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Giosuè Gianavello, ribelle reazionario del Seicento europeo



Capitan America

Nel 2015 è uscito negli Stati Uniti The Lion of Rora, romanzo a fumetto scritto dai coniugi Christos e Ruth Fletcher Gage e illustrato da Jackie Lewis. Sul sito internet che promuove il libro si legge che il fumetto è «basato su fatti storici realmente accaduti» e narra la storia di Giosuè Gianavello e dei Valdesi, «il primo popolo della storia europea ad essersi ribellato contro i propri governanti per ottenere la libertà religiosa».

Sorvolando sul fatto che il fumetto si prende numerose licenze inaccettabili su un piano rigorosamente storico, ciò che salta agli occhi è la conclusione del racconto. Gianavello che riabbraccia la moglie e il figlio mentre osserva il suo «popolo» partire per il cosiddetto «Glorioso Rimpatrio», mentre i titoli di coda spiegano al lettore che la ribellione dei valdesi a metà Seicento fu di ispirazione per «la Riforma Protestante, la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Americana» (sic!). Ma c’è anche spazio per un ultimo epilogo:


«During the World War II, the Waldenses were offerend full citizenship if they would join the Axis forces. They refused. Seeing similarities between the persecution of the Jews and their own struggles, they took up arms once again and became leaders in the italian Resistance. (…) This struggle won them a final Freedom».


Gianavello sarebbe quindi un precursore non solo dei patrioti americani e dei giacobini francesi, ma altresì dei partigiani protagonisti della lotta di liberazione italiana. Giova ricordare che oltre Oceano la Seconda Guerra Mondiale tende spesso ad essere descritta come il conflitto che oppose il «Mondo Libero» delle democrazie atlantiche, figlie della razionalità dei Lumi, alle barbare dittature liberticide della vecchia Europa.

I coniugi Gage sono due sceneggiatori abbastanza noti nel mondo dello spettacolo a stelle e strisce: vantano collaborazioni con la Marvel, la DC Comics, e sono gli autori di una lunga lista di serie TV, film e videogiochi di successo. In particolare, nella breve biografia pubblicata sul sito promozionale del libro, Ruth Fletcher Gage tiene a sottolineare di sé la collaborazione con diversi politici del Partito Democratico USA («Ruth then worked on the combined campaign for Governor James B. Hunt and Clinton/Gore»). Non stupisce quindi che Gianavello venga disegnato dai due autori come un eroe progressista, sostenitore dei valori illuministici delle libertà individuali e – come precisato in conclusione al Graphic Novel – addirittura ispiratore delle Rivoluzioni francese e americana. Insomma, Gianavello come un Capitan America del Seicento: così come il primo combatteva per la libertà e contro le ingiustizie del suo tempo, il secondo – creatura della Marvel Comics negli anni della Seconda Guerra Mondiale – rappresentava il «Mondo Libero» occidentale in guerra contro la Germania nazista.

Ma è davvero così? Qual è il vero volto di Gianavello? Mi pare scontato dire che un ritratto «autentico» di un personaggio storico vissuto quattro secoli fa è un’operazione storicamente difficile, quanto meno perché fare storia significa essere partigiani, nel senso più gramsciano dell’espressione. Ogni ritratto sarà sempre deformato dalla visione particolare di chi lo costruisce. Questo spiega anche il titolo, volutamente provocatorio, di questo breve ritratto. Sono infatti convinto del fatto che Giosué Gianavello sia stato essenzialmente questo: un ribelle reazionario. Fu senza dubbio un ribelle, ma al tempo stesso la sua ribellione difendeva un mondo che, nel tumultuoso e potente secolo di ferro, stava inesorabilmente tramontando per lasciare posto ad una nuova epoca.


