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Gli strumenti del padrone e i macchinari imperfetti

Intervista a Marco Scotini a cura di Paolo Caffoni su Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici



In occasione dell’uscita della seconda edizione di Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici per la collana «humanities» di DeriveApprodi, Paolo Caffoni intervista l’autore e curatore Marco Scotini. La ripubblicazione del volume, la cui prima uscita è del 2016, in un’edizione 2021 rivista e arricchita di nuovi contributi, diventa una preziosa occasione per verificare i poteri dell’oggi nella loro contiguità al passato recente. L’antologia raccoglie infatti 27 contribuiti scritti da Scotini negli ultimi vent’anni. In essi viene messa a fuoco tanto la ricorrenza della governance neoliberale nel sistema dell’arte contemporanea, quanto la possibilità di deliberazione comune implicita nelle analisi e nello smascheramento del suo funzionamento e dei suoi ingranaggi.


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Nella prefazione alla seconda edizione di Artecrazia, rendi conto della rinnovata attualità degli scritti e dei pensieri raccolti in questo volume, con una presa di posizione lucida e controcorrente rispetto al clima politico odierno: «Il disastro che stiamo vivendo è, per me, nuovo nella sua forma, ma niente affatto nella sostanza. Addirittura credo che si tratti di uno sviluppo accelerato di quanto era già stato programmato ma, da anni, in riserva». Gli ultimi due anni di pandemia sembrerebbero aver lasciato in eredità una radicale trasformazione delle geografie del dissenso. Penso prima di tutto alla chiusura securitaria – questa volta veramente integrale? – dello spazio pubblico, ma anche alla odierna appropriazione da parte delle ideologie di destra delle forme di rifiuto della governance statale. Tanto che rileggere oggi un progetto come quello di Disobedience Archive, sembrerebbe forse come guardare a un mondo alieno o, quantomeno, a un passato remoto. Se tu dovessi oggi ripensare una nuova edizione della mostra/archivio della disobbedienza e selezionare, come spesso hai fatto (il parlamento, il parco, l’ufficio, la piazza, ecc.), un luogo che possa funzionare anche come dispositivo di intervento e di esposizione, da dove partiresti?


Dovrei risponderti che il nuovo luogo metaforico per Disobedience dovrebbe essere la clinica in rapporto all’espropriazione della salute o alla «nemesi medica», come l’aveva definita Ivan Illich. Ma anche per tutta quella moda culturale che, negli ultimi due anni, ha fatto un uso perverso della parola «cura», nel momento in cui questa è stata una maschera estrema del peggior autoritarismo politico e di un neoliberismo illimitato. Preferirei invece che il suo spazio fosse piuttosto quello di una scuola: il luogo di formazione ma, soprattutto e ancora, il modello sociale per eccellenza. La formazione è da sempre tanto il luogo dell’obbedienza che della contestazione ma, che cosa succede nel momento in cui il modello associativo, che ne è alla base, è stato messo sotto-sopra dalle forme di distanziamento sociale? Che cosa succede quando pensiamo che questo modello possa essere sostituito dalla sua mediatizzazione? E che, anzi, non possiamo che guadagnarci in rapporto alla capacità di incrementare la nostra autonomia? Non mi riferisco solo alle costrizioni esterne che sarebbero abolite con il rientro in aula ma all’introiezione dei rapporti capitalistici come rapporti sociali e di divisione del lavoro, per cui continuiamo a fare del digitale il luogo di seminari esponenzialmente moltiplicati, di uno tsunami di conferenze. Disobedience University è una sottosezione dell’archivio da molti anni, ma ora acquisterebbe tutt’altra dimensione. Come diceva Silvia Federici prima della pandemia, dobbiamo contestare l’assioma predominante che le tecnologie digitali sono la cinghia di trasmissione dei movimenti e delle insurrezioni. Realtà che, di fatto, continuano ad avere necessità della piazza, delle strade, della gente come a Minneapolis e in molti altri luoghi. Per questo (e anche in rapporto al no-green pass) non credo proprio che possiamo ridurre il dissenso contemporaneo alle destre. Il vero problema è il vecchio retaggio dell’ideologia che associa tecnologie ed emancipazione, mentre la posta in gioco sta nella costruzione di altre reti, alternative al web. Questo perché le immagini e i capitali migrano da una postazione all’altra ma non le persone fisiche, il copyright si può ridurre alla licenza creative commons ma la proprietà privata non può essere eliminata. Dunque dobbiamo farla finita di vedere il capitalismo (e il digitale che ne è lo strumento principale) come spazio di libertà. La domanda sempre più urgente è quella suggerita da Audre Lorde: potranno mai gli strumenti del padrone smantellare la casa del padrone? È pur vero che il libro Artecrazia si confronta con le immagini (la loro produzione, distribuzione, circolazione, consumo) ma è altrettanto vero che oggi la realtà consiste totalmente di immagini. Immagini che impediscono di vedere…


