Nel 1964 Hannah Arendt sedette negli studi della televisione pubblica della Germania Ovest per un’intervista con il giornalista Günther Gaus che avrebbe poi avuto ampia eco. L’avvio del dialogo è piuttosto sorprendente: Arendt, che aveva studiato con Heidegger e Jaspers in Germania e insegnava da tempo negli atenei statunitensi corsi di taglio prevalentemente filosofico, affermò con risolutezza di non appartenere al «circolo dei filosofi», ma di individuare piuttosto la propria Beruf, la propria professione ma anche vocazione, nella teoria politica [1]. La ragione di questo «addio definitivo» alla filosofia viene illustrata poco dopo, in risposta allo stupore dell’intervistatore: nel momento in cui si fa della politica il proprio oggetto di studio, occorre prendere atto della presenza di «una sorta di inimicizia nei confronti della politica nella gran parte dei filosofi» – inimicizia in cui Arendt dichiarava di non volere alcun ruolo. Una tale «tensione di fondo» tra politica e filosofia, fra «l’uomo come essere che pensa e l’uomo come essere che agisce» faceva sì, a suo dire, che vi fosse un irriducibile conflitto tra i due poli dell’espressione filosofia politica [2].
Nel testo di una lezione pubblicato soltanto molti decenni dopo la sua morte, Arendt collocava l’apertura di questo «golfo» tra la filosofia e la politica nel processo e nella condanna di Socrate – la cui incapacità di persuadere i propri giudici sarebbe stata all’origine della feroce polemica platonica contro l’opinione, opposta ad una verità trascendente ed immutabile, e alla duratura influenza di tale polemica sull’intera storia del pensiero politico e non solo [3]. Proprio in quel contributo si registra una ambivalenza di fondo fra la necessità di una presa di distanze dalla tradizione de-politicizzante della cosiddetta filosofia politica e quella, dopo l’esperienza del totalitarismo e la relativa distruzione del «senso comune» tanto politico quanto filosofico, di dare l’avvio ad una «nuova filosofia politica» [4]. Parlare di teoria politica, allora, implica al contempo un’uscita dalla filosofia ed un modo diverso, potenzialmente migliore, di declinare la propria Beruf filosofica. Dentro questa ambivalenza si può forse leggere tutta l’opera di Arendt – la sua condanna esplicita della tendenza di «gran parte della filosofia politica, da Platone in poi», a ridurre la politica a governo, cioè all’idea che «gli uomini possono […] vivere insieme solo quando qualcuno ha il diritto di comandare e gli altri sono costretti ad obbedire» [5] non meno che la determinazione nell’interpretare, in modo non di rado controverso, aspetti centrali della politica contemporanea (dalla segregazione razziale [6] al rapporto tra responsabilità morale e potere [7], dalla violenza [8] alla disobbedienza civile [9]passando per il ruolo della menzogna in politica [10]) da una prospettiva che sarebbe difficile non definire filosofica.
Andando più nello specifico, possiamo rintracciare in Arendt una distinzione fondamentale tra verità di fatto e verità razionale attorno alla quale si articolano la sua postura intellettuale in generale ed il suo rapporto non semplice con le scienze sociali in particolare. Semplificando, si può affermare che la differenza principale tra la prima e la seconda consiste nell’opposta relazione che esse intrattengono con la politica. La verità di fatto (ad esempio l’esatta conoscenza di una certa circostanza storica rispetto alla quale si è chiamati a prendere posizione) è «politica per natura» - nella misura in cui essa costituisce la precondizione senza la quale le molteplici e differenti opinioni al centro del dibattito politico sarebbero prive di ancoraggio con la realtà e quindi ridotte a mera farsa: «[i] fatti informano le opinioni e le opinioni, informate da diversi interessi e passioni, possono differire molto e rimanere legittime fino a quando rispettano la verità di fatto» [11]. La verità razionale o filosofica (per fare un esempio: la superiorità della vita teoretica su quella attiva e la conseguente opportunità, in Platone, che la seconda sia regolata da coloro che eccellono nella pratica della prima), che concerne l’uomo nella sua singolarità e non ammette margini per opinare, è invece «impolitica per natura» [12]. La centralità dell’opinione nella sfera politica non coincide, in Arendt, con una esaltazione del relativismo – tanto è vero che un’opinione è a suo avviso tanto più meritevole di attenzione quanto essa è «imparziale» – ma in un riconoscimento della incancellabile pluralità degli esseri umani e della loro fondamentale capacità di innovazione, di portare alla luce con il proprio agire qualcosa di nuovo e mai del tutto prevedibile.
