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I nodi aperti della lotta antirazzista in America

Intervista di Anna Curcio*


Maurizio Cannavacciuolo, Untitled, 2003, olio su tela, 94x110 cm



Le proteste che sono state innescate dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, sono esplose in moltissime città degli Stati Uniti, nelle grandi aree metropolitane e in piccoli centri dell’America profonda, hanno interessato anche quelle aree del paese dove non è presente una forte comunità nera o non esiste una tradizione di lotte. Cosa sta succedono?

Questo è un momento molto interessante. Quello che è successo a Minneapolis e l’intensità della risposta che ha seguito la morte di George Floyd ha avuto risonanze in molto altre città perché è stata l’occasione per immaginare un nuovo spazio del possibile. Credo che in questo senso abbia anche giocato la situazione che si era venuta a creare con la pandemia. La gente era stanca di essere richiusa in casa da mesi, arrabbiata per aver perso il lavoro e questo ha creato una situazione esplosiva. Molte delle persone che sono scese in strada erano alla loro prima esperienze politica e non avevano mai partecipato a momenti di lotta nelle strade. Sicuramente molti di loro si erano già scontrati con la polizia ma non come esperienza all’interno di azioni politiche organizzate, piuttosto come esperienza di vita nel quotidiano. Una larga parte delle azioni, almeno all’inizio sono state generalmente spontanee, e spontaneo è stato l’avvio delle cose a Minneapolis.

Facevi riferimento al contesto sociale e soggettivo creato dalla pandemia come elemento specifico di queste proteste. L’uccisione di afroamericani da parte della polizia non è infatti una novità negli Stati Uniti, e quello di cui parli e ciò che abbiamo potuto osservare dall’esterno è senz’altro un’esplosione conflittuale senza precedenti quanto a intensità e diffusione. Proviamo a evidenziare i principali elementi di novità di questa lotta…

La scala delle protesta è indubbiamente senza precedenti, neanche negli anni Sessanta le rivolte si erano diffuse in questo modo. Tuttavia rispetto a quegli anni non credo ci sia un analogo livello di organizzazione e radicamento nella sinistra radicale americana. Black Lives Matter, che non è solo uno slogan ma è anche un’organizzazione concreta, non ha una filiazione intrinseca con la sinistra, ne fanno parte molti gruppi liberal e organizzazioni non governative, e questo crea una profonda contraddizione. Nel movimento c’è anche una divisione tra chi è arrabbiato per le violenze della polizia e il razzismo e partecipa alle manifestazioni per esprimere la propria indignazione cercando un ascolto istituzionale, e c’è anche una componete, senz’altro molto forte nei primi giorni, che non vuole soltanto far sentire la propria voce ma vuole soprattutto rompere la stabilità dell’ordine esistente. Vogliono scontrarsi con la polizia e mettere direttamente in discussione la deprivazione economica che vivono quotidianamente.

Nelle strade ci sono queste due differenti tendenze, quelli che vogliono resistere dentro i confini della legalità borghese e quelli che vogliono andare oltre. In entrambi i casi, come dicevo, si tratta di persone che si avvicinano per la prima volta alla politica. Allo stesso tempo partecipano alla protesta anche gruppi che mantengono un livello più burocratico, come ad esempio molte organizzazioni non governative che spesso pretendono di parlare per la comunità nera, che prendono la parola nelle lotte assumendo ruoli di leadership. Questi sono spesso contrari alla distruzione delle proprietà, a quelli che vengono definiti saccheggi, e sono sostenitori della necessità di costruire rapporti amichevoli con la polizia, finanche rapporti di collaborazione. Il loro linguaggio non è sempre coerente e il loro obiettivo è quello che il sistema, sia dal lato dello Stato che da quello del capitale, riconosca le loro rimostranze e si impegni in un processo politico che sia sensibile al tema della razza. Agiscono dunque come forza di contenimento, non sono interessati a mettere in discussione il sistema, vogliono solo modificarlo, aggiustare la struttura sociale esistente cercando una migliore collocazione.

Se si osservano le proteste attraverso i media mainstream si nota una forte insistenza sulla natura multirazziale delle piazze. Puoi dirci chi scende in strada per protestare? È davvero possibile parlare di una protesta multirazziale o quantomeno più multirazziale di altre precedenti?

