In ricordo di Alberto Asor Rosa, scomparso il 21 dicembre 2022, pubblichiamo in due puntate l'intervista a lui dedicata, contentuta nel libro L'operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana (DeriveApprodi, 2008).
* * *
Infine la rivista [«Quaderni rossi»] esce, ha un successo formidabile.
Beh, formidabile mi pare un po’ esagerato. Non so nemmeno quante copie ne avessero tirate…
Nell’agosto del '61 si era tenuto il seminario di Agape…
Non vi partecipai.
… e nella primavera successiva si sarebbe svolto quello di Santa Severa.
L’incontro di Santa Severa è il momento in cui le diverse anime della rivista si evidenziano con maggiore forza, con maggiore capacità anche di resa, accompagnata però da spaccature nette e visibili; ad esempio di ciò, basti ricordare come la relazione su Marx tenuta da Mario venne immediatamente criticata, tacciata di hegelismo, accusa che molto spesso veniva indirizzata al gruppo dei neocomunisti romani. Mentre le riunioni di redazione dei «Qr» erano normalmente aperte e concluse dalle relazioni di Raniero, al seminario di S. Severa si optò per un dibattito basato su relazioni multiple: ci fu quella di Mario, ed anche una di Vittorio Rieser sul lavoro in fabbrica.
Ricordo un episodio: Raniero e io stavamo sostando di fronte all’ostello che ci ospitava, affittato a poco prezzo attraverso canali di tipo religioso da Mario Miegge, e d’improvviso si frantumò accanto a noi con grande fracasso un enorme vaso di gerani, lasciato cadere dall’altezza del secondo piano dalla coppia Gobbi-Alquati. La cosa provocò in Raniero uno scoppio d’ira inaspettato, dovuto alla pericolosità del gesto.
Nel luglio '62, la riunione di redazione coincide con le note vicende di piazza Statuto, di cui racconta la tua memoria sulle «Cronache dei Quaderni Rossi» [1]. Nella tua lettura dei fatti, viene sottolineata una contraddizione tra la mobilitazione operaia da un lato e i moti di piazza dall’altro. Ho capito bene?
Fra parentesi, da un punto di vista strettamente aneddotico, quella cronaca era stata scritta per «Mondo nuovo», che si rifiutò di pubblicarla, perché il suo direttore, cioè Lucio Libertini, la giudicò non pubblicabile. Anzi, per giunta ci incontrammo Libertini, Colletti e io, perché Libertini si era agganciato in quella fase a Lucio Colletti, che naturalmente considerava, nella sua superbia intellettuale, Raniero come un povero demente. Dunque questa cronaca era stata preparata per «Mondo nuovo», di cui ero collaboratore letterario, di costume ecc., ma Libertini non la volle pubblicare. Io adesso non la ricordo bene, ma temo che, nella rappresentazione dei fatti, questa contrapposizione tra la grande «forza tranquilla» degli operai in lotta e le manifestazioni di piazza fosse una contrapposizione enfatizzata a fini di ragionamento politico. Come a dire che bisognava proteggersi dall’accusa, che ci era stata mossa pubblicamente da «L'Unità», di essere i fomentatori e gli autori di questa sommossa popolare operaia, in un famoso articoletto che portava il titolo già di per sé significativo di Chi li paga?, opera probabilmente – ma questo non saprei dirlo con sicurezza – dell’allora segretario di federazione Adalberto Minucci, ma forse mi sbaglio [2]. Quindi c’era l’esigenza di recuperare la componente positiva della grande mobilitazione operaia cercando, come siamo soliti fare tutti, di distinguerci dagli eccessi di piazza, perché eravamo sotto tiro. Io direi che questa contrapposizione era enfatizzata per motivi tattici. A piazza Statuto c’erano migliaia e migliaia di operai, chiaramente anche organizzati dalla sinistra, che andavano a rifarsi alle spese della locale Uil di quel periodo di trauma profondo che era seguito alla sconfitta del '55. Insomma, direi oggi, erano più o meno l’espressione del medesimo movimento, naturalmente con la differenza rappresentata dal fatto che di fronte ai cancelli della Fiat c’erano 50-60mila operai, mentre lì ce n’erano due-tremila: quindi questa avanguardia violenta estrapolava dalla grande massa un gruppo più agitato e probabilmente più politicizzato.
