Sergio Bianchi, alfabetizzazioni, chine su carta, 2020
1. Lo ammetto: sono di quelli che, fortunati di avere una dimora fissa e la possibilità di lavorare da remoto, hanno passato il lockdown a frastornarsi di telegiornali, talk show, interviste a virologi, medici ed esperti, di dati, di comunicati, di articoli, di editoriali e di conti alla rovescia, nell’attesa di trovare non dico una parola rassicurante e definitiva (una parola in grado di aprire mondi, di squadrare l’animo nostro informe, diceva quello), ma almeno una parola consapevole di sé e di ciò che stava accadendo (si usa il passato giusto per intenderci…). Manco a dirlo: attese frustrate ogni volta, nello scorrere ravvicinato e limaccioso delle ore, dal momento che le informazioni e le convinzioni su cui avevo fatto affidamento o su cui mi ero afflitto il giorno prima venivano sovvertite da nuove notizie, o da un’altra lettura. E così sedevo, un po’ stordito, sull’altalena cigolante della speranza e della disperazione, bisognoso di nuove spinte, di almeno sapere da quale parte la specie umana e io saremmo caduti, se di schiena o a faccia avanti.
2. Però in questo deserto fatto d’abbondanza, in questo tempestoso sovraccarico di segni, devo confessare che c’erano due luoghi in cui riuscivo a sentirmi meno peggio. Luoghi fatti di altri segni, ovviamente, che dovevo raggiungere a fatica, cercando di deviare dallo stradone tutto dritto, e tutto indirizzato allo schianto, della paranoia.
Il primo era quello degli autori russi e dell’est Europa: ho passato molte ore davanti alle pagine di questi matti – rubo a Paolo Nori. Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj, Mandel’štam, Bulgakov, Erofeev, Gombrowicz, Kafka, Hrabal: venire a contatto con le loro esistenze fatte perlopiù d’esilio e di disastro, confrontarmi con la loro clamorosamente disinvolta accettazione della precarietà della vita, che è forse (forse) l’opposto della rassegnazione alla morte, mi ha fatto bene. Mi ha fatto ridere. E assai rabbrividire.
3. Ma c’era un altro luogo in cui potevo ritornare a respirare, addirittura meglio che con gli autori dell’est. Un luogo dove l’ansia di conoscere e tenere sotto controllo qualcosa che semplicemente non era controllabile e ancora quasi del tutto sconosciuto sotto ogni punto di vista, lasciava il posto a un friccico strano ner core mio fracico di desolazione et spavento. E questo perché le parole che trovavo scritte lì erano parole familiari, calme: parole da amico vero, da amico paterno, quasi. Parole anche disperate, certo, eppure ironiche. Disperate e nonostante tutto, anzi soprattutto, ironiche.
Erano le parole di Franco Berardi, le parole di Bifo, che durante i mesi tremendi della chiusura completa ha deciso di registrare ciò che accadeva a tutte le latitudini dell’orbe terracqueo e nel suo proprio mondo personale, anzi di raccontare quello attraverso questo, in un diario che senza giri di parole definirò bellissimo. Ridente, lucido e apocalittico, questo resoconto, Cronaca della psicodeflazione, è uscito prima sulla rivista «Not», e poi in volume insieme ad altri scritti col titolo, abbastanza totale, di Fenomenologia della fine (Nero 2020).