La ribellione

Giosué Gignous, detto Janavel (dal dialetto occitano locale: il gufo), era nato suddito del duca di Savoia nel 1617, un anno prima che l’Europa venisse trascinata nel vortice della guerra dei Trenta Anni. Giunto alle soglie dei quarant’anni decise di prendere le armi contro il suo sovrano per difendere se stesso, la sua famiglia e la sua comunità dall’attacco militare contro i riformati residenti nelle valli del Piemonte occidentale. Gianavello passò infatti alla storia in occasione delle cosiddette «Pasque Piemontesi», il violento massacro dei valdesi del Piemonte perpetrato nell’aprile del 1655 da un esercito di volontari, regolari e mercenari al comando del generale di fanteria Carlo Emanuele Filiberto Giacinto Simiana, marchese di Pianezza. Dal punto di vista del duca di Savoia l’azione di forza si giustificava come un’operazione di polizia per punire la violazione di un editto promulgato il 25 gennaio del 1655, che imponeva lo sgombero dei valdesi della val Pellice da alcune comunità del fondovalle. Ma la violazione dell’editto del gennaio 1655 – peraltro l’ultimo di una lunga serie – era solo il pretesto giuridico per un’azione di forza in un’area oggetto di contenzioso internazionale.

Dal 1630 infatti, nel contesto della politica antispagnola sviluppata durante la guerra dei Trenta Anni, la Francia aveva occupato la cittadella di Pinerolo e una parte della val Perosa (basso corso del fiume Chisone) ritagliandosi un corridoio attraverso le Alpi per l’ingresso in Italia: a livello locale questa ridefinizione del confine alpino determinò un vero e proprio terremoto politico. Il duca di Savoia intendeva pertanto ristabilire la propria autorità su un territorio sfuggito al suo pieno controllo e soggetto invece all’influenza degli ufficiali francesi della cittadella di Pinerolo. Quando poi scoppiò la rivolta dei valdesi del Piemonte a Torino giunsero pressioni diplomatiche da parte dell’Inghilterra di Cromwell, dei cantoni svizzeri evangelici, delle Province Unite, dei principi tedeschi e dello stesso re di Francia, che pur condividendo gli obiettivi del duca di Savoia fu chiamato per due volte (1655 e 1667) a dirimere una ribellione scoppiata a ridosso della sua fortezza di Pinerolo, ai confini con il ducato sabaudo, che minacciava di scompaginare gli equilibri politici usciti dalla guerra dei Trenta Anni in area italiana.

La repressione militare sabauda fu brutale e colpì in maniera indiscriminata tutta la popolazione valdese, con episodi di violenza religiosa che scossero l’opinione pubblica del mondo protestante europeo. Altrettanto tenace fu la resistenza dei valdesi, all’interno della quale Gianavello ebbe un ruolo cruciale. Per una decina di anni tenne in scacco le armate ducali e diventò per i suoi correligionari un simbolo di resistenza armata, di fede incrollabile e di straordinaria abilità militare. Ciò gli valse per due volte l’inserimento in una lista di «banditi» redatta dalle autorità ducali: dapprima nel maggio 1655, quando il duca Carlo Emanuele II di Savoia lo dichiarò «ribelle a Noi e Nostra corona, bandito del catalogo maggiore e diffidato di Nostri stati»; e in seguito nel giugno 1663, quando fu nuovamente condannato, insieme ad altri quarantaquattro suoi compagni, al «bando, confisca, tenaglie, morte e quarti, con espositione della testa in luogo eminente».

La scelta di resistere con le armi cambiò per sempre l’esistenza di Giosuè Gianavello: nato e cresciuto da contadino di un piccolo villaggio della montagna piemontese, si trovò improvvisamente a dismettere i panni del paysan per indossare dapprima quelli del «capitano» delle milizie valdesi impegnate a liberare i comuni occupati dalle armate ducali, in seguito (dal 1559 in avanti) quelli del «bandito» datosi alla macchia sulle alture tra le valli Pellice, Chisone e Germanasca (le cosiddette «valli valdesi»), infine quelli di «esiliato» politico a Ginevra, dove si trasferì nel febbraio 1664 e dove avrebbe vissuto fino al resto dei suoi giorni (1690) guadagnandosi da vivere con un piccolo commercio di acquavite.