Piuttosto io penso che quello sciopero, la manifestazione di piazza ecc. abbia contribuito ad aprire un solco dentro ai «Qr», perché Raniero rimase molto colpito dalle accuse di essere praticamente responsabile di questa cosa; quelle personalità sindacali, nazionali e locali, che avevano collaborato con i «Qr», per esempio nel primo numero, tra cui Vittorio Foa, si sganciarono a rapidità supersonica, e quindi lui provò il senso di un isolamento anche più grande di quello che era disposto ad accettare dopo le vicende dell’espulsione dal gruppo dirigente socialista. E quindi io penso che lì lui abbia cominciato a nutrire, come dire?, un atteggiamento di maggiore prudenza, e anche di distacco nei confronti di quell’ala del gruppo, composta anche in questo caso dai romani e dai lombardi, che invece era felice che tutto ciò fosse accaduto, perché sembrava che fosse la controprova vivente di quello che nei due-tre anni precedenti avevamo pensato e teorizzato.
Forse a questo punto vale la pena di parlare della quarta componente, che è la componente negriana. A un certo punto, nel manipolo di aderenti e componenti dei «Qr», arriva anche Toni Negri – che allora, se non ricordo male, era segretario della Federazione Socialista di Padova – e porta subito un’ulteriore accentuazione in questa sottolineatura dell’importanza della lotta operaia nel discorso di rinnovamento politico-intellettuale del tempo. Entra nei «Qr», ma per schierarsi insieme con noi.
Quando Mario, nei primi giorni del '63, gli annuncia «il nuovo corso» deciso da voi romani, Panzieri replica: «alla tua lettera con le proposte romane non si risponde, si esegue» [3]. Sembrerebbe che ci fosse tra voi un accordo, in prima istanza, che poi nel corso dei mesi successivi si rompe. Alla fine Panzieri sceglie la componente torinese. Come ricostruiresti queste vicende, e come le spiegheresti dal punto di vista di lui?
La lettera di Raniero a Mario l’ho letta stampata, nello svolgimento di quel periodo non me la rammento. Quindi non posso dire se lui abbia avuto un cambiamento di opinioni oppure se, come ritengo più probabile, abbia dato una risposta interlocutoria, anche se perentoria come tu la richiami, tanto per prendere tempo. Io do questa spiegazione, e non credo che sia una spiegazione ingenerosa nei confronti di Raniero. Io penso che lui non solo non avesse il coraggio, ma pensasse sbagliato il creare un polo di aggregazione intellettuale e politica, in prospettiva anche organizzativa, fuori delle organizzazioni tradizionali. Il progetto panzieriano è tipicamente un progetto orientato a creare le condizioni per muovere le grandi organizzazioni in una direzione piuttosto che in un’altra. Quindi arriva fino a ipotizzare l’uso operaio del sindacato, ma non arriva a ipotizzare che ci sia una linea che a un certo punto fa a meno sia del sindacato che del partito. Nei «classeoperaisti» certamente l’idea che si andasse alla creazione di una alternativa, non solo intellettuale ma politica e organizzativa, agli organismi tradizionali, non è mai stata secondo me chiara fino in fondo. Secondo me, l’ipotesi di partenza iniziale non conteneva chiaramente un «vogliamo fare un nuovo partito o un nuovo sindacato», ma il modo di procedere certamente poneva le basi di questo processo; e infatti, secondo me, nei due decenni successivi altri hanno sviluppato, magari catastroficamente, esattamente l’ipotesi realizzata fino a un certo punto da «Co», cioè l’idea che bisognava avere un organismo intellettuale e politico direttamente operaio. A un certo punto, come dicevo prima, non ci si è accontentati più di fare la campagna intellettuale e politica in senso astratto, ma si è teorizzato l’intervento; un minimo di organizzazione ramificata sul territorio nazionale, per quei tempi anche abbastanza visibile, fu creata; e Raniero a questo non era disposto, insomma. Io credo che la divisione fosse determinata da questo rifiuto. Poi ha avuto qualche aspetto poco simpatico, ma nella sostanza mi pare che si sia trattato di questa cosa qui.
