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Continuando il percorso di riattraversamento critico dei «decenni scomparsi», proponiamo la riflessione su un concetto politico che, soprattutto negli anni Novanta e nei dintorni del movimento no global, ha avuto una particolare rilevanza: l’esodo. Lo facciamo con il lemma scritto da Adelino Zanini per «Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione» (Feltrinelli, 2001). A vent’anni di distanza, nel breve corsivo introduttivo, l’autore ritorna a pensare quel concetto.


Che resta dell’esodo? L’esodo, forse. Perché se uno dei suoi presupposti, tutti politici, era la presa d’atto dell’improponibilità di misurarsi con(tro) lo Stato coi suoi stessi mezzi, tempi, ruoli, a dispetto della sua violenza espressa, capillare, carceraria, psichica – quando i «nuovi assunti», nel 1978, ebbero portato il Settantasette a Mirafiori, rivelando dal basso e dall’alto le molte slabbrature della «parte», la nostra, che altro si sarebbe potuto pensare, dopo la gioia, che fu grande e che accompagnò l’esodo dal lavoro-di-fabbrica-salariato-per-una-vita? E se ciò fu causa già allora di linee di fuga intraprendenti – e molto produttive anche poi, in parecchie situazioni di conflitto, ripensato e differentemente espresso –, perché non dovrebbe accadere anche oggi?

Forse perché l’esodo è divenuto un’espressione di sola sconfitta? Di certo, è venuta meno una memoria contingente che ancora spingeva a ragionare-così a fine anni Ottanta. Radicalmente mutata, eticizzata, è la spinta global. Oggi, se di esodo vogliamo parlare, potremmo farlo immaginando realizzata una trasformazione antropologico-politica? Forse. Una trasformazione che incide – che può incidere? Per definizione: sempre. Quanto e come – i punti sono questi. Dall’alto o dal basso – ancor prima. Ne va dell’intraprendenza possibile. (A.Z.)


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Il «diritto alla fuga», all’esilio, è una categoria politica riconosciuta, indissociabile dalla logica del politico e, quindi, della guerra, ma a quest’ultima non necessariamente vincolata: anche in presenza di un conflitto molle e avvolgente, alla fuga ricorre chi deve prendere atto di una manifesta inferiorità, momentanea o meno, la quale ne ribadisce però la sovranità [1]. Chi fugge, tuttavia, non è detto rinvii a un altro momento o ad altre forme strategiche la soluzione di un conflitto. Nel diritto alla fuga rientra anche la secessione definitiva. Ancora una volta, ci si può riferire in prima istanza a categorie weberiane, ed esattamente a quelle di «asceta» e di «mistico»: l’uno è attore di un «rifiuto del mondo», l’altro di una «fuga dal mondo»; il primo, cioè, rifiuta il mondo così com’è ma con esso intrattiene un rapporto di negazione; il secondo se ne separa definitivamente [2]. Se traduciamo, com’è lecito e opportuno, queste categorie in un linguaggio a noi più prossimo, potremmo dire che la differenza tra di esse si manifesta non rispetto all’agire politico, ma alla sua razionalità. Nel primo caso, siamo a fronte di un rimando intraprendente, non importa quanto lungo, che pone in discussione ogni razionalità politica realizzata, ma non la razionalità insita nell’agire politico, quantunque non pretenda in alcun modo di riproporre i fasti di un passato glorioso; nel secondo siamo invece a fronte di un congedo definitivo, che alla razionalità della politica in quanto «progetto» non è più disposto ad affidarsi. Le categorie weberiane risultano essere indicative, sebbene contemplino una scelta singolare; decisamente più pertinente – e non a caso ripetutamente invocata – è però un’altra metafora politica, assunta per descrivere il «diritto alla fuga» in quanto opzione collettiva: quella di esodo.