Nel saggio La classe disobbediente. Autonomia e formazione fai riferimento all’esperienza della Copenhagen Free University, un progetto di formazione esistito fra il 2001 e il 2007 che definisci come «autogestito e sperimentale» e che si poneva l’obbiettivo di «liberare le risorse educative e culturali asservite alla logica parassitaria dello sfruttamento neoliberista contemporaneo».

Questa esperienza aveva luogo in un appartamento privato, in cui erano «gli ambienti domestici tipici di ogni abitazione a ospitare le differenti funzioni» di quella che chiami una «auto-istituzione». Un altro caso che citi è sempre in un appartamento, questa volta del Lower Manhattan, al 16 di Beaver Street, dove dal 1999 in poi si tengono le attività autogestite di una ongoing conference. Mi ha colpito molto rileggere questa distribuzione dei tempi e dei luoghi del lavoro e della formazione, dell’apertura di spazi privati in funzione pubblica, quando parole chiave come home-working, home-schooling, ongoing conference (call), abbandonato il carattere costituente di un esodo dalle istituzioni, sembrano descrivere oggi la pervasiva colonizzazione degli spazi di vita da parte della logica di impresa. Naturalmente, come ricorda Virno, in una delle due interviste che hai realizzato e incluso nel volume, «non si tratta di un esodo spaziale, perché in gioco è un modello politico». Potrebbe allora essere che l’attraversamento del deserto debba oggi necessariamente ripartire da un ripensamento degli strumenti e delle tecniche che ci permettano di lavorare a quella che hai chiamato «una pedagogia della sfera pubblica»?


Da un lato potrei dire che oggi abbiamo a che fare con concetti e pratiche sussunti e ribaltati. Pensa allo slogan di Indymedia di venti anni fa, «Don’t hate the media, become the media», che era una citazione di Jello Biafra. Lo stesso si potrebbe dire di queste forme auto-istituenti ma non è così. Lo smart-working o lo smart-learning non sono altro che la più subdola e capillare penetrazione del capitalismo della sorveglianza all’interno dell’apparato domestico. Come dire: una militarizzazione del quotidiano che non è nuova ai regimi totalitari. Dunque non sovrapporrei automaticamente le due esperienze educative. Certo la via che allora veniva perseguita è quella che non dobbiamo abbandonare. Intendo quella di uscire dall’allineamento attraverso altre pratiche, altre logiche, altre cosmo-tecniche, in modo tale da definire nuovi poteri autonomi, individuali e collettivi. Il problema è anche quello di uscire da forme attuali di neo-esotismo con cui, nonostante tutto, continuiamo a leggere l’alterità, senza fare i conti con quello che dovrebbe essere il cuore nevralgico della politicizzazione contemporanea: la radicale messa in discussione della soggettività neoliberale. Se non ci sbarazziamo di questa figura ogni discorso sulla decolonizzazione (di genere, razza, società, natura) diventa una caricatura. Artecrazia cerca di inquadrare questa stessa figura all’interno della sfera dell’arte contemporanea, analizzando tutte quelle contraddizioni che invece di essere sbandierate come forme di libertà d’espressione dovrebbero essere lette in termini di dispositivi di cattura. Il terreno artistico (ma è un esempio paradigmatico) è ormai uno spazio di pacificazione culturale (anti-conflittuale) e di autoassoluzione (artwashing) che tende solo a riaffermare l’arte come sistema autocratico del capitale, funzionale solo alla riproduzione delle gerarchie sociali e al mantenimento dell’ordine. Ben venga perciò una pedagogia brechtiana della sfera pubblica!


