A qualche giorno di distanza dall’uscita del film di Mario Martone, «Laggiù qualcuno mi ama», pubblichiamo questa intervista a Massimo Troisi, di cui il film narra la parabola artistica, apparsa nel giugno del 1981 sulla rivista «Metropoli» e curata da Paolo Virno. Il testo uscì in una delicata congiuntura per il «movimento», stretto tra l’esaurimento della sua forza politica, le fughe lottarmatiste e la risposta repressiva dello Stato. Collocare questa intervista in quella specifica congiuntura, tra la fine del lungo Sessantotto e l’inizio di quella che, a posteriori, avremmo definito l’epoca della controrivoluzione neoliberale e del ripiegamento nel privato (più prosaicamente: gli anni Ottanta) è di fondamentale importanza per capire quale potesse essere l’interesse di una rivista come «Metropoli» per il cinema del Troisi di «Ricomincio da tre». I compagni e le compagne che animavano la redazione della rivista erano consapevoli della crisi «soggettiva» che aveva raggiunto il «movimento» e della sua incapacità (si perdoni la brutalità della sintesi) di dare forza organizzativa alle soggettività nuove all’epoca identificate con la categoria di «operaio sociale». Nel tentativo di afferrare organizzativamente i tratti peculiari di queste soggettività e quindi di superare la crisi del «movimento», il cinema di Troisi offriva un fondamentale contributo per il suo sguardo politico e antropologico, che pescava anche nella cultura del rifiuto del lavoro, sulla contemporaneità. Molte altre sono le cose che di questa intervista varrebbe la pena sottolineare (dalla denuncia dell’uso della «cultura» da parte della sinistra come strumento di inferiorizzazione, al ruolo dell’artista e dell’intellettuale). Ci sia concessa, tuttavia, solo un’ultima sottolineatura: in una fase come la nostra, di profonda trasformazione e di crisi della lotta di classe, si sente ancora il bisogno di uno sguardo come quello di Troisi. Allo stesso tempo, mutatis mutandis, abbiamo anche la necessità di riprendere e rilanciare quello sforzo teorico e politico, tentato agli albori degli anni Ottanta (su cui non a caso «Machina» ha aperto un cantiere di riflessione) da «Metropoli».
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«Metropoli» anno 3, numero 5, giugno 1981
Sì, è vero, mi stanno intervistando proprio tutti. L’altro giorno il «Quotidiano donna», ora «Metropoli», che di disgrazie ne ha avute tante... Ma ad alcuni giornali non mi va di dare interviste, per ragioni mie. Certi hanno la faccia come il culo. Pensa, prima che uscisse «Ricomincio da tre» telefonavo al giornale o all'ufficio stampa e mi dicevano «guarda a te proprio non ti vediamo, ci dai fastidio proprio fisicamente». Ed era gente che non avevo mai conosciuto oltretutto. Non gli ho scopato la mugliera, non gli ho gambizzato il figlio, però gli davo fastidio fisicamente. E ora vengono per l'intervista… Ma me ne strafotte uscire con la fotografia e l’articolino sul giornale. Dicono che il mio personaggio, Gaetano, dà un'immagine nuova del giovane napoletano. Però bisogna andarci piano. In sostanza pigliarsi sulle spalle questo carico dei napoletani nuovi non è mica tanto comodo. Fino a questo momento il «napoletano nuovo» se lo sono curato per benino le televisioni private della città. Loro sapevano tutto, cos’è Napoli, come risolvere i suoi problemi… Dai giornali e dalle televisioni predicano le solite menate, che passano per nuove, su quelli che se ne sono andati da Napoli, mentre invece bisogna restare e rinnova’. Come se la cosa importante fosse rimanere a Napoli e soffrire tutti quanti insieme! Insomma ‘sta roba del «napoletano nuovo» rischia d’essere un altro modo di ghettizzare. Capisci, mi viene un sospetto: nel mondo dello spettacolo, gente come me e come Pino Daniele s’è presa critiche a non finire proprio da chi ha sempre il «nuovo» in bocca. Il personaggio del mio film più che nuovo è diverso, né pizza e mandolino, ma nemmeno con la passione dell'industria. È timido, impacciato, insicuro, è emarginato due volte, perché è napoletano e perché non è furbo. Proprio fuori da ogni schema. Tu dici che Gaetano, cioè io, cioè insomma Gaetano, assomiglia un po' ai giovani dei Banchi Nuovi, a questi disoccupati organizzati. Forse si, perché questi disoccupati qui non sono come gli anziani di una volta, anche loro se viaggiano mica è detto che emigrano. Però un film è un film. Non è che li ho studiati da vicino per imitarli. Ti racconto una cosa. La prima del film, ma si, ne parlò pure «L'Espresso», la feci a Napoli in un cinema vicino alla Provincia, una sera che ci stavano i disoccupati a manifestare. Con loro tenevo un po’ di pudore, perché io avevo potuto fare una cosa che mi piaceva sul serio, e loro non possono fare nemmeno le cose che non gli piacciono. Però è inutile nascondersi dietro un dito, mica potevo bruciare il film perché c'era stato il terremoto. Avevo un po’ di pudore, però pensavo, quando qualcuno di loro mi riconosceva e mi salutava, che in fondo è meglio una canzone di Pino Daniele o un film come il mio, che tante altre cose. Almeno noi non consoliamo proprio nessuno.
