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Il perturbante contro Freud



Pubblichiamo un estratto di una riflessione di Paolo Virno a partire dal saggio Il perturbante di Freud. Per il testo completo rimandiamo allo «scavi» Sintomi. Per un'antropologia linguistica del mondo contemporaneo, scaricabile qui: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/sintomi-per-un-antropologia-linguistica-del-mondo-contemporaneo.


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Convenevoli

Propongo una riflessione sul buon uso di una operetta di Freud, Il perturbante. La mia lettura è schiettamente unilaterale, sicché darò poca o nessuna importanza ad alcuni temi lì presenti, a spudorato vantaggio di altri. Del resto, chiunque si sia imbattuto in questo minuscolo e famosissimo saggio, ne ha sperimentato l’indole magmatica, centrifuga, a tratti incoerente. Un approccio partigiano e selettivo, oltre che giustificato, è raccomandabile, anzi necessario.

La riflessione prevede due movimenti distinti, che si sostengono a vicenda come avversari di lotta libera, in lizza tra loro e però solidali. Quel che cambia è la postura teorica, nonché la passione predominante. Lo stato d’animo del chiosatore scontento e supercilioso cede il posto a quello di chi, liberatosi da una ipnosi resinosa, dice serenamente come stanno davvero le cose.

Da principio, in preda alla buona educazione, perlustro e recensisco Il perturbante. Sia pure con la preannunciata unilateralità, mi sforzo di mettere in rilievo le sue articolazioni interne e i chiodi fissi su cui batte e ribatte. Il commento del testo, in qualche caso minuzioso, si prefigge di criticare a fondo le principali convinzioni che vi sono espresse, ventilando possibili deviazioni e alternative. Ma le deviazioni, anche se brusche, e le alternative, talvolta ambiziose, traggono comunque spunto dall’ordito argomentativo dello scritto di Freud. Non sono altro che reazioni polemiche, e una reazione è la conseguenza subalterna, spesso simile a una smorfia o a uno starnuto, delle tesi che l’hanno suscitata.

In seguito (ma la convivenza dei due movimenti rivali si avverte, credo, fin dall’inizio), mi addosso l’onere di delineare una teoria autonoma del perturbante, radicalmente non freudiana, quindi antifreudiana. Non più un procedimento ancora ossequioso, del tipo «fermo restando X, allora è meglio ricavarne Y piuttosto che W», bensì la secca rinuncia all’X prioritario, che fa da piedistallo sia alla dottrina canonica sia alle variazioni ereticali.

Differenti e perfino incommensurabili rispetto a quelli approntati da Freud sono gli arnesi concettuali da maneggiare per rendere conto della tonalità emotiva che chiamiamo timore dei rifugi familiari, sgomento dinanzi a ciò che offre salvezza, affinità intrisa di repulsione, das Unheimliche, perturbante. Tanto per capirsi: non una vicenda infantile o una credenza arcaica che, essendo stata rimossa o superata, ritorna poi con fattezze raccapriccianti, ma la cronica ambivalenza delle abitudini di un animale dotato di pensiero verbale, ossia il loro apparire a un tempo protettive e angosciose. Ambivalenza delle abitudini significa, per esprimersi con meno cautela, congenita doppiezza di ogni sorta di ethos, carattere bipolare (ciclotimico, se si vuole) di tutte le dimore istituite dalle nostre azioni e dai nostri discorsi. A proposito del perturbante, vale a dire del repentaglio insito nel riparo più fidato, occorre imbastire un capitolo a sé stante di antropologia filosofica. A esserne capaci, beninteso.

Affinché il cartellone dello spettacolo imminente sia abbastanza variegato e accattivante, aggiungo che, a schizzare un ritratto attendibile della situazione nella quale diventa stridula la voce mirabilmente intonata e minaccioso il gesto per l’innanzi benvoluto, concorrono due filosofi in tutt’altre faccende affaccendati, del perturbante a prima vista incuranti: Hegel e Wittgenstein.

La famigerata contraddizione dialettica di Hegel consente di capire, meglio di tanta cianfrusaglia oracolare e rabdomantica, perché il familiare, l’heimlich, sia realmente tale soltanto a condizione di ospitare in sé fin dal principio la propria negazione, il perturbante, l’unheimlich. Inclini a procurare un disagio irrimediabile risultano, in frangenti niente affatto rari, gli usi e i costumi di cui siamo paghi e in cui riconosciamo a buon diritto l’autentica fonte dell’agio. Con parole hegeliane, le abitudini del primate superiore Homo sapiens non mancano mai di esibire «il divenire ineguale dell’uguale e il divenire uguale dell’ineguale» (Hegel, 1807), ossia la conversione del consueto in qualcosa di estraneo, ma anche dell’estraneo in qualcosa di consueto. Hegel filosofo del perturbante, anziché della storia e dello spirito assoluto? Forse. O forse filosofo della storia e dello spirito assoluto, proprio perché anche del perturbante.