Si interrompe così il tuo rapporto con Panzieri, che tuttavia è stato molto importante.
Ah, io lo amavo, l’ho amato moltissimo. Quando c’è stata la divisione, che poi è avvenuta appunto in questo modo poco simpatico di cui parlavo, cioè facendo uscire il terzo o quarto numero della rivista senza l’articolo che Mario aveva inviato…
ossia, posponendolo…
ecco, posponendolo, esattamente, ci rimasi malissimo, nel senso che la considerai una cosa molto grave anche sul piano personale. Ma questo non toglie che lui fosse un uomo straordinario. All’epoca doveva avere poco più di quarant’anni, eppure sembrava un uomo molto adulto, con una straordinaria cultura ed esperienza. Per definirlo non trovo modo più appropriato dell’uso di una parola classica: maieuta. Lui si trovava di fronte a un tavolo composto fondamentalmente da ragazzotti e ne cavava fuori, faceva in modo che questi cavassero fuori il meglio di sé. La sua intelligenza, la sua cultura, anche filosofica, piuttosto vasta... Ricordo in quali ristrettezze economiche, a volte drammatiche, riuscisse a portare avanti i suoi studi e le sue iniziative, a badare ad una famiglia numerosa, cui era legatissimo, e il tutto con una dignità estrema, con un portamento da gran signore. Gli anni a Roma furono davvero duri per lui; a Torino poté stare un po' meglio. Che sia sparito così presto è stata una perdita dolorosa e incancellabile, per me almeno.
Il primo numero di «Co» esce nel gennaio '64. In quello stesso mese nasce il Psiup [4] e, soprattutto, viene varato il primo governo di centro-sinistra «organico» [5]. C’è una logica, in questa concomitanza? Si può leggere la vostra storia per rapporto a una precisa strategia economico-politica capitalistica?
Io credo che più che di «risposta», si possa e si debba parlare di sfalsatura. Nel senso che «Co» nasce nella fase declinante delle lotte operaie e mentre il capitale si riorganizza, per dirla schematicamente, rispetto alla fase precedente di lotte, inventando non casualmente, io credo, la formula del centro-sinistra. Quindi io di «Co» – non so cosa ne pensi Mario, ma forse concorderà – penso che nasca controtempo. Questa cosa è capitata anche un’altra volta, cioè con «Contropiano». Si chiude «Co», ci sono un paio d’anni di intervallo, decidiamo di fare uno strumento di riflessione di lungo periodo, una rivista che esce tre volte l’anno, molto ponderosa, per un futuro imprevedibile. L’anno in cui esce «Contropiano» è il '68, l’anno che viene dopo naturalmente è il '69, il progetto della riflessione di lungo periodo salta, tutti si precipitano a fare qualche cosa di buono o di cattivo… Secondo me, anche «Co» nasce in controtendenza, perché nasce come effetto della stagione di lotte operaie che prepara e culmina nel '62, ma quando queste lotte operaie stanno declinando, e con un fatto politico nuovo molto rilevante, che noi volevamo e abbiamo cercato di demistificare, ma insomma era un fatto…
…di grande politica, visto retrospettivamente.
di grande politica. Questi, di fronte all’urgenza degli avvenimenti, alla pressione dei fatti, aprono ai socialisti, insomma. Allora era un fatto tutt’altro che irrilevante. Quindi secondo me «Co» urta contro questo duplice ostacolo e forse questo ne spiega anche la conclusione. No? Non è chiaro?
Intendi dire che il soggetto operaio non è all’appuntamento…
Diciamo che dopo tre anni… quanto dura?
'64, '65, alla metà del '65 si nota un rallentamento.
