L’estetica mutante dei simboli di lotta nell’arte contemporanea
Enzo Mari, Falce e martello, 1972-1973, bandiera in lana serigrafata a due colori, 126x122 cm. Courtesy Galleria Milano, Milano e l’artista
Milli Gandini, La mamma è uscita, 1975, collage
Pochi giorni prima che Enzo Mari morisse, il 19 ottobre scorso, si sono inaugurate a Milano due sue personali: una alla Triennale e l’altra alla Galleria Milano. Quest’ultima intitolata «Falce e martello. Tre dei modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe» riporta in vita il simbolo comunista che fu il soggetto di una sua omonima mostra del 1973, organizzata nella stessa galleria da Carla Pellegrini. Falce e martello divenne – in quegli anni in bianco e nero pieni di fumo e di baffi a manubrio – un tratto distintivo per il mondo intellettuale e del design che si occupava di operaismo e lotta di classe. L’icona della falce e martello, i due strumenti di lavoro, incrociati da Lenin alla vigilia della rivoluzione, compare in Italia nel 1919 sul logo del Psi e si impone nel 1953 attraverso il simbolo del Pci disegnato da Renato Guttuso. Il simbolo della classe operaia, negli anni Settanta, varca le vetrine delle gallerie e dei musei per entrare nel tempio dell’arte. Assume una carica messianica e pop e partecipa a un processo di estetizzazione, di rifiuto del mercato e dell’arte borghese. Andy Warhol nel 1970 la riproduce ripetuta, sdoppiata, dai colori incerti, intitolandola «martello e falce»; Mario Schifano mette la falce in mano a un uomo e il martello all’altro; Franco Angeli raduna i simboli e la accosta a svastiche, stelle, aquile, in un triste universo politico agonizzante. La radicalità, che serpeggia allora, riduce ai minimi termini ogni esperienza. L’arte è fortemente concentrata sui simboli della sinistra ma non sempre in termini celebrativi. Una sera a Belgrado, Marina Abramovic’, nella Jugoslavia di Tito, sfida l’oppressione del regime. Nel cortile del Centro Studentesco, costruisce una stella con trucioli di legno imbevuti di benzina. Le da fuoco, si taglia i capelli e le unghie e getta tutto nelle cinque punte ardenti. Valicata la barriera infuocata si sdraia. Il pubblico vede una donna dentro una stella che brucia! «La stella era il simbolo del comunismo – ha dichiarato l’artista – la forza repressiva sotto cui ero cresciuta e da cui cercavo di sfuggire. Ma era anche molte altre cose: il pentacolo, un simbolo sacro e misterioso di antichi culti e religioni, una forma insomma dall’enorme potere simbolico». Quella sera Marina svenne per l’ossido di carbonio mentre, prima che qualcuno se ne accorgesse e la traesse in salvo, il fuoco stava per lambirle una gamba. Se i simboli – che si compongono e scompongono a seconda delle ere, delle classi sociali, delle famiglie, delle nazioni e delle fazioni, hanno vite limitate – l’arte ne percepisce la forza semiotica e ne elabora la forma, anche destrutturandola. La supremazia della falce e martello divenuta oggi vintage – oggetto di decoro per il marketing cinese di spillette con il faccione di Mao o con il pizzetto di Lenin in rilievo – è stata affiancata da simboli diversi, adottati da altre fasce deboli e minoritarie. Meno popolari ma più strettamente urgenti, alcune icone sono legate a rivendicazioni contro condizioni di genere insostenibili.
Riguardando un’opera di Mari, con falce e martello rossa su sfondo verde del 1973, mi sono accorta della dialettica che una femminista – Milli Gandini (mia madre) – ha innescato in quegli anni proprio con quel lavoro del designer milanese con il quale spesso litigava. Mentre i compagni continuavano a sventolare gli utensili maschili del lavoro operaio, mia madre chiudeva letteralmente le pentole con il filo spinato dopo averle dipinte con tinte multicolori. In quel periodo non fece più da mangiare e dovemmo arrangiarci. Le sue pentole – emblema di lotta contro lo sfruttamento del lavoro domestico, non pagato e non riconosciuto – hanno segnato una trasformazione simbolica. Se, al centro della rivendicazione di una vita migliore, c’è sempre uno strumento di lavoro, ecco che le pentole – contenitori di cibo, amore e dramma – diventano il fulcro dell’attenzione, strumenti inutilizzabili perché drammaticamente chiuse, inutili, generatrici di nuovi immaginari. È stato nel 1975 che Milli Gandini rispose alla falce e martello di Enzo Mari, con un collage: una pentola rossa – chiusa con fil di ferro e piombino – su sfondo verde. È un quadro che mostra, con la sua orgogliosa vitalità, il rifiuto dell’altra metà del cielo. Rigetta la sofferenza viscerale delle minestre lunghe secoli fatte con carote, lacrime e sangue mestruale. Racconta dell’evasione dalla prigione affettiva che ci ha stritolate. La pentola chiusa – che ha avuto una circolazione limitata (ahimè) al periodo delle lotte femministe – palava una lingua nuova, usciva dal silenzio per rendere il personale politico. Una grande quantità di artiste donne – categoria sino ad allora sconosciuta – focalizzò la propria attenzione sull’interno della casa, sugli oggetti e sui rituali familiari. Il femminismo produsse uno strappo dolorosissimo dal passato, dai ruoli e dalle persone amate. Ma, per la «rivoluzione», era necessario partire dall’interno, dalle frange più deboli e sfruttate; era necessario far franare il sistema delle convenzioni subdole e radicate. Il campo di battaglia non era più la piazza ma la cucina e il letto. S’imponeva il riconoscimento del lavoro gratuito delle donne che in quel momento chiedevano (invano) il salario al lavoro domestico. L’americana Martha Rosler, nel 1975, girò un video in Super 8 dal titolo Semiotic of the Kitchen (visibile su YouTube) nel quale mostrava, in ordine alfabetico, gli utensili da cucina, nominandoli e simulandone la funzione. Volto glaciale e inflessibile, mimava, con gesti violenti, la funzione che richiedevano gli strumenti. L’uso del coltello veniva mostrato lanciando fendenti nell’aria, mentre il mestolo veniva usato per raccogliere le minestra e buttarla via, sul pavimento. Del femminismo – oltre a indiscutibili conquiste e memorabili opere – è rimasta un’eco di incompletezza che richiede una rilettura e una rielaborazione alla luce della contemporaneità.