Quanto a Wittgenstein (1953), al quale è dedicata una parte cospicua di questo lavoro, rilevante mi sembra, per venire a capo dell’intreccio indissolubile di sicurezza e smarrimento nella medesima esperienza, la sua lunga indagine sulle immagini ambigue (il profilo di una lepre che tuttavia, se guardato di nuovo, si trasforma in un baleno, senza strascichi né residui, nel muso di un’anatra), sul periodico «notare un aspetto» a discapito di un altro non meno legittimo. Assai diverse sono le figure che si possono scorgere in un unico intrico di linee. E se l’ethos e l’inquietante fossero i due aspetti simultanei, anatra e lepre, che si radicano in un disegno neutro, di per sé ancora impregiudicato o, come scrive Wittgenstein, «fluttuante»? Non è che la psicologia della Gestalt, della quale Wittgenstein si avvale, ha da darci notizie sul perturbante neanche presagite dalla psicologia del profondo?

I convenevoli finiscono qui. Questi cenni preliminari sono serviti a mettere sull’avviso il viandante, così da impedirgli, a viaggio finito, di sfoggiare meraviglia e sconcerto. Una riflessione sul buon uso di Il perturbante di Freud si risolve, presto o tardi, nella riflessione sul modo più opportuno, non spensierato né vanitoso, di sbarazzarsene.



Un trattato di etica

Il saggio di Freud sul perturbante è un piccolo trattato di etica ignaro di sé. Esamina natura e malanni delle nostre abitudini, diagnostica la metamorfosi catastrofica cui talvolta è soggetto il sentimento di agio che accompagna (o addirittura compendia) la buona vita, mostra come un confortevole riparo si converta all’improvviso in minaccia assillante: fa tutto questo e altro ancora, ma non sa quel che fa.

Tanto poco è consapevole della sua vocazione etica, la riflessione freudiana, da sbandierare fin dalle prime righe una sintonia, più unica che rara per la psicoanalisi, con l’estetica. Sono le arti, dichiara subito l’autore, a metterci al corrente del perturbante, ossia dell’orrore che può sprigionarsi da eventi e stati di cose risaputi, anzi benefici, con cui abbiamo la massima dimestichezza. Si pensi ai racconti di Hoffmann e Poe (ma anche di Cechov), al sorriso della Gioconda che forse propende al ghigno, alle bambole animate e troppo intraprendenti di certe favole, ai fantasmi annidati nella casa teneramente amata dall’eroina di un romanzo di formazione.

Salvo Hoffmann, una novella del quale è brandita da Freud a mo’ di argomento irrefutabile, sono esempi estemporanei, buoni sì e no per farsi un’idea. Un’idea errata, tuttavia: la supposta parentela tra la tonalità emotiva del perturbante e l’estetica è una illusione ottica. Freud stesso, nell’accomiatarsi dal lettore, la smentisce seccamente, riconoscendo che non si troverà nulla di utile su quella tonalità emotiva nei reperti letterari e artistici. Il percorso compiuto ha confutato la convinzione iniziale: «La conclusione, che suona paradossale, è che molte cose che sarebbero perturbanti se accadessero nella vita non sono perturbanti nella poesia, e che d’altra parte, nella poesia, per ottenere effetti perturbanti, esistono una quantità di mezzi di cui la vita non può disporre» (Freud, 1919, p. 73). E poi: «al fine della nascita del sentimento del perturbante è necessario, come abbiamo visto, un dilemma relativo alla possibilità che convinzioni ormai superate si rivelino, nonostante tutto, rispondenti alla realtà; e questo è un problema che le premesse proprie del mondo della fiaba spazzano via interamente» (ivi, p. 74). Il malessere suscitato da certezze e condotte che in passato furono rassicuranti è più circoscritto, rudimentale, terragno di un esperimento dell’immaginazione. Troppo opaco e monocorde per finire in una tela di Modigliani o sotto la penna dei fratelli Grimm, esso si limita a mettere a soqquadro il nostro modo di vivere.