Come ha sottolineato M. Walzer [3], il riferimento all’Esodo nella storia politica occidentale è assai comune: da Savonarola a Calvino, da Cromwell a Franklin, esso non esprime un’odissea, un vagabondare individuale al termine del quale c’è qualcuno in attesa di qualcun altro, ma un viaggio storico e perciò terreno, una marcia verso una meta, un progresso, una trasformazione morale. Il libro dell’Esodo parla di schiavitù e libertà, di legge e ribellione. Alla fine del viaggio, tutti sono diversi. Ogni esodo produce perciò una distanza e dà luogo a una trasformazione. Il viaggio come ricerca del luogo dell’insediamento è un muoversi reale, che necessita di regole per tenere unita la comunità visibile che è in transito: il deserto fu perciò terra di austerità, ma anche mondo delle leggi. «L’Esodo è un movimento nel senso letterale, un avanzamento nello spazio e nel tempo, la forma originaria (o la formula) della storia progressiva» [4]; ma è anche un «destino», un «vuoto» tra passato e futuro [5].

Di qui il ricorrente significato politico attribuito all’Esodo come grande metafora, da non leggersi però nell’ambito della storia delle grandi migrazioni, ma come movimento carsico implicito a ogni epoca e società politica. Il sottrarsi, la defezione sono cioè manifestazioni storicamente determinate, espressioni sociali di soggettività in movimento e di pratiche sottratte alle culture egemoni; espressioni, tuttavia, che nulla hanno a che spartire con la volontà di riscatto di «popoli-nazione», né col nichilismo letterario dell’abbandono: eretici e coloni muovono semplici moltitudini, alla ricerca di «luoghi terreni» in cui insediarsi, spezzando una continuità spazio-temporale coercitiva [6].

L’esodo, nella sua accezione politica radicale a noi più prossima, è infatti un fenomeno essenzialmente interno alle società affluenti, nelle quali i meccanismi di riproduzione politica soggiacciono alla tirannia dei dispositivi sistemici e democratici del consenso. Si danno però differenze fondamentali nella traduzione e rappresentazione contemporanee di questo fenomeno [7], intrecciato con opzioni politiche radicali, apologie massmediologiche, marginalità urbana, diffusione di lavori intellettuali senza più ambizioni. Spazio e tempo, geografia e storia, nelle società moderne sono stati scanditi dal producere, quale costante riterritorializzazione dei flussi migratori che hanno caratterizzato la genesi della costituzione della soggettività. Il producere moderno – ossia l’operare umano in quanto lavoro salariato –, il lavoro in quanto lavoro astratto, massificato spazialmente e temporalmente, ha rappresentato il vero e costante processo di riterritorializzazione della forza-lavoro. Tale riterritorializzazione alienante era però accompagnata dalla progressiva integrazione e cooperazione del lavoro vivo; il sentire comune esprimeva comunità nel rifiuto del lavoro, da cui discendevano identità e legame sociale.

Tutto ciò ha caratterizzato l’epoca moderna ed è culminato nel modo di produzione fordista, nel quale la fabbrica era il luogo in cui si scandivano i tempi di riproduzione della società intera [8], dove si concretizzava la socializzazione della forza-lavoro immigrata, dove essa contava come classe operaia. La rigidità (spaziale e temporale) era la manifestazione evidente della negazione della mediazione strisciante: non volontà di resistere o di evadere, ma ipotesi-guida dalla quale partire, imposizione del proprio controllo sulla geografia produttiva in fabbrica, sull’orario, sui tempi, sui ritmi, sul mercato del lavoro strettamente connesso al modello assorbente della fabbrica «garantita». Comandare il processo lavorativo in fabbrica significava controllare i meccanismi spaziali e temporali di riproduzione attraverso il salario relativo.

Quando, alla fine degli anni Settanta, i movimenti italiani, partecipi della tradizione radicale del marxismo critico e portatori di pratiche controculturali ribelli, porranno in secondo piano la figura stessa del salario relativo, il rapporto conflittuale tra prestazione e salario, verrà perciò contestato non solo il carattere storicamente determinato del lavoro salariato, ma anche la necessità storica del lavoro tout court [9]. Il territorio produttivo, la città-fabbrica e la città-regione – Torino e Milano, Detroit e Parigi – verranno incalzate dal mutare dei rapporti conflittuali [10]. Questa frattura pose in secondo piano l’identità appartenente alla memoria politica fissata sugli spazi e i tempi di riproduzione della società fordista e pose le premesse di un vero e proprio esodo, oggettivamente sostenuto dalla già matura riorganizzazione tecnologica della grande fabbrica. La rigidità sul posto di lavoro – intesa come mezzo per fissare rapporti stabili, duraturi, influenti –, la cooperazione nella fabbrica fordista, la socializzazione verticale indotta dalla interconnessione di processi manuali e intellettuali, apparvero improvvisamente irrilevanti, posti in secondo piano dalla ricerca di rapporti più motivati soggettivamente, e quindi esterni alla fabbrica. Apparve non solo secondaria ma addirittura da rifiutare l’opportunità di stare sempre a quel posto, di contare come soggetto politico in uno spazio determinato.