4. A proposito di questo libro Gianluca Didino ha affermato che, leggendolo, si ha la sensazione che Bifo non aspettasse altro che scriverlo. E in effetti, è così. Si può dire, e lo diciamo senza problemi, che Bifo non ha mai smesso di scrivere un libro sulla fine del mondo. Non solo perché è ormai da un po’ che ha assunto come orizzonte teorico, come midollo del suo pensiero filosofico, l’apocalisse. Prima intesa come cancellazione della dimensione del futuro – che, detto per inciso, molto ha ispirato Mark Fisher – in Dopo il futuro (DeriveApprodi 2013). Poi come una delle possibili cause della tendenza omicida e suicidaria di giovani che, iperstimolati, messi continuamente in allerta da un’incombente catastrofe che mai si verifica (ma che sempre si perpetra), decidono di massacrare i loro coetanei per conservare l’illusione di non soccombere, di non dover fare la figura dei perdenti: i veri eroi della nostra epoca, e non di rado osannati come tali – Heroes (Baldini&Castoldi 2016). E ancora l’apocalisse intesa come ricatto di un capitalismo decerebrato, quello col pilota automatico e senza alternative (il ritornello ormai lo sanno proprio tutti): il capitalismo rabbioso e autodistruttivo dell’impotenza, lo stesso alla base dell’ascesa dei Trump e dei Salvini e che castra le possibilità di liberazione della tecnologia e del lavoro intellettuale e creativo – Futurabilità (Nero 2018). Ma anche apocalisse come rivelazione e secondo avvento, quello del comunismo, unica via percorribile, dice Bifo, se non si vuole proseguire ottusi verso l’abisso sicuro dell’estinzione umana: Il secondo avvento (DeriveApprodi 2018) e il film di Andrea Gropperlo Comunismo futuro, di cui Berardi ha scritto i testi ed è protagonista. Senza dimenticare poi l’apocalisse come «il mondo fottuto ai ragazzini» e spiegata ai diretti interessati in A poco, a poco, Apocalisse! (Momo 2020).
5. Apocalisse e non solo, obviously. Basti ricordare l’attenzione che Bifo, sulla scorta di Burroughs, ha riservato da sempre al virus, fuori di metafora e non. Ma basti anche rileggere le pagine, numerose, dedicate al concetto di peste emotiva, questa mutuata da Reich; pagine in cui si è interrogato sullo stato di salute del cervello e della psiche collettivi: sulla loro ecologia, as Bateson said. Insomma sullo stato di salute della psicosfera, come invece la chiama lui, la stessa di cui i media mainstream si stanno occupando con sistematicità solo ora, cercando di capire e contare i danni non visibili che sta causando questo coronavirus.
Le conseguenze emotive e cognitive del capitalismo prima, un altro malanno fastidioso e un po’ duro a passare, e quelli della pandemia ora: Bifo si è interessato senza interruzioni alle conseguenze che il nostro sistema economico e i grandi fenomeni traumatici della nostra epoca possono avere sull’inconscio collettivo (altro ritornello un po’ ovvio, ma facciamo per capirci).
6. Ciò che ha scritto Bifo durante il lockdown si adatta dunque perfettamente a tutta la sua riflessione filosofica precedente: ne è anzi perfetta prosecuzione. Una riflessione che dura mica da poco: più o meno dal 1970, da quando era un ragazzo di vent’anni, con già l’autunno caldo alle spalle, un’espulsione dalla Fgci per posizioni filomaoiste, e un paio di baffetti neri. Una riflessione di cui nel 2017 Federico Campagna ha deciso di rimettere insieme i passaggi salienti, in un libro poderoso e però agile nella sua scansione cronologica e tematica: Quarant’anni contro il lavoro, pubblicato da DeriveApprodi. Qui, in questa raccolta di scritti che vanno dai primissimi Settanta fino alle soglie degli anni Dieci del Duemila, c’è moltissimo di Bifo, delle sue intuizioni e anche delle sue non poche contraddizioni, dei vicoli ciechi inevitabilmente imboccati da uno che ha deciso di confrontarsi di volta in volta con le tracce, quasi sempre impercettibili, dei tempi a venire.
Nel trascorrere dei quattro decenni e più di scrittura di cui dà conto il libro, i nodi concettuali, politici e filosofici indagati da Bifo, pur trovando nuove conferme e nuovi contesti applicativi, non sembrano troppo cambiare. Ciò a testimonianza della crucialità di quei nodi e dell’urgenza sincera dell’autore di affrontarli. Ciò che cambia, piuttosto, nel corso del libro e quindi degli anni, è lo stile di Bifo: dal barocco operaista dei suoi primi contributi teorici si arriva a una lingua sempre più aperta al letterario, e pour cause. Non solo perché Bifo è stato, all’occasione, anche romanziere: e qui si ricordino, purtroppo solo di sfuggita, Chi ha ucciso Majakovskij? (Squilibri 1977) e Morte ai vecchi(Baldini&Castoldi 2016), scritto con Massimiliano Geraci (per non parlare dei pornoromanzi pubblicati negli anni Settanta sotto il paxxesko nome di Loris Aletti). Non solo perché, sempre all’occasione, ma poi nemmeno tanto, Bifo ha scritto e scrive in versi, come dimostrano gli inserti poetici che costellano i numeri di «A/traverso», visionario periodico protopunk fratello maggiore di radio Alice. (Soprattutto poemetti, in verità: è questa la forma che Bifo sembra preferire, forse perché legata a un’idea di parola dispiegata, già pensata per la declamazione pubblica e per la performance: e per farsene un’idea bisogna assolutamente ascoltare la «colonna sonora dell’apocalisse»: Wrong Ninna Nanna).