Direi che la cosa è molto differente da un giorno all’altro e da città a città. In molti casi è davvero multirazziale e in altri casi ho visto una maggioranza di neri. Per esempio, quando ho visto saccheggi e incendi nelle strade la partecipazione era prevalentemente nera, e credo che in questo caso il tema non sia tanto la razza, nel senso che, in questi momenti di protesta, l’idea secondo cui l’appartenenza razziale determini il modo in cui si agisce politicamente non è sempre assunta. Nel corso di alcune manifestazioni è passata l’idea che se sei bianco non puoi fare alcune cose che invece puoi fare se sei nero. Altre volte ha prevalso l’idea che l’obiettivo è scontrarsi con la polizia, e chiunque può parteciparvi nel modo in cui vuole, in questi senso dicevo che la razza non è il tema principale.

Durante il giorno le proteste sono prevalentemente legali, c’è la partecipazione delle organizzazione non governative, la composizione è multirazziale e la retorica della razza è sempre centrale. Tutti noi abbiamo visto i cordoni di attivisti bianchi schierati davanti ai neri come per proteggerli. Questo è quello che si dà durante il giorno, nel corso di azioni che sono più riformiste. Durante la notte, quando si svolgono invece le azioni illegali, la partecipazione è prevalentemente, ma non esclusivamente, nera. Sono neri e non solo quelli che iniziano a costruire barricate e a spaccare vetrine e nessuno si lamenta. Viceversa, in occasione dei principali cortei chi lancia qualcosa contro la polizia viene accusato di istigare attacchi di reazione, di essere un mero agitatore e di essere contro la protesta. I leader dicono che chi rompe una vetrina deve essere subito denunciato alla polizia. C’è dunque una grande differenza tra le proteste del giorno e quelle della notte e questa differenza è stata molto visibile soprattutto nei primi giorni. Poi, nel corso di una settimana circa, la sensibilità delle manifestazioni durante il giorno si è diffusa anche nelle proteste della notte.

In che misura un mese di intense proteste sta concretamente influenzando il piano della politica istituzionale e del sentire dei cittadini americani?

Senz’altro ci saranno dei cambiamenti. Questi si vedono già negli orientamenti dell’opinione pubblica e credo che ci saranno anche dei cambiamenti a livello delle politiche. Da quando è iniziato, il movimento ha avuto un forte carattere di disturbo, ha saputo forzare percorsi e immaginari. È per questo che vedo in prospettiva altri cambiamenti. Tuttavia i cambiamenti che arriveranno dipendono da come il movimento andrà avanti, e credo che se si vuole evitare il contenimento e la neutralizzazione del movimento c’è bisogno di un processo organizzativo che possa sostenere la rottura. Questo non è un punto astratto perché il movimento non potrà andare avanti se resta sul piano della spontaneità. Nel tempo le energie si indeboliscono, le persone non potranno essere nelle strade tutti i giorni. Deve perciò esserci un modo per dare continuità alla protesta e trasformare le esplosioni di rabbia, che hanno permesso di raggiungere risultati che negli anni passati sarebbero stati impensabili, in qualcosa di più stabile. Solo allora potremmo lentamente vedere prender forma un processo di cambiamento radicale. Altrimenti il movimento sarà cooptato e i cambiamenti saranno soltanto simbolici, e questa è la situazione che dobbiamo evitare.

Per concludere, e per riassumere in poche battute l’analisi che ci ha fin qui proposto, quali ritieni siano i punti di forza e le debolezze di questo movimento?

Il punto di forza è senz’altro il modo in cui le proteste sono esplose, la dimensione di spontaneità, l’ampia diffusione e soprattutto la capacità di entrare in modo diretto in antagonismo con lo Stato. Il fenomeno politico precedente più significativo era stata la campagna per Bernie Sanders che aveva proprio come principale obiettivo quello di far breccia nella sfera politica statuale, e per fare questo era stata intrapresa una strategia che rischiava di ridurre significativamente la portata conflittuale di quella proposta politica. Questo movimento invece è riuscito subito a imporre la sua agenda politica conflittuale allo Stato, e questa è stata la sua più grande forza. Il movimento ha mostrato una tale capacità di resilienza che ha permesso a tante persone in tutto il paese di identificarsi e di considerare come rilevanti le istanze sollevate con le rivolte.

Le debolezze le porrei più in termini di rischi. Come dicevo, vedo il rischio che il movimento possa essere cooptato e neutralizzato.

*Questo testo anticipa alcuni stralci da un’intervista con Asad Haider che sarà pubblicato nel volume Black Fire. Storia e teoria del proletariato nero negli Stati Uniti (a cura di Anna Curcio), DeriveApprodi 2020. Asad Haider è autore di Mistaken Identity: Race and Class in the Age of Trump, Verso 2018.

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