Cincinnato

Nel febbraio 1664 fu siglata una pace fra le comunità valdesi del Piemonte e il duca di Savoia Carlo Emanuele II. Nel corso del negoziato il governo ducale pretese e ottenne che dall’amnistia generale per il crimine di ribellione fossero esclusi i quarantaquattro «banditi» capi della rivolta, fra i quali spiccava il nome di Giosué Gianavello. Escluso dall’amnistia, gli restava la strada dell’esilio. Attraversò il colle della Croce, in alta val Pellice, e da lì proseguì verso Ginevra, dove fu accolto con stima da una popolazione che ne aveva seguito le gesta e decantato le epiche imprese. A Ginevra si era ritirato in congedo anche il conte Friedrich von Dohna: diplomatico, ufficiale dell’esercito olandese di Guglielmo II d’Orange, esperto di cose militari, era rimasto colpito dalla straordinaria abilità di quel semplice montanaro che con pochi uomini aveva tenuto testa all’esercito sabaudo. Nel maggio del 1665 lo invitò a pranzo ed ebbe con lui un lungo colloquio sulla sua esperienza militare, sulla sua vita da «bandito» e sulle vicende della guerra in Piemonte. Dopo avergli raccontato i fatti d’arme e le fasi salienti del conflitto, Gianavello concludeva il discorso dicendo che se gli fosse stata data la possibilità di tornare in patria non avrebbe fatto altro che mettersi pacificamente alla guida dell’aratro «comme faisaient les capitaines de l'ancienne Rome». A un anno dall’esilio Gianavello si guardava allo specchio e vedeva un Cincinnato, costretto a prendere le armi per difendersi ma rimasto fin nel midollo un semplice contadino di montagna.


Difendere la terra, difendere la comunità

Gianavello difendeva anzitutto la terra e quel pugno di famiglie che la vivevano in un rapporto quasi simbiotico. Janavel era il nomignolo con cui era conosciuta la famiglia di Jean Gignous di Bobbio, in alta val Pellice, composta da moglie, tre figli maschi (Giuseppe, Giosué e Giacomo) e una femmina (Margherita). Famiglia di contadini quella dei Gignous-Janavel, che aveva nella terra la principale e unica fonte di sostentamento. Già nei primi decenni del Seicento Jean Gignous si era trasferito con la famiglia più a valle, prendendo casa nella borgata del Liorato, sul cammino che dal borgo di Luserna risale il vallone di Rorà. Giosuè era nato nel 1617, secondogenito della famiglia (il fratello maggiore era Giuseppe), era rimasto orfano di padre a diciassette anni e di madre a ventidue: abbastanza adulto per portare avanti l’azienda familiare ma giuridicamente minorenne e dunque impossibilitato ad averne il pieno possesso. Nel 1639 Giuseppe e Giosué decisero comunque di dividersi il patrimonio di famiglia, dandone una parte in dote alla sorella Margherita e gestendo in comune la parte spettante al fratello più piccolo Giacomo. Dal canto suo, Giosué si sposò con Catherine Durand e mise su casa poco distante dal villaggio della moglie, nel quartiere delle Vigne: una conca soleggiata fra il vallone di Rorà e il borgo di Luserna.

Con un buon matrimonio e le terre di famiglia a sua disposizione, tra i ventidue e i trentotto anni la vita di Gianavello fu quella di un buon contadino di antico regime: gestione delle terre di famiglia; vendita di alcuni prodotti agricoli al mercato di Luserna (si era specializzato nella vendita di miele e cera); ampliamento degli affari con l’acquisto di terre; aggiustamenti con i fratelli e con la sorella per regolare i dettagli della successione ereditaria. Nel 1647 Gianavello compì trenta anni e l’anno successivo, mentre le diplomazie europee mettevano fine a una guerra durata quanto la sua età, Gianavello si emancipava dalla tutela del fratello Giuseppe e iniziava a condurre autonomamente l’azienda di famiglia. Diventato a tutti gli effetti legali «capo di casa», a partire dai primi anni Cinquanta il suo nome inizia a comparire anche nei verbali dei consigli della comunità di Luserna – che lo elegge per due volte esattore delle taglie (1651 e 1652) – e successivamente come «capo di casa» e console della comunità (1657).