Sai qual è il problema a Napoli? Che manca un nemico preciso, che il nemico è mobile, si sposta. Così si fanno troppe parole, troppi discorsi. E io tengo proprio una sfiducia totale nelle istituzioni. Mio padre pregava la madonna, ma, vedi, perché pure a lui mancava un interlocutore preciso, un nemico preciso. Si sentiva più vicino a questi qua, alla madonna, a dio, che non a quelli che avrebbero dovuto risolvere i suoi problemi in questo mondo, i problemi di Napoli. Io non gli dico che la madonna non risponde, perché tanto so che neanche quegli altri gli rispondono, che i problemi nessuno li risolve. E allora mi arrangio per conto mio, faccio da solo. Capisci, ci sono cose vecchie di millenni, il clientelismo, la corruzione. Mio padre, pure lui, mi diceva «ma tu pigliati un diploma, e poi parliamo con questo o con quello». Io non so se sia una cosa buona se Napoli esplode o non esplode. Ma oggi, quando sento che Gava si riunisce con la commissione questa e quell’altra, mi viene proprio uno sconforto, ma uno sconforto, ti giuro completo. Perché sentire che Gava, o un altro nome, Scotti, stanno risolvendo i guai di Napoli… È curioso, io sono di sinistra, però in un certo senso faccio un po’ la satira della sinistra. Ma ora ti spiego. Gaetano è rimasto deluso pure dal modo di vivere di sinistra. Ti spiego meglio. Probabilmente ho raccontato la mia esperienza. E questo non si può fare senza un po’ di autoironia, un po’ di autocritica. Non sono proprio di Napoli, sono della provincia, e lì è difficile l’impatto con la cultura ufficiale, che è proprio qualcosa di stregonesco. Mio padre quando parlava col mio professore, non parlava mai, stava a sentire, buono buono, zitto zitto. E io in un primo momento credevo di avere bisogno di questi stregoni che non ti fanno capire niente, che non possono mai sbagliare. Mio padre, invece, che faceva il ferroviere, lui sì, poteva anche sbagliare, e se sbagliava lo licenziavano. Ho avuto subito l’idea che non era quella la cultura giusta. È stato allora che c’è stato l’impatto con un altro tipo di cultura, quella di sinistra. Ma anche lì trovavi sempre il tipo che ti metteva a tacere perché non avevi letto questo o quello. Sì, allora ti senti una merda. Però, quanto sono noiosi... Dici conformisti? Forse pure conformisti. A questo punto è venuto fuori il personaggio del film, uno che incontra tutte cose fatte a misura di chi ha i soldi o la «cultura», mentre lui, cioè io, ogni volta si sente un niente, un niente nelle mani degli altri. Però a un certo punto tutta l’insicurezza diventa una forza, una ribellione addirittura, prima di tutto con sé stessi. E qui ci sta pure la faccenda del dialetto. Recito in dialetto, parlo in dialetto, anche se poi le interviste me le mettono in italiano. Ma il dialetto è una scelta, non una condizione o un marchio di fabbrica. Per me, questo modo di parlare è unico, è un di più, non un di meno. Hai capito? No? Allora ripeto in italiano, cosi ti faccio vedere che, se voglio, sono capace. Insomma anche il dialetto ci sta in questa insicurezza mia e di Gaetano, in questa insicurezza che però, ti dicevo, diventa poi anche molto sicura...
Beh, questa è un po' una trappola: prima mi dici che l'ultimo film in cui hai riso di cuore è il mio, e io sono contento, per carità, e poi mi chiedi qual è l'ultimo film dove ho riso io...
Diciamo che non me lo ricordo. Non mi va di dire che mi piace Woody Allen, per fare un nome, e poi difenderlo a oltranza, perché poi domani quello fa un altro film che è una cagata, e io mi devo prendere la responsabilità quando incontro uno che mi dice «hai visto, e tu avevi detto che era bravo». No, no, niente responsabilità. E lo dico anche per il mio secondo film. Per carità, non ne voglio sentir parlare, chi sa come sarà. Io non lo so, non chiedermelo, non lo faccio proprio, o faccio solo l'attore, o...
Sì, il mio film è uscito mentre a Napoli c’è il finimondo. Tu mi domandi come avrebbe reagito il personaggio del film se avesse saputo di un fatto come il sequestro di Cirillo. No. questo non lo avrei mai messo nella sceneggiatura. Mi hanno offerto di fare tante storie con una spruzzata di terrorismo o una spruzzata di droga, ma poi c’è sempre un finale tipo «vabbè, mo’ stiamo esagerando, ora basta, bisogna arginare, bisogna ricostruire». Sempre questa morale. Sono film scontati, tu sai che alla fine il terrorista muore o si ravvede, il drogato muore con l’overdose o va a curarsi in clinica, sai già tutto. In questi film si deve dire che il terrorismo va cancellato, proprio istituzionalmente non si può dire niente di diverso. Ma io non sono nella posizione di dire a qualcuno quello che deve fare e quello che non deve fare. In fondo, chi è Massimo Troisi? Mi suona falso dire «state calmi» oppure «non vi drogate». È chiaro che la prima cosa che mi si può rispondere è «grazie al cazzo, ora ti sei sistemato, fai le cose che ti piacciono, ma che ne sai dello sviluppo di certe situazioni, di certi problemi?» La verità è che io quando parlo, tengo ancora un certo pudore. E qualche volta, per pudore, è meglio starsene proprio zitti.
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Roberto Rup Paolini, Film Fantasma, 2018-2020
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