Gli indicatori più espliciti di questi nuovi rapporti sociali, di questo esodo, saranno da un lato il mutare dell’approccio soggettivo rispetto al lavoro, dall’altro, il mutare dei caratteri costituenti il mercato del lavoro e delle richieste avanzate nei confronti della composizione della spesa pubblica. Sembrarono accettabili la flessibilità dell’orario, lo straordinario, il doppio o terzo lavoro, se da essi se ne poteva trarre un reddito (non un salario) come garanzia di completa libertà dal lavoro per qualche mese. Quando, con il ’78, i nuovi assunti entreranno a Mirafiori, il senso e il peso di questo processo di costituzione diventeranno chiari. La nuova forza-lavoro, che entra in fabbrica dopo il ’77, non solo stenta nel riconoscere come propri i modelli di conflittualità dell’operaio massa, ma addirittura li disconosce, non li sente suoi e non li pratica, non li può praticare perché li vede spiazzati e insufficienti. Lo stare in fabbrica si rovescia nel suo contrario, diventa il provvisorio, il «fino a quando…», il muoversi in una prospettiva di breve periodo, di tempi brevi. È vissuto in tutte le sue manifestazioni come esperienza per nulla indispensabile alla socializzazione, come ciò che si deve dimenticare, lasciarsi dietro dopo il tempo di morte quotidiano. Un Egitto da cui fuggire e da lasciarsi alle spalle.

Fare appello a un esodo è richiamare una serie di tradizioni legate a significative esperienze antagonistiche, le quali lo caratterizzano come una sottrazione intraprendente e un congedo fondativo. Nell’ambito postfordista, per esodo si è inteso una defezione di massa dallo Stato e un modello d’azione politica del tutto sottratta alla sfera esistenziale; dunque, un modello d’azione capace di misurarsi con le categorie politiche della modernità, senza rimanere paralizzato dalla mesta dialettica tra accettazione e trasgressione. Il diritto alla fuga non incarna perciò un atteggiamento passivo ma, piuttosto, tende a realizzare un esempio, nell’ambito di un ambiente caratterizzato da ricchezza latente e molteplicità di possibilità [11]. Pertanto, all’esodo non appartiene alcuna resa di conti; il rimando non consiste nello spostare in avanti uno stesso conflitto, ma nel modificarne le regole. Come dice lo stesso Walzer, all’Esodo non appartiene alcuna battaglia definitiva, «ma piuttosto una lunga serie di decisioni da prendere», in quanto non c’è alcuna guerra apocalittica tra il popolo di Dio e i suoi nemici, non c’è riedizione possibile di un già stato.

