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Il disertore


Archivio Bermani


Erano le cinque del mattino del 28 dicembre 1908, quando Edoardo si svegliò per l’abbaiare del suo cane. Rinaldo dormiva sul terrazzo che dava sul giardino e fino ad allora, nelle ore notturne, non si era mai fatto sentire. Probabilmente – pensò Edoardo – Rinaldo aveva notato qualcosa di strano. Pertanto si levò e si diresse verso la porta finestra che dava sul terrazzo. La spalancò e proprio nel momento in cui si stava avvicinando alla balaustra, percepì un forte boato, che squarciò l’alba di Messina. Si girò e vide il pavimento dietro di lui precipitare come in un vortice e inabissarsi.

La sua casa era sparita in un nebbione denso di pioggia, attraversato da rumori di valanga e dalle urla dei suoi genitori, dei suoi fratelli e delle sue sorelle. Era rimasto in piedi, miracolosamente, solo il terrazzo. Il resto della casa, ridotta in macerie, era avvolto in una coltre di polvere tenebrosa. Seguì un momentaneo silenzio; poi sentì levarsi dalle macerie grida, pianti e gemiti di dolore. I suoi familiari stavano ingaggiando la loro lotta disperata contro i macigni, le travi, i mobili, i calcinacci che, stando sopra di loro, li premevano e li asfissiavano.

Gli scampati, uomini e donne, vecchie e bambini, quasi nudi, tremanti di spavento e per il freddo, si diressero verso il mare, alla ricerca di una protezione che di lì a poco si sarebbe rivelata ingannevole.

Dopo dieci minuti, una seconda scossa provocò un maremoto, di impressionante violenza. Le acque, improvvisamente, si ritirarono e poco dopo almeno tre grandi ondate aggiunsero al già tragico bilancio altra distruzione e morte. Dove non giunse l’acqua divampò terribile il fuoco degli incendi; seguirono poi altre scosse rapidissime e violente.

Edoardo, che doveva la sua salvezza a Rinaldo, aspettò per più di un’ora sul terrazzo. Poi, quando cominciò a farsi giorno, la polvere iniziò a diradarsi e finalmente poté scendere a terra. Per tutte le ore in cui ci fu luce, cercò in lungo e in largo fra le macerie. Spostava i detriti, sperava di percepire i lamenti, sperava di sentire le voci, sperava di cogliere eventuali segnali di vita da parte dei suoi familiari. Li chiamava per nome. Intanto, aspettava gli aiuti per rimuovere le macerie. Ma invano. La disperazione cominciò a prenderlo alla gola.

I primi ad accorrere furono i marinai – inglesi e russi – di alcune navi che si trovavano nel Mediterraneo per motivi militari e commerciali. Poi, dopo due giorni, arrivarono finalmente i bersaglieri. Ai soldati, però, non fu dato la consegna di prestare soccorso alla popolazione, bensì l’assurdo ordine di presidiare le banche.

Così la città di Messina, grazie all’inerzia e all’idiozia delle autorità militari, fu abbandonata a sé stessa. Un po’ di organizzazione in quella città, già priva di infrastrutture, avrebbe salvato molte vite.

Il terremoto, però, non suscitò solo solidarietà. La fame aveva trasformato i cittadini in disperati che andavano alla ricerca di cibo. Gli sciacalli, a loro volta, vagavano per la città, razziando tutti i beni che trovavano tra le macerie. Quelli che venivano colti sul fatto venivano passati per le armi. Da qui la fucilazione di individui che, in mancanza degli aiuti, erano stati costretti a procurarsi il necessario per sopravvivere.

Edoardo nei tre giorni successivi continuò a monitorare, inutilmente, le macerie della sua abitazione. La sera si recava presso la stazione ferroviaria per dormire nei vagoni dei treni. Qui, fra i sopravvissuti, incontrò i suoi zii – Matilde e Guglielmo –, la cui casa era rimasta in piedi.