Un piccolo trattato di etica, dicevo. Ritengo che Il perturbante sia un testo che non dovrebbe mancare in nessun corso di filosofia morale. Esso si colloca con naturalezza accanto al quarto libro, quello sugli affetti, dell’Ethica more geometrico demonstrata di Spinoza e alle pagine che Aristotele dedica alle consuetudini cui ci affidiamo, alla loro genesi e al loro declino. La sapienza dell’etimo consiglia di intendere «ethos» come ricerca, o laboriosa istituzione, di un luogo abituale per la nostra vita. Del luogo in cui abitare, dunque. In questione è l’eventuale dimora di un primate che non dispone di una nicchia ambientale nella quale orientarsi con congenita perspicacia. La dimora appropriata di chi, essendo povero di istinti specializzati, resta costantemente inappropriato, fuori posto, in balia di un adattamento soltanto parziale e sempre difettoso. Tanto per complicare le cose, formulo un assioma perentorio, simile a una cambiale da onorare in seguito: a contare qualcosa, quando si parla di un luogo abituale, è il proprio che mette le tende nell’improprio e se ne alimenta, nonché, all’inverso, l’improprio durevolmente incistato in tutto ciò che sembra proprio. Con una avvertenza obbligatoria: i due poli antipodici appena menzionati, il proprio e l’improprio, nonostante qualche indubbia analogia, non coincidono affatto con i poli su cui si arrovella Freud, vale a dire con le nozioni di familiare e perturbante. Di più: la coppia proprio/improprio, oltre a esserne il fondamento o almeno lo sfondo, della coppia familiare/perturbante altera radicalmente il senso e il ruolo. Ma basta così. Le anticipazioni indebite, contenute nelle ultime righe, non sono altro, ripeto, che una cambiale o la proposta di un appuntamento al buio.

Torniamo al trattato ignaro di sé. Tenendosi alla larga da inclinazioni smaccatamente moderne, secondo le quali l’etica sarebbe la scienza dei valori o, peggio che mai, l’inevitabile training all’esercizio del «dover essere», il saggio di Freud abbozza una inchiesta sul carattere e il destino del luogo abituale che l’animale umano non smette di rivendicare. Per averne conferma, è sufficiente soffermarsi un momento, con risoluta ingenuità, su alcune parole-chiave del saggio. L’aggettivo «perturbante» traduce il tedesco «unheimlich». Nel vocabolo italiano, certamente suggestivo, non vi è traccia, però, della negazione di cui si fa carico il termine originale. L’«un» si oppone a «heimlich», cioè agli usi e ai costumi in cui ci raccapezziamo e che ci fanno sentire a casa. Ma l’«heimlich» è conservato dall’«un» che lo contraddice, così come «adatto» e «felice» rimangono in bella vista quando diciamo «in-adatto» e «in-felice». Per comprendere la parola «unheimlich», occorre padroneggiare il significato dell’«heimlich» che essa nega e tuttavia conserva. Sennonché, a proposito di questo significato, grande è il disordine sotto il cielo. Chi voglia definirlo, si imbatte subito in una ridda di problemi. Nei problemi su cui si affatica l’etica, per l’appunto.

In che cosa consiste, alla fin fine, la dimora o patria emotiva (la Heimat, intraducibile sostantivo tedesco da cui proviene heimlich) che orienta e protegge? Esiste un riparo che emancipi dal pericolo, oppure il riparo, se davvero è tale, per gli stessi requisiti che lo elevano al rango di autentico riparo, può trasformarsi ognora nel più insidioso (e beffardo) dei pericoli? Il luogo abituale, ossia la Heimat, ha le stigmate dell’origine o è l’esito aleatorio e caduco della prassi politica? Costituisce un presupposto celato, e però dirimente, o balena come il post-posto cui tendono sempre di nuovo tumulti e rivoluzioni? Se è vero che la patria del vivente loquace, ossia l’ethos che gli compete, combacia in certa misura con la facoltà del linguaggio, con le prerogative salienti da essa sfoggiate, è forse meno vero che una patria siffatta diventa di tanto in tanto inospitale ed enigmatica, al punto da tenere in ostaggio i suoi abitanti? Le espressioni inconfondibili del nostro lessico familiare, e le battute paradossali in voga tra gli inquilini della medesima cella in un carcere di massima sicurezza, questi amuleti sonori così cari e struggenti non appaiono di colpo maligni, anzi agghiaccianti, se adottati con zelo da un aguzzino forbito? Dopo ogni divagazione, ci si ritrova al punto di partenza: tutto sommato e sottratto, che cosa merita il titolo di luogo abituale?

Sebbene non se ne avveda, Freud gira attorno a questo quesito etico. Protagonista assoluto della sua dissertazione non è l’aggettivo sostantivato che fa da titolo, das Unheimliche, l’inquietante che atterrisce, ma il suo contrario, das Heimliche, il familiare che procura agio. È protagonista assoluto, das Heimliche, per due motivi eminenti. Al primo ho già accennato: la negazione (qui eseguita dall’«un») non introduce mai un nuovo contenuto semantico, dando risalto piuttosto a quello che prende di mira e sospende. Nel dichiarare «Giovanni non è stato generoso», discetto pur sempre della generosità di Giovanni. Così, nel nostro caso, a tenere banco è esclusivamente il contenuto semantico di «heimlich», di «abituale». Un contenuto semantico monopolistico, sì, ma incerto e sfuggente.