Alquanto lontana dalla radicalità politica di questo pensiero è quindi l’idea hirschmaniana di defezione (exit) [12], molto più vicina al conflitto di razionalità di stampo schumpeteriano che all’alterità marxiana [13]. L’exit è infatti il tipico atteggiamento estremo appartenente alla sfera economica (al consumatore, che può decidere di sostituire o abbandonare una merce), distinto dalla voice, che è atteggiamento proprio alla sfera politico-rappresentativa (al cittadino, che può decidere di protestare a fronte di decisioni che considera inaccettabili). Voice è opzione partecipativa e protestataria; exit è il defezionare, l’abbandono e il sottrarsi – ove la defezione consente altre partecipazioni, ovvero riscatta l’inincidenza totale della voce. Voice è «mezzo» di partecipazione ai sistemi democratici, exit è il non stare più al gioco. Va da sé che tra le due opzioni si danno molteplici intrecci (la minaccia della defezione può rafforzare una voce debole…), complicati, soprattutto, dall’emergere della funzione, non meno essenziale, di lealtà (loyalty). In altri termini, poiché sia la voice (partecipazione), sia l’exit (defezione) rappresentano dei costi per l’individuo, egli li calcola tenendo conto del grado di lealtà (loyalty) che prova rispetto al sistema politico-economico da modificare o abbandonare: maggiore è il grado di lealtà, maggiore è l’influenza esercitata dall’opzione voice – contrariamente accade per la defezione. Consumatore e cittadino – ovvero il cittadino-consumatore – sono categorie chiaramente implicate nella più critica delle condizioni della modernità; per questo, la defezione richiamata da Hirschman è una sorta di gioco delle parti, in cui solo in apparenza l’opzione estrema, l’exit, è tale – giacché è piuttosto minaccia che abbandono.

Alla politica dell’esodo in quanto tale appartengono invece altre opzioni, radicali: quelle appartenenti all’onda lunga dei movimenti italiani, certamente, nonché quelle che sono proprie a forme di geopensiero «geneticamente» eretiche. Penso ad esempio all’incunearsi nel dibattito cyberpunk di un contributo quale quello di Hakim Bey che, sulla scorta di una personalissima storia minoritaria, costellata di ricorrenti «enclave libere», sottratte allo Stato, di «isole nella rete», ha focalizzato l’attenzione sul concetto di Temporary Autonomous Zone (Taz) [14]; una sorta di luogo-mezzo di sollevazione ripetuta, che libera spazi di terra, di tempo, di immaginazione, per poi dissolversi senza mai giungere allo scontro diretto con gli apparati dello Stato, dal momento che la grande forza della Taz consiste proprio nel suo essere invisibile ma reale, nella sua capacità di agire senza essere notata e di muoversi prima che la mappa possa essere aggiornata, nel suo divenire minoritario.

Come osserva opportunamente Bronzini, infatti, è solo abbandonando il terreno della sfida con lo Stato (non della politica) che i movimenti possono sottrarsi a quella eterogenesi dei fini per cui, per far fronte all’avversario, si accetta il terreno della burocratizzazione dell’esperienza politica. La disobbedienza e la sottrazione, in quanto implicano un’azione che non può essere delegata e conformata – poiché è costituita dall’allinearsi di tante decisioni singole –, sono democratiche e orizzontali per definizione [15] e rimandano a una moltitudine. In ultima istanza, l’esodo, la sua forma-politica, è sempre pratica di una moltitudine, non di un «popolo-nazione».



Note [1] G. Agamben, Politica dell’esilio, «DeriveApprodi», 16, 1998. [2] M. Weber, Economia e società, I, Edizioni di Comunità, Milano 1974, p. 539. [3] M. Walzer, Esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1986. [4] Ivi, p. 19. [5] D. Grossman, Introduzione, in Esodo, Einaudi, Torino 1999. [6] K. Marx, Il Capitale. Per la critica dell’economia politica, I, 1, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 230; F. Fox Piven – R.A. Cloward, I movimenti dei poveri, Feltrinelli, Milano 1980, p. 116; K. Allsop, Ribelli vagabondi, Laterza, Bari 1969, pp. 317-325. [7] Cfr. M. De Carolis, Tempo di esodo, manifestolibri, Roma 1994, pp. 72-76. [8] M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966. [9] S. Bologna, a cura di, La tribù delle talpe, Feltrinelli, Milano 1977. [10] A. Magnaghi, Il territorio nella crisi, «Quaderni del territorio», n. 1, 1976. [11] P. Virno, Mondanità. L’idea di «mondo» tra esperienza sensibile e sfera pubblica, manifestolibri, Roma 1994, pp. 98-103. [12] A.O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano 1982. [13] J.A. Schumpeter, Il processo capitalistico, Boringheri, Torino 1977, p. 140. [14] H. Bey, T.A.Z. Zone temporaneamente autonome, ShaKe, Milano 1993. [15] G. Bronzini, Diritto di resistenza, «Luogo comune», n. 4, 1993.

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