Alla soglia dei quarant’anni Gianavello era quindi un contadino ben inserito nel tessuto economico e sociale della sua comunità: stimato per la solidità economica della sua azienda (i notai fanno precedere il suo nome dall’appellativo «commendabile»); per la sua affidabilità e solvibilità sotto il profilo finanziario (l’incarico di esattore era assegnato a persone in grado di anticipare il denaro che le famiglie più indebitate non riuscivano a pagare); e probabilmente anche per la sua irreprensibile condotta morale, il nostro uomo sembrava destinato a passare il restante dei suoi giorni conducendo una florida vita da contadino e badando alla famiglia, che frattanto si andava ingrossando. Di lui abbiamo anche una descrizione fisica, fatta da un informatore del duca di Savoia ai tempi in cui sulla sua testa pendeva una taglia: «huomo di statura mediocre, più tosto grande che piccola, con cappelli ricci, curti, et barba negri, assai ben compresso». In piemontese si direbbe cìt ma bun (che sarebbe a dire «piccolo ma deciso e forte»).


Il 25 gennaio 1655 era stato pubblicato l’editto che – pena la vita – imponeva lo sgombero e la vendita ai valdesi che fossero risultati proprietari di terre e case «fuori dai limiti di tolleranza» del culto riformato, nella bassa val Pellice. Unica alternativa, la conversione al cattolicesimo. All’età di trentotto anni, Giosuè Gianavello era uno dei proprietari coinvolti da questo editto e fu quindi messo di fronte alla scelta tra la vendita e la conversione. Non esistono tracce documentarie che testimonino la sua posizione politica in rapporto a quell’editto. È certo però che fu tra i tanti irriducibili che disobbedirono all’ordine: tenne per sé le terre contestate e restò fedele alla chiesa riformata. Qui finiva la sua storia di paysan e iniziava quella del «capitano» ribelle. Alla notizia dell’approssimarsi delle truppe ducali Gianavello trasferì la famiglia più a monte, a Rorà, e con una decina di uomini armati di archibugi e fionde piazzati sulle principali vie d’accesso al villaggio tenne testa a cinque assalti delle truppe ducali (24,25 e 26 aprile; 1 e 4 maggio 1655). All’ultimo attacco le difese crollarono: il villaggio fu passato a fil di spada e bruciato, 28 persone furono trucidate, gli altri fatti prigionieri – fra i quali la moglie e le figlie di Gianavello, mentre lui con il figlio e i suoi compagni d’armi prendeva la fuga arrampicandosi sui sentieri della val Pellice, attraversando il confine con la Francia e scollinando in Queyras. Frattanto i superstiti del massacro che avevano trovato rifugio nella vicina val Perosa, in terra francese, avevano riorganizzato le difese: mentre il pastore valdese Jean Léger partiva per Parigi allo scopo di mobilitare il mondo protestante alla causa valdese, le milizie vennero riorganizzate sotto la guida del capitano Barthélemi Jahier di Pramollo e iniziarono a far strage dei soldati ducali in val Germanasca e nella bassa val Chisone. Venuto a sapere della riscossa dei suoi compaesani, Gianavello riattraversò le montagne, radunò le forze valdesi della val Pellice e con una marcia forzata riuscì a raggiungere le milizie del Jahier sulle alture di Angrogna, dove si congiungevano le tre valli e dove fu fissato il quartier generale dei ribelli. Iniziava così una guerriglia che per tre mesi mise in scacco l’esercito del duca e che lo costrinse infine a sedersi al tavolo del negoziato apertosi il 31 luglio a Pinerolo alla presenza dell’ambasciatore francese Enemond Servient e dei delegati dei cantoni evangelici di Berna, Zurigo, Basilea e Sciaffusa.

La pace fu siglata il 18 agosto 1655 con la promulgazione delle Patenti di grazia e perdono da parte del duca Carlo Emanuele II: venivano graziati tutti coloro che avevano preso le armi incorrendo nel crimine di ribellione; alle comunità venivano condonati i debiti fiscali e il pagamento delle imposte ducali per i successivi cinque anni; il culto riformato era consentito in buona parte dei comuni. Una clausola speciale concedeva agli abitanti del quartiere delle Vigne – dove Gianavello abitava – il possesso delle terre senza però l’esercizio del culto riformato, ma a parte questo dettaglio veniva mantenuto l’obbligo per i riformati di vendere le terre che possedevano oltre i limiti stabiliti dalle leggi ducali. Ai proprietari era data facoltà di vendere quelle terre ad acquirenti cattolici entro un tempo limite, scaduto il quale sarebbero state avviate le procedure di esproprio in cambio di ben magre compensazioni in denaro. In altre parole, la pace non aveva risolto la questione delle terre.