Beh, ecco, dopo due anni l’aggancio con il soggetto, ma questo lo dico retrospettivamente, l’aggancio con il soggetto non si verifica. Io interpreto anche la fase dell’intervento come una specie di tentativo di forzare la situazione che si era creata, in certo senso rilanciare. Ma insomma, da nessuna parte il seme gettato fruttifica. E di conseguenza, a un certo punto, c’è un ripensamento da parte soprattutto dell’attore principale, cioè Tronti, che rivede il giudizio sulle organizzazioni storiche, propone di abbandonare il minoritarismo dell’esperienza di «Co» e rilancia quel discorso, che per tanti anni abbiamo cercato di praticare, del lavoro all’interno.
Il convegno di Piombino, maggio '64, è il momento d’avvio della linea di intervento.
Beh, al convegno di Piombino sembrava di essere in un romanzo russo dell’Ottocento. Sì, un momento bellissimo, molto disagiato perché io, nonostante le mie origini contadine, quando vado a dormire vorrei avere un letto come si deve, invece eravamo accampati in certi alberghetti pieni di pulci… Certamente lì c’è il massimo della concentrazione raggiunta da questo movimento, oltre ai protagonisti che sono stati evocati finora c’era un sacco di altre persone, più o meno marginali, da Milano, Torino, Genova, da Padova che allora stava diventando una realtà molto ben identificata, dalla Toscana… Era insomma presente a Piombino il tessuto che il giornale aveva messo in luce con un minimo di autorganizzazione. Ed è il convegno in cui viene lanciato l’intervento, in cui hanno la rilevanza massima Romano, Toni, ecc.
Però già nell’agosto '64, con la morte di Togliatti, l’apertura di una dialettica interna al Pci…
Beh sì, la cosa si consuma in pochi mesi…
Infatti 1905 in Italia compare già nel numero di settembre di quell’anno.
Perché Mario era rimasto impressionato dal numero di partecipanti al funerale di Togliatti! Quindi Piombino è a maggio, naturalmente ad agosto è il funerale di Togliatti, poi a poco a poco si va spegnendo la cosa.
Come erano strutturate le riunioni di redazione di «Co»?
«Co» aveva una redazione, che è quella che risulta nella rivista. Questa redazione si riuniva in vari posti, spesso a Padova, poi a Torino, a Firenze, dove ci fosse un luogo in cui poterci riunire. Si iniziava con una relazione di Tronti, a cui seguivano i vari interventi che verificavano la linea. Ricordo Romano Alquati e Toni Negri, che non andavano mai d'accordo e si dicevano delle brutte parole a ripetizione.
I tuoi scritti su «Co» sembrano segnare un passaggio rispetto ai precedenti, anche quello comparso sui «Qr» [6]. Scompare la prospettiva di collaborazione a un’ipotesi di «cultura socialista», e il tuo primo titolo, Fine della battaglia culturale, lo esprime chiaramente. C’è come un irrigidimento teorico, il cui apice mi pare l’ Elogio della negazione [7].
Tutta l’esperienza di «Co» è connotata da un tratto estremistico. Credo non soltanto per quello che mi riguarda, ma un po’ come tonalità e mentalità generale del giornale. Questa è sicuramente, per quanto mi riguarda, la fase in cui la negazione della possibilità di un uso alternativo degli strumenti culturali è più radicale, è più totale. E la spiegazione sta probabilmente nel privilegiamento forsennato della politica e della prassi su tutto il resto. Non è un periodo molto fecondo da questo punto di vista, però per altri versi, anche tenendo conto degli anni in cui le due cose si svolgono… Questo è un po’ lo spirito di «Co»: l’idea che io non avessi intenzione di elaborare una diversa linea di critica della letteratura, bensì una sorta di negazione di quell’uso improprio della letteratura che era stata fatta dagli scrittori populisti o dai critici progressisti, per andare alla sostanza, credo sia presente anche nella prefazione di allora di Scrittori e popolo. Se valesse la pena rammentarlo, in «Contropiano» secondo me ritorna un’attenzione più specifica su questo tipo di cose. Per esempio c’è un interventino su Majakovskij che spiega secondo me come «ricominciare» [8].
Comunque Intellettuali e classe operaia, la tua raccolta del '73, parte dagli scritti di «Co», cassando quasi tutti i precedenti [9]. Vuol dire che in essi si esprimeva una prospettiva cui in seguito hai riconosciuto un valore «inaugurale».
