizzati per descrivere una data situazione, ospitano numerose forze performative. Riprendendo una delle linee di ragionamento che sono state più importanti all’interno del corso, ci chiediamo in che modo la distinzione tra il mondo organico e la materia inerte può essere tradotta al livello delle diverse ipotesi critiche e in lotta che si muovono attorno alla crisi ambientale. L’idea alla base della cosiddetta svolta green è che sia possibile concepire anche gli ambienti – le varie e numerose nature – come la somma di oggetti e soggetti numerizzabili e in qualche senso prevedibili. È questa impostazione che permette la politica delle compensazioni e l’idea di una transizione che salvaguardi l’accumulazione e il governo pur nel cambiamento di alcuni elementi del modello produttivo. In maniera rovesciata, sono tante, diffuse (e a volte contraddittorie) le resistenze alle opere di pianificazione dei territori.

Ci chiediamo se le nozioni di «mondo organico» e «vivente» possono costituire una base epistemica per il rifiuto della logica di accumulazione. Possono accompagnare l’emergenza di soggetti e/o situazioni impreviste? In che modo l’idea di alleanze e composizioni con il mondo organico – cioè di modi di vita e di produzione in cui è messa al centro la salvaguardia o l’aumento di potenza di alcuni processi che riguardano il vivente non-umano – trova sostegno anche in pratiche tecniche o scientifiche? E che effetti ha sull’idea di organizzazione e di potere conseguenti? Ci permettono di uscire dal binarismo tra la scelta di conservazione assoluta della natura (gestita dallo Stato), e quella di un intervento biotecnologico finalizzato alla risoluzione delle problematiche emergenti a ogni catastrofe ambientale?

L’interesse di queste domande è direttamente politico, perché l’ampiezza della crisi ambientale genera la ricerca di nuove strategie, di nuove prese di posizione, e anche la necessità di un nuovo senso, per rispondere ai grandi sconvolgimenti che ci attendono. Ci serve, detto in breve, una nuova idea di Natura dopo la «morte della Natura», che non sia più un oggetto da modellare, depredare o conservare. Un’idea di natura che permetta di misurarsi con la novità radicale, l’emergenza di nuove forme e ambienti, senza doverle ricondurre dentro modelli onnicomprensivi. Tenendo cioè conto della strutturale complessità e apertura di ogni quadro interpretativo, e quindi della ridondanza di ogni esperienza rispetto ai quadri epistemologici che la interpretano.


Macchine e algoritmi

I concetti di macchina informatica, algoritmo, computazione, sono ritornati più volte nel testo che stiamo introducendo. Se i LLM stanno diventando la tecnologia che accompagnerà una diversa diffusione dei processi di automazione, la narrazione di questi stessi strumenti non ha solo il ruolo di marketing, ma struttura l’immaginazione, lo stesso spazio delle possibilità che ci troviamo davanti. Cosa intendiamo con «intelligenza» nel momento in cui una tecnologia pensata come intelligente comincia a svolgere nel quotidiano così tante task? Che effetti produrrà questa nuova immaginazione sulle resistenze ai processi di ordinamento sociale? E collegato a tutto questo c’è ovviamente il tema della creatività, senza la quale non ci sembra possibile pensare nemmeno la politicità: bisogna approfondire in che modo la morfogenesi creativa si associa alla forma umana dei gesti di pensiero, alla loro strutturale incompletezza. Per questo ci sembra ancora che manchi ancora un’inchiesta sui comportamenti non macchinici e non automatizzati che si manifestano nel presente nei processi singolari e collettivi, in un momento in cui, in particolare, sembra prendere piede l’idea che le macchine possano svolgere praticamente tutte le attività umane.

Vediamo bene che questa ultima affermazione non corrisponde alla realtà, e però funziona come se potesse effettivamente tendere a una totalizzazione delle attività umane. Dove stanno i punti di caduta di questa contraddizione? All’interno del discorso mainstream rimane una falsa concezione dell’algoritmo, identificato sempre più spesso come «nuovo modello scientifico» per lo studio della realtà, sovrapponendo l’ipotesi scientifica con lo strumento usato per indagare la sua veridicità: in che modo quindi la diffusione di queste tecniche sta accelerando una mutazione nel rapporto tra scienze e verità? Tra autorevolezza dei tecnici e fiducia nel loro operato?


I tecnici e l’organizzazione del loro lavoro

Infine, questi nodi si collegano a un approfondimento sui tecnici e gli scienziati, la loro organizzazione, il funzionamento effettivo degli spazi accademici e di ricerca in cui il sapere scientifico «legittimo» viene prodotto. Che tipo di conoscenza viene prodotta dalle forme di vita immanenti di questi soggetti? L’intervento di Elisabetta Donini si è soffermato sulla spinta soggettiva che anima i saperi scientifici, in particolare attraverso il prisma del genere. Ci sembra che abbia un grande rilievo un approccio che tenga conto dei soggetti che fanno scienza, delle loro visioni e delle forze che portano (o che non riescono a portare) all’interno della ricerca scientifica.

In più, la forma attraverso cui il lavoro scientifico viene organizzato deve essere sempre più messa in relazione con la forma dei saperi prodotti. Non soltanto c’è bisogno di approfondire il modo in cui il sapere è sussunto dentro logiche di accumulazione – volte al profitto, all’organizzazione militare, al controllo ecc. – qualcosa che in un gergo marxista possiamo ricondurre alla sussunzione formale; ma in più, ci sembra che la specializzazione dei tecnici «duri» sia una forma di alienazione più profonda, riconducibile alla sussunzione reale, che non viene messa davvero in discussione dai richiami alla complessità o all’interdisciplinarietà. Una possibile pista da indagare nel prossimo futuro potrà avere per traccia l’analisi delle tendenze e delle strategie che i tecnici e gli scienziati mettono in atto di fronte al sopravanzare di sempre più ristrette forme di specializzazione e frammentazione del sapere: in che modo ci si oppone o si cerca di frenare il costante aumento del carico di lavoro/formazione, o anche in che modo si cerca di tornare ad avere una presa sulle conoscenze prodotte. In modo interessante, la partecipazione di molti scienziati all’attivismo ecologista, in diverse modalità, sembra fornire una prima parziale risposta a questa domanda: la rottura conflittuale della neutralità del sapere è la prima forma di riappropriazione della conoscenza.

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