Non solo per questi motivi, dicevo. Ma anche perché, come Berardi stesso ha dichiarato più volte, la sua prima fascinazione per il comunismo è legata (anche) alla letteratura. Quest’ultima rimane una costante nel farsi del suo pensiero, direi quasi la pietra angolare su cui posa una filosofia che rinuncia sistematicamente al sistema. Una filosofia tutt’altro che quieta, e non di rado intrecciata con il letterario propriamente inteso: e qui, sulle possibili implicazioni riguardanti la Theory Fiction, si rimanda ancora all’articolo di Didino.
7. Sarebbe difficile e riduttivo dar conto dei nodi concettuali presenti in questi lunghi Quarant’anni contro il lavoro con una manciata di parole. Si potrebbe anzitutto affrontare «la questione delle macchine» e della riappropriazione del sapere tecnico-scientifico: in questi tempi di pieno trip accelerazionista, si può dire senza troppo temere di essere smentiti che Bifo è stato uno dei primi in Italia, probabilmente sulla scia di Krahl e dei «Quaderni rossi», a focalizzare l’attenzione sulle possibilità di liberazione dal lavoro (e non solo) insite nella tecnologia, di volta in volta sussunta, castrata e messa a profitto dal capitale. Cose già dette dal giovane Marx, siamo d’accordo, ma – giusto per capirci – non sempre all’ordine del giorno nel dibattito maturato in seno ai movimenti degli anni Settanta, specie in realtà come quella di Potere operaio, in cui Bifo ha militato fino alla svolta leninista del gruppo, tutto concentrato sull’assunzione del ruolo di avanguardia (Bifo ha sempre preferito Dadà a Lenìn).
Ed ecco profilarsi un altro tratto inconfondibile della visione del mondo e della filosofia di Berardi: la rottura definitiva, una rottura forse addirittura spontanea, quasi caratteriale ed epidermica, con la tradizione della politica moderna, quella che voleva il rovesciamento, la presa e la rifondazione del potere da parte di un soggetto rivoluzionario ben definito, magari da costruire, e però sempre ben individuabile. Ma il potere non è più là dove lo pensiamo, ci ha detto e continua a ripeterci Bifo insieme ovviamente ai suoi amatissimi e importantissimi Deleuze&Guattari&Foucault. Non sta più di casa nei palazzi d’inverno, né lo si può afferrare nella prevedibilità del buon vecchio movimento dialettico. Il potere si è decentralizzato, frattalizzato, molecolarizzato, scomposto, rarefatto, digitalizzato, divenuto algoritmo viralecapace di pervadere i nostri neuroni, di prevedere i nostri movimenti e i nostri desideri: è qui che, neurologicamente, al principio di piacere si sostituisce il principio di realtà – e Fisher eccolo qua (rima baciata aa).
È in questo senso che suona ancora giusta la vecchia provocazione dell’anno assoluto del Settantasette: la rivoluzione è finita, abbiamo vinto. Nella prima parte della formula, almeno, perché la rivoluzione intesa come volontario sfondamento del presente ha lasciato il posto alla mutazione, altro termine cruciale nel lessico di Bifo. Mutazione: un processo di cui l’uomo non può che accorgersi dopo, a cose già accadute, perché servono categorie che ancora non possiede. Che cosa resta, infatti, quando collassa la pretesa tutta umanistica di poter decidere del destino delle cose del mondo, come se queste ultime fossero ancora e davvero a portata della reale volontà umana, politica o meno? Che cosa resta quando la stessa idea di umano che credevamo di avere si consuma? Semplice: il caos e la mutazione, che già c’erano e sempre ci saranno, of course, ma che ritornano percettibili, anche se per difetto.