Gli strumenti di lavoro usati come simboli, nel mondo globale neoliberista, si sono modificati a seconda della complessità delle disuguaglianze. Al centro della ricerca di equità ci sono ancora gli attrezzi del mestiere, ma sono sempre diversi. Il 7 gennaio 2015, dopo l’attentato a Parigi a «Carlie Hebdo», la matita divenne simbolo di libertà di espressione contro la violenza terroristica, ma anche strumento per ridisegnare il mondo. Recentemente sono stati i gilet gialli fluorescenti a paralizzare le infrastrutture francesi. Intanto il mondo della produzione culturale è andato via via indebolendosi, diventando meno garantito e più vulnerabile. Sino a sparire oggi dagli orizzonti nel forzoso livellamento «sanitario» che sta provocando l’abolizione del lavoro, della mobilità e dell’istruzione. In Italia, i lavoratori cognitivi indipendenti, precari, senza partita iva, sono definiti personaggi della «zona grigia» e non hanno diritto a cassa integrazione e sussidi pubblici. Semplicemente non esistono! Qual è dunque il loro (nostro) strumento-simbolo della lotta per la sopravvivenza? Folgorante è stata la manifestazione dei lavoratori dello spettacolo il 10 ottobre scorso in piazza Duomo a Milano. La performance #bauliinpiazza – organizzata magistralmente da un gruppo di tecnici, promoter e cameramen – è stata una dimostrazione di altissima organizzazione e poesia. Ordinati, distanziati, maglietta nera e mascherina nera, i lavoratori dell’arte, appartenenti alla classe più invisibile che esista, hanno dislocato simmetricamente 500 bauli che normalmente contengono gli strumenti scenici. Coordinati e ritmati, hanno creato un effetto sonoro – con battito delle mani sui bauli e apertura e chiusura dei medesimi – senza parole e senza slogan. Le casse vuote erano come bare in attesa del cadavere o, più ottimisticamente, personaggi in cerca di autore. La disposizione dei performer sulla piazza somigliava a quella di un esercito. Un esercito di invisibili, di lavoratori pieni di energia che – nella bocca di un grigio personaggio al comando – «non sono indispensabili». Eppure, contro questa shakespeariana depressione, l’arte è una potente medicina.
Manifestazione 10 ottobre 2020 #bauliinpiazza Milano
Ancora una volta, il simbolo della rivendicazione è uno strumento. È l’utensile usato come pentacolo contro la sofferenza umana e la profonda ingiustizia impartita da una classe dirigente che sta depauperando mortalmente il paese. Enzo Mari ha lasciato il suo lavoro in eredità alla città di Milano a patto che venga reso pubblico solo tra 40 anni quando questa «orribile» generazione politica sarà morta e sepolta. Profondamente disgustato dal presente, il vecchio designer incazzato, ma militante sino all’ultimo, affermava: «Guarda fuori dalla finestra e se ciò che vedi ti piace, allora non c’è ragione di fare nuovi progetti. Se invece ci sono cose che ti riempiono di orrore al punto da farti venire voglia di uccidere i responsabili, allora esistono buone ragioni per un progetto». L’arte è un’arma che non si estinguerà nonostante i tentativi di detronizzare le più belle energie di un occidente sempre più stanco e addomesticato. La carica simbolica ed eversiva della produzione culturale continuerà il suo processo politico di trasformazione della coscienza, costi quel che costi.
La mostra «Falce e martello. Tre dei modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe» alla galleria Milano è a cura di Nicola Pellegrini.
«Enzo Mari alla Triennale di Milano» è curata da Hans Ulrich Obrist e da Francesca Giacomelli.
Sono entrambe attualmente chiuse.
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