In una recente e bella intervista con Elvira Vannini su «hotpotatoes», proprio in occasione del lancio della seconda edizione di Artecrazia, facevi riferimento al paradosso per cui le istanze ecologiche, femministe, decoloniali emerse, anche nel mondo dell’arte, negli ultimi anni, siano riportate in maniera quasi programmatica ad un problema di «inclusione» nelle forme di ciò che già esiste, in macchine espositive che sono precedentemente date. Questa tua riflessione mi ha ricordato un passaggio di Gayatri Spivak, che già nel 1993 nel suo libro Outside in the Teaching Machine metteva in guardia rispetto ad una certa retorica della discriminazione/inclusione: «Nel momento in cui il margine o il “fuori” entra l’istituzione o teaching machine, sarà la tipologia di macchina in cui verrà inserito a determinarne i contorni». Nel 2010, in occasione del trentennale di Naba, avevi pensato una mostra e un programma discorsivo dal titolo Learning Machine: Art Education and Alternative Production of Knowledge in riferimento a Fluxus e ai lavori di George Maciunas. Una mostra da te curata nel 2017 al Pav di Torino era intitolata The Extractive Machine. Neo-colonialsms and Environmental Resources. Oggi il riferimento che fai alla macchina è quello contraddistinto dalla «perfetta efficienza» degli algoritmi (e quindi del machine learning) nel far funzionare la logica d’impresa. Mi piacerebbe che ritornassi al sottotitolo di Artecrazia, anche per mettere a fuoco il tuo rapporto ambivalente con il concetto di macchina e la sua funzione epistemologica.


Il sottotitolo del libro «macchine espositive e governo dei pubblici» è, ancora una volta, coerente con tutte le accezioni che hai appena riportato. Non ci vedo ambivalenza, neppure nel mio ricorso al nome Learning Machine che Maciunas aveva dato alle sue costruzioni di carta. Ciò che accomuna tutte queste declinazioni del termine «macchina» è la sua differenza dall’idea di «mezzo». In fondo la macchina è un contesto piuttosto che uno strumento: un apparato di congegni, di arnesi che si relazionano tra loro in un determinato modo. In questo senso l’esposizione non è tanto una modalità di presentazione delle opere quanto, piuttosto, un insieme di ingranaggi – forza-lavoro, creatività, saperi, spazi, tempi, denaro, pubblici – che operano in una interrelazione predefinita per garantire un certo tipo di funzionamento. Come in tutte le macchine, anche in questa non c’è liberà d’azione e d’iniziativa se non nei limiti stessi che vi sono consentiti. Se uno non si accontenta di controllare solo la parte di sua competenza, se uno vuol capire la finalità della produzione, se uno volesse oltrepassare il ruolo a cui è assoggettato, se uno volesse indagarne gli effetti, ecco allora che la macchina s’inceppa, diventa inefficace. In un certo senso, più si è ignoranti dell’andamento o più si evitano domande, più la macchina funziona bene. Per questo l’allusione alle macchine è, per me, un modo per richiamare all’analisi di un contesto, del ruolo assegnato: tanto una denuncia che una via di fuga. Diciamo che, per il fatto stesso di poter divenire oggetto di sospetto, questi apparati si trasformano in macchinari imperfetti. Il pubblico, il consumatore, l’utente fanno parte allo stesso titolo dell’ingranaggio. L’imprevisto, l’innovazione, non possono che portare ad un blocco del funzionamento, ad un rallentamento del processo, a un suo arresto. Se scopro che la biennale Manifesta non opera per portare alla luce pratiche artistiche meno note ma è (né più né meno che) una azienda post-fordista con determinati profitti, che cosa succede? Continua a sollecitare i miei desideri? Se spoglio il curatore degli attributi della ricerca e sperimentazione per riconoscere solo quelli del management, cosa cambia rispetto alla sua reputazione? Se risulta chiaro che la grandezza di un artista è l’effetto di processi finanziari, continuerà a essere un modello per gli altri? Di fronte un museo, una biennale o una esposizione la domanda da porsi è: «come funziona?»; «con che finanziamenti?»; «con quale organizzazione o divisione del lavoro?». Tanto più siamo assoggettati alle macchine tanto più ci seducono…

In questo senso i primi due capitoli del libro mettono in atto una vera e propria Institutional Critique.