Terminate le scosse di assestamento, questi ultimi furono contenti di poter dare un tetto al loro nipote, rimasto orfano di padre e di madre. Si impegnarono non solo ad ospitarlo, bensì anche a fargli continuare gli studi.

Edoardo allora aveva undici anni, e frequentava il primo anno del ginnasio. L’altezza ragguardevole, i capelli biondi e soprattutto i suoi occhi azzurri tradivano la sua probabile discendenza dai normanni. Nel tempo libero andava a trovare spesso lo zio Guglielmo, che di mestiere faceva l’orologiaio. Lo osservava mentre lavorava al tornio, con le pinzette a becco piatto o con altri attrezzi. Lo strumento che suscitò maggiormente il suo interesse fu, però, il monocolo. Quando lo indossò per la prima volta, la sua lente gli apparve come un grande vetro. Un vetro che gli consentiva di toccare con gli occhi gli ingranaggi sottilissimi dell’orologio. Da qui il suo interesse per la meccanica e in particolare per il movimento. Edoardo era attento al movimento, era attento a tutto ciò che era in transito.

Dopo aver concluso i suoi studi presso il ginnasio, fu proprio l’interesse per la meccanica a spingerlo a iscriversi all’Istituto tecnico di Messina. Qui aveva stretto amicizia con Salvatore Quasimodo, il quale frequentava la sua stessa scuola. Il modicano gli aveva fatto leggere le sue poesie e alcune sue liriche erano già state pubblicate sulla Gazzetta «Humanitas» di Bari, diretta da Piero Delfino Pesce.

Edoardo aveva da poco terminato gli studi, quando, nel maggio del 1917, fu chiamato alle armi. Venne ritenuto idoneo al servizio militare e invitato a presentarsi presso il C.A.R. (Centro Addestramento Reclute) di Torre a Mare. Prima di partire, Edoardo comunicò a Quasimodo la sua destinazione. Quest’ultimo, poiché sapeva che Torre a Mare distava appena cinque km da Mola, gli chiese di farsi latore di una sua lettera al direttore di «Humanitas», che abitava proprio in quella città.

Dopo essere giunto a Torre a Mare, Edoardo si recò subito a Mola. Qui, in occasione della consegna della lettera, conobbe Rosina (Roséine a scarpere). Quest’ultima svolgeva la professione di ostetrica. Tuttavia, dopo la morte di suo marito in guerra, era stata costretta, anche perché doveva mantenere i suoi due figli, a prestare servizio come domestica proprio nella casa di Pesce.

Di carnagione scura, capelli neri e di altezza regolare, Rosina era una donna bella e disinibita. Edoardo ne fu subito colpito. Fu attratto dai suoi occhi, vi scorgeva la tenerezza che aveva più volte sperato di incontrare. Si mise pertanto sulle sue tracce.

Rosina si mostrò sensibile al fascino di Edoardo. Fu colpita dai suoi occhi azzurri e soprattutto dall’eleganza che traspariva dai suoi gesti e dal suo portamento.

Sapeva che Edoardo sarebbe partito per il fronte, e temeva per la sua vita. Da qui la sua disponibilità, qualora avesse deciso di disertare, a nasconderlo a casa sua. Edoardo rispose che ci avrebbe pensato. Ma non ne ebbe il tempo. Il giorno successivo, il 9 luglio, giunse per lui l’ordine di partire per la zona di guerra.

La sua destinazione era la Brigata Catanzaro, che da alcuni giorni era stata trasferita nelle retrovie del fronte a Santa Maria La Longa per fruire di un periodo di riposo. Qui Edoardo fu inserito nella seconda compagnia del 142° battaglione. I suoi soldati provenivano per lo più da famiglie di contadini della Sicilia, della Calabria e della Puglia.