Ed ecco il secondo e decisivo motivo che spinge a ravvisare nelle trenta paginette di cui consta Il perturbante una meditazione sul luogo abituale, quindi sull’ethos, del vivente disambientato. Come vedremo di qui a poco, per Freud il significato di «heimlich» (o meglio, uno dei diversi significati coesistenti nell’aggettivo cruciale) comprende in sé la sua negazione, cioè l’«unheimlich». Il familiare cui ci rimettiamo con noncuranza o sollievo può risultare, a certe condizioni, senz’altro spaventoso. Lungi dal sopprimere l’Heimliche, l’Unheimliche ne è uno sviluppo coerente e perfino ineludibile. Uno sviluppo o, se si preferisce, una componente intrinseca, una immancabile articolazione. La capacità di provocare smarrimento e timore è un tratto fisiognomico di ciò che appaga e rassicura. Perspicua mi sembra una recente traduzione francese del saggio freudiano, che rende «das Unheimliche» con «l’inquiétantfamilier», sintagma che parafraso così: l’inquietante che resta nondimeno familiare, il familiare che mostra di essere, al tempo stesso, anche inquietante. A ben vedere, «familiare» e «inquietante, diversi per significato, hanno però la medesima denotazione, danno conto di un unico fenomeno, si implicano a vicenda. Inquiétant familier: difficile da sventare è il pericolo che non cessa di offrire un verosimile riparo.

Mi rendo conto che ben poco di quel che ho appena scritto può essere attribuito a Freud. Tanto per essere franchi, ammetto che alcune delle asserzioni precedenti preparano, o anticipano senza darlo a vedere, la critica radicale cui vorrei sottoporre la concezione freudiana del perturbante. Per il momento, mi limito ad attirare l’attenzione su un paio di questioni.

Anzitutto. Ho segnalato diligentemente che, per Freud, uno dei diversi significati di «heimlich» include già in sé il termine negativo «unheimlich». Peccato che il significato di «heimlich» cui si appella Freud sia secondario e ininfluente, lontano da quello principale, il solo che conti. Si tratta di una scelta capziosa, dettata dal desiderio più o meno conscio di accreditare una tesi preconcetta. Altra questione. Ho affermato che il familiare è, al tempo stesso, anche inquietante. L’inciso «al tempo stesso» si oppone all’opinione di Freud, secondo la quale inquietante è soltanto ciò che, essendo stato familiare in un passato più o meno remoto, si riaffaccia di bel nuovo adesso, quando la sua stagione è ormai trascorsa. Ebbene, nel postulare una connessione diacronica tra heimlich e unheimlich, Freud si comporta come l’incauto che, dopo aver vinto una somma ingente al superenalotto, straccia inavvertitamente il biglietto fortunato. La reciproca implicazione di familiare e perturbante, sempre attuale perché basata sulla loro concomitanza, è disinnescata dalla rassicurante collocazione del primo termine in un «allora» infantile o arcaico.

Di quale sia il significato di «heimlich» che converge con quello del suo contrario «unheimlich», come pure della relazione temporale tra luogo abituale e smarrimento angoscioso, discuterò nelle prossime pagine. Con la massima pedanteria di cui sono capace, esonerandomi da ogni andante con brio.



Immagine: H.H.Lim, Parole



Bibliografia

S. Freud, Das Unheimliche, «Imago», vol. 5 (5-6), pp. 297-394, 1919 (Il perturbante, a cura di C.L. Musatti, Theoria, Roma 1993).

G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Josef Anton Goebhardt, Bamberg und Würzburg 1807 (Fenomenologia dello Spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973).

L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford 1953 (Ricerche filosofiche, trad. it. Di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1983).

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Paolo Virno ha insegnato filosofia del linguaggio all’Università Roma Tre e fa parte del comitato scientifico della collana editoriale «Forme di vita» (DeriveApprodi). È autore di numerosi lavori, tra cui Grammatica della moltitudine (DeriveApprodi, 2003), Saggio sulla negazione. Per un’antropologia linguistica (Bollati Boringhieri, 2013), Dell’impotenza. La vita nell’epoca della sua paralisi frenetica (Bollati Boringhieri, 2021), Negli anni del nostro scontento. Diari della controrivoluzione (DeriveApprodi, 2022). I suoi libri sono tradotti in più di venti lingue.

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