Hai dedicato l’ultimo capitolo del libro, una aggiunta a questa edizione (che segue «esposizioni», «pubblici», «schermi»), al concetto di «storie», al plurale, come gli altri, anche se mi sembra il suo soggetto voglia essere la storia e non necessariamente il racconto o la biografia. Proprio della necessità, politica, di reintrodurre la storia (o le storie) all’interno del discorso ecologista contemporaneo, tratti nel saggio dedicato alla biennale di Yinchuan, a cui ho avuto la fortuna di lavorare con te. Allora, nel 2019, uno dei punti di partenza era stato il film di Joris Iven Une Histoire de vent (1989). In una scena del suo testamento cinematografico il vecchio regista olandese, a cui manca il respiro, dopo una vita passata a filmare guerre e lotte, malato d’asma, siede su di una duna nel deserto del Gobi, paziente, in attesa della possibilità di registrare l’immagine invisibile del vento. Inutilmente, fino al termine del film, quando un diagramma magico e due ventilatori a uso domestico compiranno l’impossibile. Qualcosa che ritorna anche nella tua mostra recente su Laura Grisi. Ritroviamo in questa immagine il vento della storia? Perché hai voluto designare proprio il deserto come «teatro del vento» a luogo privilegiato di un re-incontro, o di un «re-incantamento» per usare la formula di Federici, fra natura e storia?


I tre saggi dell’ultimo capitolo sono rispettivamente dedicati agli archivi ribelli del femminismo italiano, alla resistenza opposta dagli artisti all’oblio del socialismo jugoslavo e alla interrelazione tra lavoro dell’uomo e della natura nella costruzione della storia, contro l’astrazione proposta dalla vulgata dell’Antropocene. Sono «storie» al plurale perché c’è sempre più di un racconto possibile, perché sono storie parallele, incrociate, complesse, contro il carattere monolitico e unidirezionale dello storicismo patriarcale. Quanti sono stati i soggetti esclusi dalla Storia fino a ora, chi è stato il vincitore? I vinti perché sono stati ritenuti tali? Fino a che punto l’arte contemporanea è riuscita a sbarazzarsi della categoria che abbiamo ereditato e che la connotava come bianca, maschile, imperialista e borghese, al di là del carattere di inclusività che gli abbiamo attribuito? Siamo sicuri che a essere stati decolonizzati non sono soltanto dei continenti ma anche il nostro modo di pensare l’altro? come sono mutati i vecchi rapporti di potere sotto la retorica trionfalistica della omninclusività? Se dietro tutto questo fa la sua comparsa il vento è perché abbiamo bisogno di una scienza nomade. E, forse, avevo capito in anticipo che l’aria, il respiro, il possibile ci sarebbero mancati. Credo che un’ecologia del possibile sia la vera scommessa politica del momento. Certo, contro l’Artecrazia, tanto per cominciare.


Immagine: Igor Grubić, 366 Rituals of Liberation, 2008


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Marco Scotini è direttore artistico di FM Centro per l’Arte Contemporanea, Milano, e curatore del programma espositivo del PAV, Parco Arte Vivente, Torino. È Direttore Scientifico dell’Archivio Gianni Colombo e dell’Archivio Bert Theis. Dal 2004 è direttore del Dipartimento di Arti Visive NABA, Milano e Roma. Dopo numerose collaborazioni con istituzioni artistiche internazionali (Van Abbemuseum, Documenta, MAXXI, SALT, MIT, Castello di Rivoli), ha curato il padiglione albanese alla Biennale di Venezia (2015), la Biennale di Anren (2017), la seconda Yinchuan Biennale (2018) ed è stato advisor della Bangkok Biennale (2020). Tra le pubblicazioni più recenti: Utopian Display. Geopolitical Curating (Quodlibet 2019), Politiques de la Végétation (Eterotopia France, 2019) e, con Elisabetta Galasso, Politiche della Memoria. Documentario e Archivio (DeriveApprodi, 2014).






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