Fu attorno al problema delle terre che nacquero i «banditi», problema peraltro cruciale per una popolazione contadina come quella valdese. A un anno dalla firma del trattato molti proprietari non avevano ancora venduto le terre che avevano «fuori dai limiti» né intendevano cederle al Patrimonio ducale. Nel corso dei consigli di comunità alcuni «capi di casa» avevano espresso la loro totale contrarietà agli espropri e si erano dichiarati pronti a prendere nuovamente le armi per rinegoziare quella clausola del trattato, supportati in ciò da una parte del corpo pastorale delle valli. Nel 1656 una spia sabauda informava il governo che nel corso di un’assemblea congiunta delle tre valli i pastori avevano dichiarato pubblicamente che la guerra non era finita e che anzi i valdesi attendevano solo un segnale da Londra per riprendere la guerriglia. Nel febbraio 1656 Gianavello aveva commissionato a un «fabricatore di canne d’archibuggio» di Barge la preparazione di «vinti canne di sei piedi e mezo di longhezza et di calibre d’un oncia di palle», la misura quasi esatta della famosa colubrina di Gianavello oggi esposta al Museo Valdese di Torre Pellice. Il nostro uomo era quindi uno degli irriducibili che non avevano affatto accettato la pace dell’agosto 1655.

Una fonte di propaganda scritta e pubblicata nel 1666, quando Gianavello era già in esilio da due anni, descrive lo stato di agitazione che attraversava le comunità valdesi riguardo al problema delle terre espropriate (Le Grand Barbe, ou Recit tres veritable de ce qua faict Iosue Ianavel dans les Vallées de Luzerne, un libello anonimo scritto in ambienti valdesi contrari alla linea oltranzista di Gianavello). In questo documento Gianavello appare come un violento capo-fazione, sostenitore del partito della guerra a oltranza e intransigente nei confronti di chiunque si fosse piegato a vendere le proprie terre al Patrimonio ducale. La stessa fonte precisa che Gianavello aveva iniziato una sistematica operazione di rappresaglia contro le operazioni di vendita e esproprio delle terre dei riformati. Gli eredi di un certo Michele Bastia, ad esempio, avevano venduto al Patrimoniale una vigna che tenevano «fuori dai limiti» e quella stessa notte un gruppo di uomini armati aveva fatto un blitz su quella vigna tagliando tutte le viti, allo scopo di far crollare il valore del terreno espropriato dal governo. Nonostante le rappresaglie le procedure di esproprio andarono avanti per tutto il 1657 e proseguirono negli anni successivi, coinvolgendo numerose famiglie di contadini valdesi. Le strategie di difesa passiva messe in atto dai proprietari valdesi avevano infine dovuto cedere alla burocrazia del Patrimonio ducale, e perfino Gianavello fu costretto a cedere un prato di circa 6.400 mq che teneva in pianura, preziosissima risorsa per la fienagione in un’economia agropastorale montana come quella delle comunità valdesi.