Siamo ancora in odore di postmodernismi? Non mi pare, ma non è questo il punto. Il punto è che la filosofia di Bifo ci ha indicato una frattura da cui non si è più potuti tornare indietro. E ce l’ha indicata in tempo reale, quando il processo di trasformazione era ancora in atto, anche se già un pezzo avanti: ce lo dimostrano bene gli scritti di Quarant’anni contro il lavoro. Ora siamo totalmente al di là di quella soglia: la stessa intercettata dal cyberpunk, da autori come Gibson, Burroughs e Dick, di cui Bifo si è occupato con attenzione sincera fin dagli anni Ottanta, e non solo per la prefigurazione dell’internet. Su questo si consiglia di leggere ancora Fenomenologia della fine, dove Berardi fa dialogare il cyberpunk con le più recenti intuizioni di Haraway.
8. A proposito di questo: all’inizio ero convinto che il nome Bifo derivasse dal Pasto nudo. Uno dei primi personaggi che compaiono nel romanzo di Burroughs si chiama appunto il Bifo, almeno nella traduzione Adelphi, contrazione da «bifolco» (the Rube). Mi sbagliavo, primo perché la traduzione è abbastanza recente, e poi perché questo nomignolo simpatico proviene direttamente dall’infanzia di Berardi: da un’invenzione di suo cugino Angelo, che glielo affibbiò fondendo prima e ultima del suo cognome con prima e ultima del suo nome. Niente di speciale, allora, non fosse che il diretto interessato ci informa che quel soprannome proprio gli piace, perché in definitiva condensa anche il suo modo di intendere tante piccole cosucce, tipo la vita e la filosofia. Bifo infatti può significare, dal greco, dire due volte. E il dire due volte, la polisemia ambigua e ammiccante, è quella propria dell’ironia.
Ironia. È questo il perno spernacchiante su cui ruota il pensiero bifiano, o per meglio dire bifido. È da lì che germoglia la sua etica. Non c’è suo testo che non strappi un sorriso amaro, anche se parla della fine del mondo. Anzi, soprattutto se ne parla. Chi invece ha avuto la ventura e la fortuna di ascoltarlo, o di parlarci, sa benissimo qual è il segnale con cui si prepara a lanciare una delle sue stilettate piene di humor e di eleganza: abbassa la voce, butta gli occhi a terra e alza le labbra solo da un lato.
Ma l’ironia per Bifo non risiede certamente in questo: è una cosa seria. L’ironia è lo scivolamento del senso, dice lui, è la rinuncia alla pretesa di tenere a bada il caos per mezzo di un qualche codice. Ecco allora perché mi faceva e mi fa così bene leggere le sue parole: perché abdicano alla convinzione un po’ egoista e autoreferenziale di dover necessariamente riportare tutto a una dimensione significante. Significante per noi, intendo. Non si tratta della rinuncia a voler e a dover capire, ma della presa d’atto di essere sempre di fronte a qualcosa che mai del tutto capiremo. Di essere sospesi sull’abisso: l’illogico, l’incommensurabile, l’inumano, l’insensato. La ricchezza del pensiero di Bifo sta qui, secondo me: oltre che nella sua capacità analitica e nella sua curiosità senza pregiudizi, nella forza mai consolante e allo stesso tempo liberatoria delle sue parole da amico. Non un invito all’accettazione passiva, ma a cercare nuovi percorsi tra il caos, a costruire ponti sull’abisso.
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Chiudo citando un passaggio da uno dei suoi ultimi libri, forse uno dei più belli: Respirare (Luca Sossella Editore 2019). Il titolo fa riferimento all’asma di Bifo ma soprattutto al grido d’aiuto lanciato da Eric Garner, un afroamericano ucciso dalla polizia di Staten Island nel 2014 come George Floyd pochi mesi fa: I can’t breathe (quando si dice che Bifo aveva le antenne ben direzionare sui tempi futuri, abbastanza terrificanti e assai pericolosi per i polmoni).
«Per quanto ne so, la felicità è sospensione consapevole della visione dell’abisso. In quei momenti di sospensione possiamo costruire dei ponti sull’abisso. Quando l’illusione di significato è condivisa non è più un’illusione, e diviene realtà.
Il ponte sull’abisso è il dialogo che rende possibile la condivisione di una visione, di un’attesa, di un’intenzione. Questo dialogo si fonda sul ritornello del non attaccamento, e rende possibile l’emancipazione dalla paura del non essere. Liberarsi dalla volontà di vivere è la condizione per essere vivi».
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