Beh sì, un punto di partenza.
Questo tuo contributo teorico al giornale appare di primo piano…
Ma non credo invece che interessasse molto… Interessa i lettori successivi, ma nel complesso del gruppo di «Co» questi erano ragionamenti piuttosto marginali, non potevo pretendere che uno come Romano Alquati se ne interessasse.
Il '64 è anche l’anno in cui viene pubblicato il convegno di Palermo del Gruppo 63 [10]. Anche l’ipotesi neoavanguardista intende corrispondere al bisogno di aggiornare gli strumenti culturali di fronte alla realtà del neocapitalismo. Tu ne scrivi abbastanza prudentemente, mi sembra, sui «Quaderni piacentini» [11].
Guarda in quel momento noi ne avevamo – non vorrei usare una parola troppo forte – un sovrano disprezzo, perché ci sembravano dei perdigiorno, dei perditempo a pagamento. In termini generali, se uno dovesse rifare la storia della cultura italiana di quegli anni, potrebbe affiancare le due cose come sintomi dello sgretolamento del vecchio grande blocco unitario che, sotto il medesimo codice, teneva la politica, la cultura, la letteratura, metteva insieme Gramsci, Moravia, Pasolini e così via.
Io della neoavanguardia do un giudizio molto limitativo, mi pare già in quel saggio del '64, cioè che fossero degli avanguardisti un po’ da burla, come loro stessi si confessavano, degli avanguardisti da salotto; e il fatto che le condizioni storiche dell’avanguardia non si ponevano più ne limita molto il significato. Allora, se uno deve fare la fenomenologia degli elementi di crisi seri nella compagine culturale e letteraria del tempo, io ricorrerei ai soliti nomi di Fortini, Calvino, anche Pasolini per certi versi. Ma perché dovrei attribuire una funzione sperimental-critica veramente seria e profonda a Balestrini o a Sanguineti, insomma…!
A Fortini dedichi un intervento su «Angelus novus», una rivista che emerge nella fase del trapasso a «Contropiano». Vi è attiva una figura come quella di Massimo Cacciari.
Io ho sentito parlare di «Angelus novus» per la prima volta da Massimo Cacciari (che forse avevo conosciuto fuggevolmente a Venezia presentatomi da Toni Negri), e da Cesare de Michelis, che ne erano i direttori e sono venuti a Roma a trovarmi a casa mia – io abitavo molto in periferia in quel periodo – chiedendomi una collaborazione. Questo è ancora un altro fenomeno, perché, come il titolo della rivista in qualche modo allude, questi due giovanissimi direttori pensavano ad un organo che si dedicasse soprattutto a studiare e illustrare i fondamenti della grande cultura borghese contemporanea, da Benjamin a Nietzsche – questa mi pare che fosse l’intenzione dei due. E in questo senso io gli ho dato qualche cosa, anche altri giovani che collaboravano con me hanno scritto qualcosa. Salvo che poi il Cacciari è stato attirato nella nostra orbita, e uscendo da «Angelus novus» ha accettato di fare «Contropiano», quindi in un certo senso ha cambiato lui il suo orientamento di ricerca, avvicinandosi a questo filone operaista che noi avevamo messo in piedi e che «Contropiano» ha in qualche modo continuato [12].
Lì c’era appunto questo tuo lavoro su Fortini…
Che lo addolorò profondamente. Dolore di cui io mi rammarico molto, perché Fortini secondo me è uno dei personaggi più limpidi e più seri di questa fase storica, anche se credo che nella sostanza non avrei nessun motivo, in questo caso, di cambiare nulla di quel giudizio e di quella valutazione. Beh, gli rimproveravo, in un certo senso proseguendo questa stagione fortemente estremistica, di aver pensato che la poesia potesse avere una funzione utile – perché in sostanza la critica era questa, cioè che lui non solo pensava di fare una poesia diversa da quella dei suoi maestri (e questo non è neanche tanto vero, perché tra Fortini e i grandi maestri ermetici c’è una continuità clamorosa), ma al tempo stesso, riprendendo alcune intuizioni surrealiste, pensava che la parola poetica potesse essere uno degli strumenti per cambiare il mondo, ciò che era allora e mi pare tuttora una di quelle illusioni cui ci si può ancorare solo perché non ce ne sono altre più sostanziose [13].