Gli sconfitti della storia

Gianavello aveva combattuto anzitutto per difendere la propria terra, che nella visione teologica di un riformato valdese del Seicento era tutt’uno con la propria libertà di esistenza e di fede. Coltivare i campi e condividere il pane con i propri familiari nella forma che riteneva più giusta e conforme alla Provvidenza era per lui una ragione sufficiente a imbracciare le armi e combattere contro chiunque si opponesse a questo piano. È sbagliato tracciare un ritratto di Gianavello come una sorta di illuminista ante litteram difensore di principi astratti, diritti universali e libertà individuali. La sua figura ricorda molto di più quella di un Gerrard Winstanley, l’ispiratore dei diggers all’epoca della Rivoluzione inglese che insieme ai suoi seguaci prese possesso delle terre comuni privatizzate dai gentiluomini di campagna inglesi. Come i diggers si opponevano a un processo di trasformazione degli assetti fondiari che stava spazzando via i commons, retaggio di un modo di produzione pre-capitalistico che aveva strutturato il mondo contadino per lungo tempo, così Gianavello difendeva la piccola proprietà contadina di valle dall’attacco degli speculatori che si accodavano al seguito delle armate ducali. Pochi decenni dopo i fatti che lo avevano visto protagonista, negli anni dell’esilio dei valdesi (1687-88), la situazione si ripresentò analoga: senza più la tenace resistenza valdese fra i piedi il grosso delle terre comuni delle valli, in primo luogo i grassi alpeggi delle alture, furono oggetto di speculazioni da parte di cordate di imprenditori torinesi che privatizzarono intere porzioni di territorio fino ad allora comuni. La ribellione di Gianavello si opponeva a una trasformazione che stava coinvolgendo le comunità del Piemonte sabaudo: la sua era una battaglia per difendere un mondo al tramonto, non combatteva per costruirne uno nuovo e diverso. Ma combattere contro l’incedere della storia è un percorso più arduo di quello compiuto da coloro che si lasciano trascinare da essa. Non per niente la ribellione di Gianavello fallì. L’eroe della resistenza valdese fu sconfitto sia sul piano militare (la guerriglia imponeva un’economia di guerra che drenava le risorse locali a sostegno delle milizie asserragliate sui monti) sia sul piano politico: i notabili delle comunità, danneggiati dalla politica bellicista degli irriducibili, abbandonarono Gianavello e i suoi uomini al loro destino.

Nel corso dei negoziati di pace che si aprirono a Torino nel dicembre 1663, nelle valli si tennero accesissime assemblee da cui emerse una chiara spaccatura tra il fronte degli irriducibili e quello dei moderati. Il 28 gennaio 1664, in un fienile della val Perosa gremito da più di cento persone si consumò la rottura definitiva: richiesti di esprimersi circa la bozza di trattato di pace negoziato a Torino, «tutti uno ore [unanimi] di Communità in Communità, hanno dichiarato esser contenti di ciò che hanno ottenuto li Deputati». Il pastore David Léger propose di insistere affinché anche i banditi fossero compresi nell’amnistia, ma la proposta sollevò una levata di scudi e gli fu seccamente replicato che «se li banditi volevano la guerra che se la facessero da soli, non intendendo che tante famiglie andassero sperse per essi». All’assemblea era presente anche Gianavello con tre fedelissimi: Stefano Bertin, David Rivet e Antonio Massa, che per tutta l’assemblea fece da sentinella sulla porta del fienile. Nel corso di tutta la serata Gianavello era rimasto silenzioso in un angolo, con il cappello calato sugli occhi: era l’immagine della sconfitta. Presagendo la fine, cinque giorni prima di quell’assemblea Gianavello si era presentato al tempio di Angrogna chiedendo denaro in preparazione di una fuga all’estero: gli fu risposto «che egli era la caggione di tutto il male, che poteva stare alle archibuggiate come gl’altri, sino che il tutto fosse aggiustato». La pace fu infine firmata il 14 febbraio. Tutti i delegati comunali avevano accettato la clausola che escludeva i «banditi» dalla grazia del duca. Sempre più isolati, nei giorni seguenti i banditi partirono alla spicciolata: alcuni verso la Francia, altri ripararono nelle vicine terre francesi della val Perosa, altri rimasero nascosti nelle borgate della val Pellice, sperando forse in una ripresa delle ostilità. Il 19 febbraio Gianavello insieme a tre compagni salì al Colle Giulian, sul crinale fra la val Pellice e la val Germanasca: probabilmente da qui partì per il suo esilio verso Ginevra, dove lo ritroviamo un anno dopo, nel maggio 1665, seduto a pranzo al tavolo del conte von Dohna mentre ripercorrendo con la memoria quelle vicende e spiegava al suo interlocutore che l’unico suo desiderio era quello di tornare nelle valli per mettersi alla guida del suo aratro, indifferente alle cose del mondo.


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