Le futur derrière nous, una mostra curata da Marco Scotini a Villa Arson
Pubblichiamo per forme un commento di Manuela Gandini alla mostra Le futur derrière nous, curata da Marco Scotini e in corso a Villa Arson a Nizza
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Abbiamo amato tanto la rivoluzione: la scritta al neon bianco e rosso campeggiava sopra a un pavimento ondulato di vetri rotti distribuiti lungo tutta la Fondazione Merz nel 2013 a Torino, per la mostra di Alfredo Jaar nell’ex fabbrica della Lancia. La rivoluzione è un lago inospitale e disagevole, fatto di micro-catastrofi, che si stende sotto lo sguardo perso dell’Angelo della Storia. Le futur derrière nous, il futuro dietro di noi, è una mostra lucida e impietosa, curata da Marco Scotini, in corso a Villa Arson a Nizza, che abbraccia tre generazioni di artisti italiani dagli anni Novanta in poi. È un bagno in quegli stessi vetri puntuti, in quel mare di incertezze, poesia e violenza che portiamo con noi come schegge nel cuore. Gli artisti invitati – che filtrano il clima culturale degli ultimi cinquant’anni – hanno prodotto bagliori che li legano ai maestri, alle stragi, alle lotte, al Carosello, all’operaismo, al femminismo, alle figure topiche dell’intellighenzia europea. E, va detto che è dovuto passare mezzo secolo prima di poter cominciare, attraverso la trasversalità dell’arte, a ricostruire la storia di un’era drammatica, tormentata, tragicamente vitale. Erano gli anni della repressione e della rivoluzione, di Woodstock e del Living Theatre, che edificavano un futuro sovversivo, evolutivo e radicale. E quel futuro immaginato è diventato il nostro presente: un presente popolato dalle siluette umane in scala 1:1, tratte da Google Street View, di Paolo Cirio. Un tempo di fantasmi tecnologici, di esseri virtuali catturati dal satellite che si agirano nello spazio infinito del web, creature generate dai dispositivi degli ex-hippy della Silicon Valley, allora animati dallo zen e dalla controcultura, oggi fautori del mercato dei dati e del controllo globale. Le futur derrière nous dichiara la mancanza di una visione prospettica, è un tessuto connettivo sul nostro panorama piatto che ripara e ricompone le ossa fratturate degli anni Settanta e rispolvera atroci misteri legati agli omicidi di Stato, a DC, PCI, BR e ai servizi deviati. E’ un viaggio, che richiede un’attrezzatura speciale, tra le idee delle menti più brillanti e gli spettri che si aggirano inquieti negli archivi delle Procure. La grande foto storica di Uliano Lucas, di centinaia di giovani in sit-in in piazzale Loreto nel 1971, apre la mostra. Sovrapposta all’immagine della comunità c’è la carta geografica di Luca Vitone, Carta Atopica (1992), una mappa senza indicazioni, senza nomi di città, monti e fiumi. Una planimetria muta e inutilizzabile che mostra la perdita antropologica di ogni riferimento politico e sociale.
Il disorientamento filosofico e culturale è il fil rouge che accomuna le opere che parlano di un futuro alle spalle, imploso, rielaborando criticamente le teorie, i vissuti e le narrazioni dei predecessori siano essi maestri, artisti o assassini. Il «Museo Franco Basaglia» – ricostruito da Stefano Graziani all’ex manicomio di Trieste (il primo ad essere chiuso) – è immortalato negli still-life che ritraggono vasi di rose secche – raccolte nel giardino dell’ex ospedale psichiatrico – poggiati sui libri dell’autore della legge 180 che decretava l’abolizione dei manicomi. Il controcampo fisico della questione Basaglia è rappresentato dal grande cavallo blu di cartapesta, realizzato da Claire Fontaine, sullo stesso modello di quello fatto dagli ospiti della medesima struttura triestina nel 1973, come atto di sovversione alla psichiatria ufficiale. Ma, anziché essere simbolo dinamico di libertà, con i desideri dei malati nella pancia, Marco Cavallo (così si chiamava e si chiama) diventa trappola, immagine di costrizione e immobilità, per la dimensione esagerata dell’animale in rapporto alla piccola stanza dove è ospitato. E, a proposito di dimensioni, Francesco Arena propone oggetti che portano le misure di un omicidio avvenuto la notte del 15 dicembre 1969, quando l’anarchico Giuseppe Pinelli fu “suicidato” dalla polizia nel commissariato milanese di via Fatebenefratelli. I 18.900 metri percorsi da Pinelli per raggiungere la centrale sono la somma della superficie totale di mattonelle di ardesia impilate da Arena; mentre 92 centimetri – l’altezza della ringhiera dalla quale l’uomo precipitò – è la dimensione dei mobili tagliati ad hoc proprio su quella misura. L’installazione è metafora di tutto ciò che è rimasto sospeso, irrisolto, incompleto, funestamente occultato. Come scrive l’artista sudafricana Marlene Dumas: «Il passato non è didattico: la sua relazione con il presente non è una relazione pedagogica, e nemmeno stabile o fissa. Il passato è del tutto imprevedibile».