Quando Mario propone la chiusura, tu ti contrapponi a questa prospettiva, alleandoti con Negri sull’ipotesi di una continuazione.
No, dunque. Prima, quando ho elencato alcuni dei motivi per cui, proprio sul piano oggettivo, della storicità effettuale, la rivista nacque dopo che si era consumato il momento magico per il quale invece era stata promossa, non intendevo dare un giudizio politico nel senso stretto del termine. Comunque, senza dubbio c’è stata questa contrapposizione. Il luogo in cui è successo questo, uno dei luoghi, certamente io credo quello conclusivo, in cui si è svolta questa discussione è stato il circolo Rosselli a Firenze…
Non il Francovich?
Storicamente era il circolo Rosselli, intitolato poi da noi al nome di Giovanni Francovich, un nostro compagno morto in un incidente d’auto e ricordato in questo modo; ma il luogo, l’archivio era quello storico dell’azionismo fiorentino, gestito in quella fase da compagni come Claudio Greppi e altri. A questa riunione fiorentina io credo che Mario non fosse neanche presente, perché aveva formulato questa ipotesi in svariate riunioni precedenti. Beh, io pensavo che l’esperienza andasse continuata. Lo pensavo per due motivi – adesso è passato molto tempo e non c’è traccia scritta di questo –, prima di tutto perché credevo che il lavoro di aratura fosse stato incredibilmente corto, quindi troppo poco per consentire di ricavare un risultato ragionevole dall’esperienza. Non avevamo lavorato abbastanza, le esperienze fatte erano limitate nel corso dei due anni, ritenevo che la chiusura fosse troppo frettolosa. In secondo luogo perché in quel momento esprimevo un giudizio pesantemente negativo sul comportamento dei partiti, Partito comunista e anche sindacato; mi sembrava che in quello snodo tra fine delle lotte operaie e centrosinistra, i comportamenti di questi organismi fossero stati peggiori addirittura che in passato. Quindi l’idea che si rinunciasse a creare un polo alternativo mi sembrava sbagliata. Così, per la prima volta nella mia vita di allora, mi opposi alla opinione espressa da Mario – il quale d’altra parte aveva in certo senso già concluso la discussione tirandosene fuori, nel senso che, quale che fosse stata la decisione collegiale comune, lui non avrebbe continuato a dirigere «Co». Una condizione non sostenibile.
Nel '66, in un intervento per «Nuovo impegno», metti in discussione la dimensione del «gruppo» [14] Si può dire che anche per te, in quell’anno, l’esperienza di «Co» è chiusa.
Questo è un po’ un allineamento alle tesi di Mario, nel senso che, se non ricordo male, ma me lo ricordi tu perché io non ne avevo più memoria, da quel momento comincia la nostra polemica contro le organizzazioni gruppuscolari. In nome appunto del lavoro da svolgere nelle grandi organizzazioni. E in quell’intervista, se non ricordo male, appunto si sostiene che il gruppo in quanto tale, cioè indipendentemente dai contenuti della sua posizione, della sua politica e così via, è un organismo politico insufficiente, quindi rifiutabile. Si verifica insomma questo, e cioè che dopo aver messo in movimento tutta questa serie di forze noi – credo che questo sia un paradosso storico – noi le critichiamo perché loro decidono di andare avanti per una strada che avevamo aperta noi, e le critichiamo in nome delle considerazioni per cui noi avevamo chiuso la nostra esperienza come raccomandando agli altri di non fare quello che noi avevamo cercato di fare. Che è poi la cosa con cui abbiamo attraversato il '68, in maniera più o meno disagiata, e con qualche inconveniente personale.
Quale credi che sia il lascito, oggi, di riviste come «Qr» e «Co»?