Queste stesse considerazioni, a prima vista piuttosto astratte, segnano il modo in cui Arendt guardava alle scienze sociali. Critica tanto del behaviourismo quanto degli approcci idealtipici, denunciava l’incapacità della sociologia e della scienza politica del suo tempo di fare i conti con un fenomeno inedito quale il totalitarismo[13], che esigeva l’elaborazione di nuove categorie concettuali. Al tempo stesso, pur restando sempre lontana da facili patetismi o eccessi retorici, notava l’impossibilità di analizzare la realtà totalitaria con il linguaggio asettico ed impersonale della scrittura accademica senza correre il rischio di negarne l’enormità [14]:
«Quando ho fatto ricorso all’immagine dell’inferno non le attribuivo un significato allegorico, ma letterale: sembra piuttosto ovvio che uomini che hanno perso la propria fede nel paradiso non saranno in grado di istituirlo sulla terra; ma non è altrettanto certo che coloro che hanno perduto la fede nell’inferno come un luogo dell’aldilà non siano capaci di creare sulla terra delle precise imitazioni di ciò che si usava credere riguardo l’inferno. In tal senso penso che una descrizione dei campi [di sterminio] come inferno sulla terra sia più “oggettiva”, vale a dire più adeguata alla loro essenza, di affermazioni di natura puramente sociologica o psicologica [15].»
Questo passaggio ci restituisce in tutta la sua problematicità una delle cifre della produzione arendtiana: la volontà di studiare oggetti solitamente ritenuti appannaggio dalle scienze sociali con una sensibilità che però nei momenti salienti rivela sempre la sua natura teoretica, talora accompagnata da giudizi normativi. Non è del resto un caso che la più accesa delle polemiche che la riguardarono in vita – quella scatenata dal capitolo di Eichmann a Gerusalemme sulla collaborazione di alcuni Judenräte (consigli ebraici) con i nazisti – scaturì non tanto da imprecisioni storiche nella sua ricostruzione, quanto dalla natura spigolosamente filosofica – e potenzialmente fraintendibile per il lettore poco avveduto – delle osservazioni che la accompagnavano [16].
Si giunge così all’apparente paradosso per cui i lavori più storici di Arendt siano difficilmente analizzabili su un piano strettamente storiografico, dal momento che in essi la verità di fatto degli eventi non è facilmente scindibile da una loro rilettura dalle tinte fortemente astratte. Pur non arrivando mai alle teorizzazione di verità razionali da applicarsi verticisticamente all’ambito politico, il confronto di Arendt con la storia risulta a tratti poco disposto a smussare le proprie categorie teoriche in risposta all’evidenza empirica – così come ad ammettere chiaramente la natura di costruzione sociale di qualsivoglia interpretazione storica. Capita allora che la critica arendtiana all’idealismo della tradizione filosofico-politica di traduca in poco convincenti contrapposizioni tra il pragmatismo dei rivoluzionari americani e l’intellettualismo di quelli francesi [17] – o, ancora, che nonostante l’aspra critica a Marx il suo libro sulla rivoluzione finisca per essere pesantemente (e non del tutto consapevolmente) influenzato proprio dai presupposti della storiografia marxista[18].