Tutto il percorso espositivo è un tentativo di rielaborare i lutti collettivi, vederci chiaro, dare un senso e una misura agli eventi. Contemporaneamente si propone di riattingere all’energia e alle fondamenta delle teorie che hanno sorretto le scelte della ribellione drammaticamente repressa e disintegrata dal potere neoliberista. «Chi detiene il possesso della memoria? – si chiede Scotini – Chi la governa e l’amministra? Chi ha il potere di raccontare le storie? Questa mostra cerca di dare una risposta».
Claire Fontaine propone due mattoni rivestiti con le copertine di due libri cult: Vogliamo tutto di Nanni Balestrini e Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi. In entrambi non vi sono pagine ma detonatori, vi è solo la forza e il peso dirompente della storia non scritta ma agita. Una speciale tensione affettiva si percepisce tra Massimo Bartolini e gli artisti che ha amato. Nella sua stanza è ospitata Art is easy, l’opera verbo-visiva di Giuseppe Chiari contro il mercato e ogni gerarchia culturale. E proprio lì sentiamo le note in loop di un brano di Debussy, le ultime suonate da Arturo Benedetto Michelangeli prima di accasciarsi sul palcoscenico del teatro di Bordeaux. La mostra prosegue su temi che vanno dal processo all’Autonomia Operaia riproposto da Rossella Biscotti, al rifiuto del lavoro nell’improbabile cabina per l’ipnosi di Danilo Correale, sino al video di Irene Dionisio sulla liberazione sessuale, il mondo gay e queer. L’arte italiana degli ultimi trent’anni è distribuita nella sua eterogeneità e ampiezza, racconta l’età del disincanto, il vuoto degli anni Ottanta e la sete di risposte, la forza degli slogan, le illusioni e i fermi di polizia. Ma non si tratta del disco del lamento, bensì di un riordino creativo e dinamico del recente passato. Ai fallimenti ideologici plateali, si sono accompagnate conquiste laterali, micro-comunità autosufficienti, esperienze attive di condivisione e partecipazione, e l’acquisizione di diritti anche se perennemente minacciati. Quindi, nel nostro accidentato procedere – camminando sopra i vetri rotti della rivoluzione che stridono tremendamente alle nostre orecchie – troviamo oasi e rifugi, come la foresta progettata da Bert Theis per il quartiere Isola di Milano. La lunga attività di resistenza da lui condotta con gli abitanti del quartiere per il progetto della Stecca degli Artigiani è un’esperienza indistruttibile comunitaria di crescita e consapevolezza, nonostante l’avvenuta gentrificazione e speculazione. L’esperimento di arte pubblica che contempla l’attuazione di decisioni dal basso, pur essendo in Italia ancora un principio utopico, costituisce un importante precedente per altri paesi del mondo. Nella medesima forma di decostruzione ecologica dello spazio urbano, s’inserisce anche l’attività di arte pubblica del gruppo Stalker, con il progetto Osservatore Nomade, attivo nei luoghi più vulnerabili e marginali delle periferie urbane. Futur derrière nous è uno squarcio su di noi, un passaggio necessario che la Francia ha accolto, accostandolo alla mostra curata da Valérie Da Costa, per il Mamac di Nizza, intitolata Vita Nuova : Nouveaux enjeux de l’art en Italie 1960-1975.
«Futur derrière nous – afferma Scotini – vuole parlare del presente, ma di un altro presente. Ha uno sguardo retrospettivo perché il presente è pieno di fantasmi. Dopo gli anni ‘80, dobbiamo ancora fare i conti con la ricchissima generazione dei ‘70. Occorre tessere delle strutture temporali nelle quali i fantasmi possono esser presenze reali».
Le futur derrière nous, Vialla Arson, Nizza, sino al 28 agosto 2022
Immagine: Claire Fontaine, Vogliamo tutto brickbat, 2016
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