La retorica patriottica era presente solo nei discorsi degli ufficiali. I soldati della sua compagnia ritenevano che la guerra fosse come una calamità naturale, una fatalità a cui non potevano sottrarsi. Non erano comunque dei pusillanimi. Facevano il loro dovere, ma senza l’entusiasmo che invece animava i nazionalisti. Questi ultimi erano il bersaglio di Arnaldo, un pittore dadaista che non se la prendeva con gli ufficiali, bensì contro gli intellettuali come Ardengo Soffici e Gabriele d’Annunzio. Gli epigoni del poeta di Pescara per lui erano degli idolatri, degli autentici stregoni che, desituando il Sacro nella bandiera, avevano dato sostanza a ciò che non esiste. Le argomentazioni di Arnaldo stimolarono l’interesse di Edoardo. Il pittore dadaista cominciò così ad abitare nei suoi i pensieri e diventò a partire da quel momento il suo amico fraterno e, insieme, il suo maestro.

Santa Maria La Longa per tutti i fanti della Brigata Catanzaro rappresentava solo una parentesi, una pausa tra gli orrori della guerra, le angherie e i soprusi perpetuati dagli ufficiali ai loro danni.


Ogni qualvolta partivano per il fronte quelli che tonavano ai baraccamenti erano sempre meno. La morte sul Carso era sempre in agguato: il numero dei caduti era, infatti, impressionante. L’ultima volta che erano tornati a Santa Maria, gli ufficiali li avevano blanditi, promettendo loro un lungo riposo e soprattutto le agognate licenze.

La promessa di poter tornare alle loro case, però, svanì la sera del 15 luglio, quando si diffuse la notizia che il giorno dopo la loro Brigata sarebbe tornata in prima linea. Il filo che fino al quel momento aveva tenuto legati quei soldati alla loro patria-matrigna si spezzò. La protesta, partita dalla sesta compagnia del 141° battaglione, si allargò agli altri reparti e ben presto si tramutò in una vera e propria rivolta. Erano le 22.30, quando gli insorti aprirono il fuoco contro la palazzina degli ufficiali.

Il comando della divisione fu informato in merito all’entità e agli sviluppi della sommossa. Da qui l’inviò a Santa Maria di una compagnia di carabinieri reali. Questi ultimi dovettero combattere tutta la notte per avere ragione degli insorti; poi, dopo avere individuato i soldati che avevano partecipato attivamente alla rivolta – i loro fucili erano ancora caldi – li passarono per armi. Infine, prima che spuntasse l’alba, giunse a Santa Maria l’ordine del Comando Supremo, con cui si disponeva l’immediata decimazione dei reparti che si erano ribellati.

Il mattino del 16 luglio 28 soldati, sorteggiati all’interno delle diverse compagnie del 141° battaglione, furono condotti al cimitero. Vennero ammassati – testimone D’Annunzio – contro il muro; ad una ventina di passi, si schierarono i soldati del plotone di esecuzione; alle spalle di questi ultimi i carabinieri erano pronti a far fuoco se i soldati avessero sparato in aria. Alle prime scariche, non tutti caddero e gli scampati cercarono di fuggire, tentando di scavalcare il muro; ne seguirono le scene più selvagge; alla fine di quella macelleria messicana, un ufficiale dei carabinieri diede il colpo di grazia agli agonizzanti.

Il racconto di quel tragico evento riportò alla mente di Edoardo la sua impotenza di fronte alle dinamiche del terremoto di Messina. Ma l’orrendo spettacolo a cui per fortuna non aveva assistito non era ancora finito. Qualche ora dopo, la sua Brigata, sotto scorta dei carabinieri, fu rispedita nella bolgia carsica. Gli animi dei fanti, però, erano ancora sconvolti. Lungo la strada molti soldati in segno di ribellione si liberarono dei caricatori. Ma dieci di essi furono individuati e, dopo un giudizio sommario, vennero condannati e fucilati. Per di più, un tenente colonnello arrivò a ordinare la fucilazione di un soldato, la cui sola colpa consisteva nell’averlo salutato, conservando la sigaretta in bocca.