Penso che quelli che hanno fatto «Co» abbiano dichiarato di non accontentarsi del rapporto costituito tra istituzione politica e realtà sociale; «Qr» invece sta ancora dentro questo rapporto. La differenza e il conflitto nacquero su questo punto: noi non pensavamo che le istituzioni politiche fossero l’unico canale della rappresentanza dei diversi modi di essere della società. «Co» ha voluto mettere in discussione questo, ha voluto spezzare un rapporto costituito; il fatto che non ci sia riuscita può anche significare che il tentativo non sia più perseguibile... In fondo, il non averlo più messo in discussione, secondo me, ha ottenuto effetti più negativi che positivi. Ma quel che è accaduto negli ultimi quattro-cinque anni (crisi o «tramonto della politica», per usare anche in conclusione una formula trontiana, movimenti no global, ecc.) forse potrebbe essere riallacciato a quelle lontane intuizioni. Non in maniera diretta, s’intende.
Penso in conclusione che il lascito di queste esperienze non possa essere solo culturale, ma sia anche e soprattutto politico. Se fosse solo culturale e accademico, se avessimo lottato per creare tre o quattro scuole universitarie di sociologia, ci dovremmo dare una revolverata.
Note [1] A. Asor Rosa, Tre giorni a Torino (7, 8 e 9 luglio 1962), «Cronache dei Quaderni Rossi», settembre 1962, pp. 74-88. [2] Effettivamente, l’articolo che ha questo autore e reca quel titolo è in realtà del 23 febbraio 1964, come risulta dalla ripubblicazione polemica di esso in «classe operaia», 1964, n. 4-5. [3] Tronti a Panzieri, 9 gennaio 1963; Panzieri a Tronti, 13 gennaio 1963; vedile entrambe sopra (Documenti, cap. 4, testi 7 e 9) [4] 11-13 gennaio 1964. [5] 17 dicembre 1963. [6] Il punto di vista operaio e la cultura socialista, «Quaderni rossi», 2 (1962), pp. 117-132. [7] A. Asor Rosa, Quattro note di “politica culturale”, «classe operaia», 3, maggio 1965, pp. 35-40. [8] Rivoluzione e letteratura, «Contropiano», 1968, 1. [9] A. Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia. Saggi sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza, La Nuova Italia, Firenze 1973; vi compaiono però alcuni scritti degli anni 62-63 apparsi su «Mondo nuovo» (cfr. in Bibliografia, F) [10] Gruppo 63, Milano, Feltrinelli, 1964. [11] A. Asor Rosa, Alcune osservazioni sulla neoavanguardia italiana, «Quaderni piacentini», 17-18 (luglio-settembre 1964); poi in Intellettuali e classe operaia cit., col titolo Il fiore secco dell’avanguardia (pp. 149-161). [12] Massimo Cacciari figura tra i redattori del (solo) n. 1, 1964, di «classe operaia», probabilmente come autore o coautore dell’articolo su I comitati di classe di Porto Marghera. [13] A. Asor Rosa, L’uomo, il poeta, «Angelus novus», 5-6, dicembre 1965, pp. 1-30; poi in Id., Intellettuali e classe operaia cit., pp. 231-271. [14] A. Asor Rosa, Il partito e la classe, «Nuovo impegno», 4-5, luglio-ottobre 1966, pp. 8-21; poi in Id., Intellettuali e classe operaia cit., pp. 77-93, col titolo Critica del gruppo.
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Alberto Asor Rosa (1933-2022), è stato storico della letteratura e saggista italiano, professore di letteratura italiana all'università di Roma “La Sapienza“ e deputato del Pci. Ha diretto la Letteratura italiana Einaudi (1982-91). Negli anni Sessanta ha preso parte all'esperienza operaista, collaborando con «Quaderni rossi» e poi con «classe operaia».
Tra le sue numerose opere si ricordano, Scrittori e popolo (Samonà e Savelli, 1965), La cultura, in Storia d'Italia, vol. IV: Dall'Unità ad oggi, tomo II, (Einaudi, 1975), Storia europea della letteratura italiana, 3 voll., (Einaudi, 2009), Le armi della critica. Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1970) (Einaudi, 2011), Scrittori e massa (Einaudi, 2015), Machiavelli e l'Italia. Resoconto di una disfatta (Einaudi, 2019), L'eroe virile. Saggio su Joseph Conrad (Einaudi, 2021).
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