I testi di Hannah Arendt, in conclusione, sfidano la collocazione in questo o quel campo disciplinare e sono probabilmente destinate a lasciare parzialmente insoddisfatti i cultori di qualunque materia. Il loro scopo, più che la polemica ideologica o la produzione di sapere scientifico, è la comprensione, «un processo complesso che non dà mai risultati inequivocabili», «un’attività senza fine, sempre diversa e mutevole, grazie alla quale accettiamo la realtà, ci riconciliamo con essa, cioè ci sforziamo di essere in armonia con il mondo» [19]. In tale caratteristica sta la cifra etica e biografica di un’autrice le cui conclusioni poco si prestano a venire abbracciate o rigettate in toto – ma che continuano a stimolare critiche, ripensamenti e riletture ad ormai più di quarant’anni dalla sua scomparsa.
Note [1] H. ARENDT, “What Remains? The Language Remains”: A Conversation with Günther Gaus, in Essays in Understanding, 1930-1954, a cura di J. Kohn, New York, Shocken Books, 1994 [1964], pp. 1-23 (1). [2] Ivi, p. 2. [3] H. ARENDT, Philosophy and Politics, «Social Research», 71.3, 2004, pp. 427-454. [4] Ivi, p. 453. Una ambivalenza simile si può trovare anche nell’opera più tipicamente filosofica di Arendt, The Life of the Mind, che se per certi versi costituisce un ritorno «al suo primo amore, la filosofia» (E. YOUNG-BRUEHL, Hannah Arendt. Una biografia, Torino, Bollati Boringhieri, 2006 [1982], p. 373), d’altro canto inizia con l’ammissione della propria mancanza tanto di pretese quanto di ambizioni rispetto all’essere considerata una filosofa (The Life of the Mind, New York, Harcourt, 1978, p. 3). [5] H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, trad. it. di Sergio Finzi, Milano, Bompiani, 1994 [1958], p. 163. [6] Tra gli altri, Ead., Reflections on Little Rock, «Dissent», 6.1, 1959, pp. 45-56. [7] Si vedano soprattutto Ead., Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, New York, Peguin, 2006 [1994] e i saggi contenuti nella prima parte di Ead., Responsibility and Judgment, a cura di J. Kohn, New York, Shocken Books, 2003. [8] Principalmente Ead., On Violence, New York, Harcourt, 1970. [9] Ead., Civil Disobedience, in Crises of the Republic, New York, Harcourt, 1972, pp. 49-102. [10] Ead., Verità e politica, in Verità e politica seguito da La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, trad.it. di Vincenzo Sorrentino, Torino, Bollati Boringhieri, 2004[1967], pp. 29-77 e Lying in Politics. Reflections on the Pentagon Papers, in Crises of the Republic, cit., pp. 1-47. [11] Verità e politica, cit., p. 44. [12] Ivi, p. 54. [13] P. BAEHR, Hannah Arendt, Totalitarianism, and the Social Sciences, Stanford, Stanford University Press, 2010, p. 26. [14] Ivi, pp. 16-17. [15] H. ARENDT, A Reply to Eric Voegelin, in Essays in Understanding, cit., pp. 401-408 (404). [16] Cfr. R.J. BERNSTEIN, Hannah Arendt and the Jewish Question, Cambridge, Polity Press, 1996, pp. 161-164. [17] H. ARENDT, On Revolution, New York, Penguin, 1990 [1963], p. 116. Cfr. anche R.H. KING, Arendt and America, Chicago, University of Chicago Press, 2015, pp. 252-254. [18] L. DISCH, How could Hannah Arendt glorify the American Revolution and revile the French? Placing On Revolution in the historiography of the French and American Revolutions, «European Journal of Political Theory», 10.3, 2011, pp. 350-371. [19] H. ARENDT, Understanding and Politics, in Essays in Understanding, cit., pp. 307-327 (307-308).
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