Quest’ultimo caso sollecitò Edoardo e Arnaldo a riflettere non solo sul del delirio del potere e in particolare sull’idiozia degli ufficiali, bensì anche e soprattutto sull’ineluttabilità o meno della guerra.

La guerra, in quanto violenza organizzata, non è come il terremoto, ossia come una calamità naturale, una fatalità a cui non ci si può sottrarre. Non è in alcun modo sufficiente stigmatizzare il modo in cui generali gestiscono le guerre. La guerra che in particolare essi stavano combattendo era un prodotto dell’idolatria, che a sua volta aveva portato alla deificazione delle nazioni.

La patria vera non era quella dei generali, non era quella degli ufficiali e neppure quella degli operai che, proprio perché erano rimasti al sicuro nelle fabbriche, avevano dato, vigliaccamente, il loro assenso alla guerra, bensì quella dei contadini e dei proletari urbani, che venivano sfruttati durante i periodi di pace e inviarti al macello durante le guerre.

Le esperienze drammatiche che Edoardo aveva vissuto e, insieme, le riflessioni del suo amico dadaista, contribuirono a modificare il suo intimo convincimento. Edoardo desiderava l’avvento di una cultura capace di recuperare le istanze pacifiste del mondo contadino, di una cultura capace promuovere le relazioni degne fra gli uomini. Da qui il suo desiderio di sottrarsi alle dinamiche della guerra, che gli imponevano di uccidere per non essere ucciso. Decise pertanto che, in occasione della sua prima licenza, avrebbe messo fine alla sua vita in uniforme.

Dopo cinque mesi, ottenne finalmente la possibilità di tornare a casa. Si recò dapprima a Messina per incontrare i suoi zii e subito dopo partì per Mola. Qui lo attendeva Rosina. Sapeva che poteva contare su di lei, sapeva che per salvargli la vita era disposta a rischiare anche la galera. Il suo mestiere, d’altronde, glielo imponeva. Il suo compito non era solo quello di aiutare a far nascere, bensì anche quello di proteggere la vita!

Rosina fu lieta di nasconderlo e temette per il peggio solo quando giunsero al suo orecchio le dicerie di alcuni mormoratori. Questi ultimi asserivano che lei nascondeva un disertore a casa sua. La fiera ostetrica, però, non si perse d’animo. Aveva imparato dare il meglio di se stessa proprio quando si trovava di fronte alle difficoltà del parto. Grazie alla sua astuzia mediterranea, riuscì a stornare da sé i sospetti. Dopo aver nascosto Edoardo nel materasso, composto dal fogliame di granturco, aprì le porte di casa sua, e invitò i vicini a entrare per rendersi conto che lì non c’era alcun disertore.

Terminato il conflitto, con la concessione dell’amnistia ai disertori, Edoardo poté finalmente riottenere la sua libertà di movimento. Pur potendo tornare a Messina, decise di restare a Mola accanto a Rosina, la donna che gli aveva salvato la vita. Lo vedevo spesso passare per via Pascasio, col suo portamento elegante. Qui nella sua bottega aveva sempre a portata di mano il suo monocolo!


Nicola Fanizza (Mola di Bari 1951) negli anni Ottanta è stato redattore della rivista «La Balena Bianca», e in seguito, di a «InOltre. Nel 1995 ha pubblicato il saggio La dolce immaturità. Il transito nell’identità e nella comunità, Colibrì; nel 2011, Piero Delfino Pesce e la rinascenza mediterranea nel centenario della nascita della rivista Humanitas (1911-1924), Laterza editore; nel 2016, Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare, edizioni dal Sud; infine, nel 2020, Miguel Vaaz. Il conte di Mola, Cacucci. Alcuni suoi racconti e articoli sono apparsi su «L’Acropoli», «alfabeta2» e «Nazione Indiana». Dirige il sito: www.centrodocumentazionepierodelfinopesce.it/. Si occupa di Storia e di Antropologia filosofica.

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